tag:blogger.com,1999:blog-8496842660315703342024-02-07T07:19:00.021+01:00SHE'S OVERBOREDDanielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.comBlogger129125tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-85836591908186295282021-02-23T22:14:00.000+01:002021-02-23T22:14:50.358+01:00Velvet Goldmine (Todd Haynes, 1998)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiXELvbJ7qFpk9ZYKlc46ZhgkESOs_rHrYfyixn4EU7A5YGbORVkg9W8ejaKeYPVq4hoAAZNeuU5WKBeXFDbimMsCpoKrx070ssGmPCdNSzh4_WWzbFg-W8fzIJSpXbGuuFPUNAKBzdnec/s800/velvetgoldmine.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="800" data-original-width="685" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiXELvbJ7qFpk9ZYKlc46ZhgkESOs_rHrYfyixn4EU7A5YGbORVkg9W8ejaKeYPVq4hoAAZNeuU5WKBeXFDbimMsCpoKrx070ssGmPCdNSzh4_WWzbFg-W8fzIJSpXbGuuFPUNAKBzdnec/w343-h400/velvetgoldmine.jpg" width="343" /></a></div><p style="text-align: justify;">«Anche se il film che state per vedere è un'invenzione, dovrebbe essere proiettato al massimo del volume.» Con questa didascalia, ripresa in parte da una frase presente sull'album <i>The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars</i> (1972) di David Bowie, inizia <i><b>Velvet Goldmine</b></i>. Lo schermo si riempie di stelle e un disco volante solca il firmamento con l'obiettivo di lasciare sulla Terra un curioso dono: un neonato che si chiamerà <b>Oscar Wilde</b>, il progenitore, secondo la pellicola, dell'effimero fenomeno del <b>glam rock</b>, al cui centro si trova la grande star <b>Brian Slade</b> (Jonathan Rhys Meyers), scomparsa nel nulla dopo un finto omicidio durante un concerto nel 1974. Dieci anni dopo il giornalista inglese <b>Arthur Stuart</b> (Christian Bale), trapiantato in una New York grigia e orwelliana, è incaricato di scrivere un articolo sulla vicenda: mettendosi sulle tracce delle persone che hanno accompagnato l'ascesa e la caduta della rockstar dovrà fare i conti il proprio passato. </p><p style="text-align: justify;"><span></span></p><a name='more'></a><p></p><p style="text-align: justify;">Pur trattando, in realtà, di <b>personaggi inventati</b>, i riferimenti alla <b>reale scena musicale</b> dell'epoca sono pressoché infiniti, sovrapposti come strati di glitter su un costume di scena: <b>Brian Eno</b> e <b>Lou Reed</b>, entrambi passati in un modo o nell'altro per il glam rock, appaiono all'interno della ricchissima colonna sonora. Gran parte degli accadimenti della pellicola sono mutuati dalle cronache di quegli anni e dalle vite dei suoi protagonisti, primo fra tutti <b>David Bowie</b>. Il richiamo più consistente, tuttavia, è cinematografico: lo scheletro di <i>Velvet Goldmine</i> si ispira infatti ad una delle opere più influenti della storia del cinema, <i><b>Quarto potere</b></i> (<i>Citizen Kane</i>, Orson Welles, 1941), tanto da riportarne in scena situazioni ed immagini ben precise. Al rigore quasi matematico delle inquadrature profondissime di Gregg Toland, però, si sostituisce <b>un'aerea creatività</b>, che utilizza spesso e volentieri la <b>camera a mano</b> e lo <b>zoom</b>, non disdegnando di prendere in considerazione qualunque stratagemma, financo le Barbie, per raccontare la propria storia. Se ad essere oggetto della ricerca è sempre <b>la verità</b>, mancano, in questo caso, criptiche parole di cui decifrare il significato: al di là della vicenda di <b>Brian Slade</b> e del suo <b>alter ego Maxwell Demon</b>, ricalcati entrambi, essere umano e maschera, sulla figura di <b>Ziggy Stardust</b> e del suo creatore, <b>David Bowie</b> (che per una serie di ragioni rifiutò di essere direttamente coinvolto nella pellicola), ciò che si trova davvero al centro dell'indagine è il tentativo di afferrare <b>il senso di un'epoca</b> nata e morta tra la scoperta della pillola e quella dell'Aids, immersa in una <b>sperimentazione artistica e sessuale</b> apparentemente senza alcun limite. Il rapporto attorno al quale il film s'incardina è quello tra Brian Slade e il musicista americano <b>Curt Wild</b> (Ewan McGregor), unione dei tratti salienti di <b>Iggy Pop</b> e <b>Lou Reed</b>, il cui carattere animalesco e sensuale si pone in contrasto con quello algido e calcolatore della rockstar britannica, un modo per simboleggiare anche, secondo il regista, la complicata relazione tra la musica statunitense e quella del Regno Unito. La performance con cui il personaggio di Curt Wild si presenta agli spettatori è un chiarissimo manifesto di poetica affidato a benzina, sesso, urla sguaiate e fiamme. A fare da testimone a tutto questo è chiamato <b>Arthur</b>, che osserva da sotto il palco le <b>immagini titaniche</b> proiettate da tali personalità, se ne innamora, le venera come la promessa di una possibile liberazione da una vita vissuta di nascosto. La chiusura della vicenda porta con sé un tentativo di risposta agli interrogativi della trama dal sapore amaro e dolce insieme, una <b>riappacificazione</b> con i lasciti di eventi ormai irrimediabilmente appartenenti ad un passato sempre più lontano nella memoria. </p><p style="text-align: justify;"><i>Velvet Goldmine</i> è un film dalla struttura complessa e dai molteplici rimandi, ma sceglie di rapportarsi allo spettatore facendo appello ai suoi <b>sensi</b>, tratteggiando il proprio messaggio sulla superficie degli elaborati <b>costumi</b> (nominati agli Academy Awards), facendo di essi non elemento di sostegno ma struttura portante. È attraverso il trucco e i vestiti che <b>Jack Fairy</b> (Micko Westmoreland), capostipite ideale del movimento, definisce se stesso, ed è tramite il cambiare delle fogge, dei colori e dei tessuti che si struttura la duplice identità di Brian Slade e del suo alter ego. La pellicola stessa è una fitta trama poco naturalistica di momenti narrativi, riflessivi e di puro spettacolo dipinti a <b>colori intensi e carichi</b>, senza paura di esagerare. I pesanti ricami barocchi non sono qui un puro elemento decorativo, sono piuttosto l'espressione materiale dell'essenza stessa del racconto. </p><p style="text-align: justify;">Non è poi così difficile rimanere perplessi di fronte a <i>Velvet Goldmine</i>, al suo <b>accumulo compulsivo</b> di suggestioni, impulsi, lampi creativi ed innocente lascivia; se ci si lascia coinvolgere, però, si scopre un film intelligente e appassionato, le cui mura riccamente stuccate sono sostenute da salde fondamenta. </p><div><br /></div>Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-76037985590067345552021-02-23T21:02:00.000+01:002021-02-23T21:02:02.767+01:00Piccoli omicidi tra amici (Shallow Grave, Danny Boyle, 1994)<div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjHNCdrQN_VMyxGBfubpUqgVBqe4zeGONSoU5UDRDZ_haJMRcOoGTvWVmALFF-agEnZKVz16_uqwIcCYiIHBCe63mHbeOJiIN0Z2s78aQl1NHjxHWQ_4pcaGInY3FCAoLBO1Z5xbhIJCww/s600/shallowgrave.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="600" data-original-width="425" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjHNCdrQN_VMyxGBfubpUqgVBqe4zeGONSoU5UDRDZ_haJMRcOoGTvWVmALFF-agEnZKVz16_uqwIcCYiIHBCe63mHbeOJiIN0Z2s78aQl1NHjxHWQ_4pcaGInY3FCAoLBO1Z5xbhIJCww/w284-h400/shallowgrave.jpg" width="284" /></a></div><br /><b><br /></b></div><div style="text-align: justify;"><b>Danny Boyle</b> è solito affermare durante le interviste che il miglior film di un regista è il primo che ha diretto. Cosa possiamo dire, quindi, su <i><b>Piccoli omicidi tra amici</b></i>, il suo esordio al cinema dopo anni di lavori teatrali e televisivi? <span><a name='more'></a></span><span></span></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Al centro della vicenda ci sono <b>tre giovani professionisti</b> che condividono un grande appartamento a <b>Glasgow</b>: l'introverso commercialista <b>David</b> (Christopher Eccleston), la dottoressa dal carattere forte <b>Juliet</b> (Kerry Fox) e lo spregiudicato giornalista <b>Alex</b> (Ewan McGregor). Dopo lunghe ed accurate ricerche, documentate da un veloce montaggio di momenti differenti in cui i protagonisti mostrano tutta la loro <b>autocompiacente perfidia</b>, i tre si imbattono in un <b>misterioso individuo</b> che pare loro adatto a diventare il quarto coinquilino. I problemi iniziano quando quest'ultimo viene ritrovato <b>morto</b> nella sua stanza il giorno seguente, insieme ad una <b>valigia piena di denaro</b>. La decisione di far sparire il cadavere e dividersi il bottino sarà carica di conseguenze e cambierà irrimediabilmente il loro rapporto, facendo emergere <b>conflitti e psicosi</b>.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">La sequenza su cui appaiono <b>i titoli di testa</b>, in cui la macchina da presa corre per le strade della città e cammina tra gli alberi di un bosco accompagnata da un pezzo di musica elettronica, è, secondo me, quella invecchiata peggio. Le scene sono dipinte con tocchi rapidi, la regia sembra spinta da <b>momentanee ispirazioni</b>, nate con il passare dei minuti sul set, ma le idee messe in mostra non sono per questo sciatte o poco efficaci. La <b>dissezione notturna</b> del possessore della valigia, girata in un buio quasi completo ed utilizzando poche luci, è molto evocativa: il maggiore centro di interesse della scena è tenuto fuori campo il più possibile, lasciando così agli effetti sonori il compito di raccontare quello che sta succedendo. Il <b>caotico resoconto</b> della giornata in cui Alex e Juliet si dedicano ad acquisti pazzi è affidato alle riprese sgranate di una piccola videocamera, continuamente in movimento. In quest'ultimo segmento del film, tra l'altro, fa la sua prima comparsa il ridente bambolotto che ritornerà in <i>Trainspotting</i>. Gran parte delle inquadrature più interessanti ruota intorno alla <b>crescente paranoia</b> di David, che finirà per vivere quasi in un mondo parallelo ai suoi due amici, perennemente vigile e sempre pronto a difendersi. Il <b>ribaltamento di prospettiva</b> è continuo: le macchinazioni si intersecano e si intralciano a vicenda, il personaggio che sembrava avere in mano le carte migliori viene messo nel sacco da un altro. A questo proposito bisogna aggiungere che <b>gli attori protagonisti</b> sono azzeccati e offrono delle buone interpretazioni: Eccleston dona a David uno sguardo pensoso ed apatico, mentre McGregor presta ingannevoli sembianze angeliche ad Alex. La Juliet di Fox manovra entrambi con abilità e modi dimessi. Roger Ebert, critico cinematografico americano molto famoso oltreoceano, non giudicò all'epoca in maniera particolarmente favorevole la pellicola – che ebbe invece gran successo nei festival – perché riteneva che fosse impossibile identificarsi con dei protagonisti tanto odiosi e quindi interessarsi veramente alle loro vicende. Lungi da me tentare di controbattere all'opinione di un critico professionista e, senza ombra di dubbio, molto più cinefilo di me; tuttavia sono dell'idea che il film possa essere apprezzato molto di più se si guarda ai suoi personaggi con un certo <b>distacco</b>, come se si guardassero dei pesci combattere per il cibo in una boccia, sogghignando maliziosamente delle loro malefatte e aspettando di scoprire se i nodi verranno mai al pettine e in quale modo. Ebert apre <a href="https://www.rogerebert.com/reviews/shallow-grave-1995">la sua recensione</a> con una riflessione sugli stilemi classici dell'omicidio all'inglese, di cui <i>Piccoli omicidi tra amici</i> presenta più di una caratteristica specifica. I protagonisti sono professionisti della piccola borghesia che uccidono non per passione ma per <b>convenienza</b>, e una delle preoccupazioni principali è, ovviamente, disfarsi del cadavere. Alex, David e Juliet non uccidono Hugo, ma il parallelismo rimane comunque legittimo. La <b>strana complicità</b> che si instaura tra il delinquente e i tre protagonisti fa quasi pensare che Boyle e lo sceneggiatore John Hodge vogliano dirci che, in fondo, i quattro non sono poi così tanto diversi come le apparenze potrebbero far pensare, condividono qualcosa, forse una certa <b>amoralità</b>, che emergerà chiaramente negli eventi successivi del film. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">La <b>prima metà</b> del film è, credo, la più riuscita: la seconda, pur restando godibile e disseminata di eventi, sembra più sconnessa. L'ingresso in scena della polizia è un po' brusco, come tutto quello che riguarda l'indagine. Questo non significa, in ogni caso, che il finale non sia sorprendente e soddisfacente. È, ne sono cosciente, una questione di gusto personale, ma mi sarebbe piaciuto che <b>il gioco al massacro</b> tra i tre protagonisti fosse più marcato, più psicologicamente violento, anche se un simile orientamento avrebbe potuto intaccare il tono scanzonato e un po' ironico che scorre sotto tutto l'impianto narrativo e registico. Mi domando cosa sarebbe venuto fuori da un film simile se a dirigerlo fosse stato, per esempio, Polanski, anche se il lavoro di Boyle è comunque degno di nota ed apprezzabile. «I think your first film is always your best film. Always. It may not be your most successful or your technically most accomplished, whatever. It is your best film in a way because you never, ever get close to that feeling of not knowing what you're doing again. And that feeling of not knowing what you're doing is an amazing place to be. If you can cope with it and not panic, it's amazing. It's guesswork, inventiveness and freshness that you never get again», ha dichiarato il regista. <i>Piccoli omicidi tra amici</i> ha qualche difetto, ma si riesce comunque a sentire nei suoi fotogrammi l'odore di una libertà creativa che un altro film, con un budget maggiore e, conseguentemente, con maggiori responsabilità, non avrebbe potuto avere.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div>Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-64923086397170939272020-12-30T16:19:00.002+01:002020-12-30T16:37:25.261+01:00Fuori programma: AVANTI <p style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEicC5yjNTaTALcGXkol66vnELU3V7jaPetucIqpGnHX6uA97RCY96_tOsURl9uzLnSk093PD3ZThXOKhR4ASDVOs2BvgHiCjraycEXT_xBRmIfL2069HivbyW1K9fOl89W24rq4by1QQOE/s960/image1.jpeg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="539" data-original-width="960" height="225" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEicC5yjNTaTALcGXkol66vnELU3V7jaPetucIqpGnHX6uA97RCY96_tOsURl9uzLnSk093PD3ZThXOKhR4ASDVOs2BvgHiCjraycEXT_xBRmIfL2069HivbyW1K9fOl89W24rq4by1QQOE/w400-h225/image1.jpeg" width="400" /></a></div><p></p><p style="text-align: justify;"><i>Dopo molte più peripezie di quante ci saremmo mai potuti aspettare, siamo arrivati al termine del 2020. Negli ultimi anni ho riservato alle sole riflessioni cinefile questo piccolo spazio digitale, una scelta dopotutto assai ragionevole. Bisogna pur dare un obiettivo e una forma definita a un blog, non si può farne materia informe e confusa. L'altro giorno, però, mentre camminavo per strada, ho pensato che sarebbe stato bello concludere questo anno così strano tirando fuori dal cassetto un racconto scritto un anno fa e come al solito mai pubblicato, ma inviato soltanto a poche persone di fiducia, tra le quali non posso fare a meno di citare l'amico di vecchia data Andrea Calosso, che oltre a leggerlo con interesse lo ha anche corretto; colgo l'occasione per ringraziarlo. È una storia intima e un po' inquietante, nata dal bisogno di elaborare alcuni rapporti e il loro significato per me, forse addirittura un po' leziosa in certi frangenti. Avendola scritta principalmente per soddisfare una necessità personale, però, non mi sono preoccupata troppo del suo realismo, lasciando che andasse dove le pareva. Credo comunque che possa essere una compagnia abbastanza soddisfacente per chi si immergerà nelle sue righe, magari per il tempo di un tè. Non amo i buoni propositi, mi generano troppa ansia, ma se dovessi sceglierne uno per l'anno venturo, direi: essere più libera di scrivere, creare, andare fuori dai limiti che mi impongo da sola. Auguri a tutti e, per chi vorrà, buona lettura dopo l'intervallo.<span></span></i></p><a name='more'></a><br /><p></p><h2 style="text-align: center;"><b>AVANTI</b></h2><div><b><br /></b></div><div><b><br /></b></div><p style="text-align: justify;"><span> </span>Aveva già messo in valigia quel maglione blu. Se ne ricordava perfettamente: era il primo che aveva sistemato sopra la pila di jeans. Eppure era lì, disteso sul copriletto, come se l’avesse appena sfilato per cambiarsi. Sospirò. Lo prese tra le mani con rassegnata pazienza, lo ripiegò e lo sistemò alla bell’e meglio sopra la biancheria, non trovando dentro di sé la voglia di riordinare per l’ennesima volta il contenuto della valigia. Prese in mano il cellulare e guardò l’ora: era molto in ritardo. Certamente non sarebbe riuscita a rispettare la tabella di marcia che aveva stabilito nei giorni precedenti. Inviò un breve messaggio di scuse a Marco, il suo fidanzato: non sarebbe riuscita a raggiungerlo per cena, si sarebbero visti l’indomani al momento della partenza. Le rispose quasi subito, accettando la spiegazione che gli aveva dato con comprensione. Molto spesso, in simili frangenti, la sua tolleranza nei suoi confronti la stupiva. Si passò una mano sul volto stanco, sciolse e si rifece la coda in cui aveva raccolto i capelli: non sarebbe stato facile. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Si guardò attorno, scrutando la stanza. Il pavimento era disseminato di scatoloni pieni per metà: in realtà, molti li aveva sigillati ore prima, ma sentì nascere dentro di sé una punta di disperazione nel notare come in quel momento il nastro che aveva usato ciondolasse tremulo dai bordi, strappato con forza dal cartone. Sul davanzale erano ammucchiati alla rinfusa una manciata di libri, e sulle due mensole sopra la scrivania erano adagiate mollemente le sue sciarpe, penzolanti come serpenti che sonnecchiavano su un ramo. Dalle ante aperte dell’armadio si intravedeva qualche vestito, lanciato con poca grazia sopra l’asta per appendere le grucce. Sul letto, in mezzo alle valigie e ai borsoni spalancati, erano sparsi i suoi vecchi diari del liceo, consumati dal tempo e dall’uso. Stavano da anni nello scaffale più basso della libreria, e quasi non passava giorno senza che non lanciasse loro un’occhiata; ma quel giorno le sembrarono provenire da un’altra dimensione come mai prima d’allora. Prese tra le mani con delicatezza quello del suo secondo anno: le pagine dei giorni di scuola erano coperte dalla sua scrittura dell’epoca, ancora molto tondeggiante ed infantile, anche se il tratto, con lo scorrere dei mesi, si faceva sempre più preciso, avvicinandosi progressivamente a quello attuale. Lo aprì verso il fondo, sui mesi estivi. Trovò una lunga e sdolcinata dedica della sua migliore amica, Marta. Iniziava con un “Cara Camilla”, seguito da un cuore disegnato con un pennarello rosso. Accarezzò il foglio con delicata dolcezza. Sfogliando il diario ne vide molte altre, lunghe o brevi. Non ricordava gli attimi precisi in cui erano state scritte, ma dalle profondità della sua mente sorse un’immagine vivida, che in sé ne conteneva molte altre, compresse l’una sull’altra dallo scorrere inesorabile del tempo. La sua migliore amica, seduta nel mezzo della fila di banchi al centro della classe, intenta a vergare parole affettuose per lei nella sua migliore grafia, trincerata dietro una pila di libri per proteggersi dagli sguardi inopportuni delle professoresse, la mano che passava in rassegna le penne alla ricerca del colore giusto per esprimere ciò che pensava il cuore. La luce calda del sole primaverile, che entrava dalle grandi finestre situate sul lato opposto della stanza, faceva risaltare il suo profilo delicato, il piccolo naso dritto, le labbra morbide, le lunghe ciglia scure, e rendeva particolarmente evidenti le sfumature dorate dei suoi lucidi capelli castani. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Erano state inseparabili per gran parte di quell’anno, dentro e fuori dalla scuola. Avevano preso l’abitudine di tornare a casa insieme già dopo le vacanze di Natale dell’anno precedente, e attraverso quel breve tratto di strada condiviso avevano forgiato un’amicizia profonda e sincera, un’alleanza che trovava le proprie radici più nelle reciproche differenze che nelle affinità. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Marta aveva sempre avuto un carattere forte ed impetuoso: in classe faceva continuamente domande e si lanciava sfrontatamente in discussioni che non poteva vincere, rimediando un discreto numero di note disciplinari. Camilla aveva supposto allora che ad allontanarla da provvedimenti più severi fosse stata soltanto la sua grande passione per alcune materie, come letteratura italiana e latino, abbastanza forte da compensare il suo quasi assoluto disinteresse per molte altre, in particolare quelle scientifiche. Dal canto suo, lei era sempre stata più disciplinata. Prendeva appunti placidamente, in silenzio, alzando solo di rado gli occhi dal foglio, e studiava il necessario per mantenere una buona media. Apprezzava molto alcuni argomenti, ma non prediligeva nessuna disciplina in particolare, tranne forse la matematica. I suoi temi erano spesso ben scritti e sufficientemente approfonditi, ma non avevano l’energia emotiva di cui ribollivano quelli di Marta, qualunque fosse l’argomento trattato. Nel corso degli anni aveva maturato la convinzione che ad attirarle l’una verso l’altra fosse stato proprio il loro modo diametralmente opposto di intendere il mondo. L’incontro tra i loro differenti punti di vista era per entrambe una continua scoperta. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Di quella specifica giornata non ricordava molto in particolare. Era stata banale e simile ad altre, assieme alle quali, nella sua mente, formava una foschia densa e confusa. Immaginava di aver alzato con tranquillità la testa dal libro nel momento in cui il campanello aveva suonato. Aveva iniziato a studiare da sola, perché il giorno seguente era prevista una molto temuta verifica di algebra e Marta era in ritardo. Si erano messe d’accordo per studiare insieme a casa sua all’uscita da scuola, ma non aveva risposto né ai suoi messaggi né alle sue chiamate. Se il resto delle sue memorie era oscuro, tuttavia, il momento in cui aveva aperto la porta era invece chiarissimo. La sua mano si era allungata verso la maniglia e l’aveva abbassata, poi aveva tirato la porta verso di sé. Un brivido di terrore l’aveva scossa dal collo fino alle anche: il volto terreo di Marta le era apparso di fronte come un incubo infiltratosi nella realtà, coperto di lacrime, gli occhi rossi e così spalancati da sembrare sul punto di rotolare giù dalle orbite. La sua migliore amica l’aveva fissata con il mento tremante, la gola piena di parole che non sembravano in grado di oltrepassare la barriera delle labbra senza scomporsi in un pigolio confuso. Incespicando, si era fatta da parte per farla entrare, sgomenta ed incredula, mentre sentiva il cuore picchiare violentemente contro le costole. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Marta era rimasta immobile vicino al divano, come se avesse voluto crollare su di esso ma ne fosse allo stesso tempo tremendamente spaventata. Avrebbe voluto avvicinarsi a lei, ma in quel momento le era sembrato di avere i piedi incollati alle mattonelle di marmo del pavimento, come se fossero stati trafitti da frecce da un invisibile cecchino. Nel silenzio, rotto soltanto dai respiri affannati di Marta, aveva sentito la presenza di qualcosa di immenso e terribile, che né allora né in seguito avrebbe mai trovato le parole esatte per descrivere. Era una disperazione così profonda ed oscura che penetrava nelle ossa e le svuotava dall’interno. Il telefono aveva squillato all’improvviso, facendola sobbalzare come se si fosse trattato di una scossa di terremoto. Continuando a fissare la sagoma della sua amica, di spalle rispetto a lei, si era avvicinata all’apparecchio e aveva risposto. All’orecchio le era giunta la voce tremante e lacrimosa di sua madre. Non l’aveva mai sentita così prima di allora. C’era stato un incidente meno di un’ora prima, in una stradina poco lontano da casa sua. A causa di un malore, un signore di mezza età aveva perso il controllo della propria vettura, una pesante berlina, e aveva sbandato sul marciapiede travolgendo un’adolescente. I soccorsi erano arrivati quasi immediatamente, ma la situazione era apparsa subito disperata. L’impatto con le lamiere della carrozzeria era stato troppo violento per il fragile corpo di Marta. La vita era fuggita da lei prima ancora che venisse caricata in ambulanza. A partire dalla sua mano aggrappata alla cornetta, una sensazione di gelo si era espansa nel suo corpo: dapprima aveva risalito il braccio, poi aveva raggiunto il collo e infine era affondata nel cuore e nello stomaco. I suoi pensieri si erano disciolti in una poltiglia insensata.</p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Non ricordava di aver riagganciato la cornetta; dopo quel momento nella sua memoria si trovava un vuoto che non sapeva riempire. Era come se il suo ippocampo avesse smesso tutto a un tratto di funzionare. Tutto quello che rimaneva erano brandelli di immagini e sensazioni, lunghe notti insonni passate a rigirarsi nel letto, il sudore freddo incollato alla pelle, Marta accovacciata dietro alla porta della sua stanza o sotto la scrivania, gli occhi umidi che rilucevano nel buio come perle, i singhiozzi che sembravano non avere fine, parole sconnesse, sussurrate come preghiere. Durante le due settimane successive non aveva rimesso piede a scuola. I suoi genitori, pienamente convinti che avesse bisogno di tempo e tranquillità per cercare di elaborare il trauma che aveva subito, erano stati molto comprensivi con lei. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Al funerale si era presentata l’intera classe e buona parte degli studenti delle altre; alcuni erano rimasti fuori, perché la chiesa non era abbastanza grande per contenere tutti. Nemmeno nelle più fredde mattine invernali i loro volti le erano apparsi così lunghi e pallidi. Il pianto inconsolabile della madre di Marta aveva riecheggiato lungo le volte, un suono tormentoso e tremendo. Lo sguardo di Camilla si era concentrato sui riflessi lucidi del legno chiaro della bara. Per lei era un evento assurdo, surreale. In quella cassa non poteva esserci la sua migliore amica, o almeno, non la parte più importante, perché era intrappolata nella sua stanza da letto come un canarino in gabbia. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Il sole era sorto e tramontato più volte dalla finestra della sua camera durante quei lunghi giorni solitari; le sottili linee di luce che le tende chiuse lasciavano filtrare danzavano attraverso lo spazio seguendo una cadenza ben precisa. Ogni tanto una di esse si era posata sulla tremante e silenziosa figura di Marta, passandole attraverso come se il suo corpo fosse stato modellato nel vetro. Era uno spettacolo affascinante e insieme mostruoso, tanto che Camilla aveva iniziato a pensare di essere scivolata in uno stato di febbrile follia. Anche se chiudeva gli occhi, non appena li riapriva lei era di nuovo lì, a pochi passi da lei, con gli occhi sempre pieni di lacrime. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Un po’ alla volta, però, silenziosamente, il profondo affetto che le aveva unite in precedenza aveva trovato il modo di riemergere, resistendo all’assurdità della situazione e riuscendo perfino a rafforzarsi. Durante una delle ultime notti di quell’esilio solitario Camilla si era svegliata all’improvviso, colpita da una lieve brezza fredda che sembrava essere riuscita a sfiorarle direttamente la pelle passando sotto le coperte e la maglia che indossava. Aveva aperto gli occhi e si era trovata faccia a faccia con Marta, distesa sul letto accanto a lei, sopra le coperte. Non aveva peso; era come se fosse stata soltanto di poco più densa di un’ombra. Mentre fissava intensamente la sua testa, Camilla era certa di essere riuscita ad intravedere attraverso di essa la sagoma del comodino e del libro che vi era poggiato sopra. Per la prima volta da quando il suono del campanello aveva frantumato il tessuto della realtà così come lo conosceva, la sua migliore amica le aveva parlato pronunciando parole di senso compiuto. Non piangeva più, il terrore era stato ricacciato in profondità da qualcosa di più forte. Dopo tanti anni Camilla non ricordava più che cosa le avesse detto, ma l’emozione che aveva provato nel risentire di nuovo la sua voce sicura e decisa era stata immensa, travolgente. L’alba del giorno successivo segnò in lei il nascere di una nuova determinazione. La tragica scomparsa di Marta dava alla sua esistenza un nuovo e più profondo significato, e il fatto che una parte della sua amica fosse rimasta accanto a lei, aveva riflettuto, lo dimostrava. Lo promise a Marta la sera prima di ritornare in classe: avrebbe vissuto tutte le esperienze che all’altra erano ormai precluse per sempre, condividendole. Non si sarebbe più accontentata di attraversare pigramente un giorno dopo l’altro, ma li avrebbe esplorati uno ad uno, per entrambe. Gli occhi della sua migliore amica, nell’ascoltarla, si erano illuminati di gioia e di riconoscenza.</p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Nelle settimane successive aveva partecipato al primo collettivo studentesco della sua carriera di liceale; in classe aveva iniziato a fare domande e osservazioni con meno timidezza. Studiava con un interesse che spesso sembrava del tutto alieno ai suoi compagni, che reputavano più degni di attenzione i piccoli, comuni drammi dell’adolescenza. Gradualmente, aveva cercato di ampliare il proprio orizzonte. Durante gli intervalli e le assemblee si era posta l’obiettivo di cogliere più occasioni possibili per far conversazione e conoscere persone nuove. Si era costruita, nel corso dei mesi, un gruppo di amici abbastanza nutrito con i quali uscire e divertirsi. Tornata a casa raccontava il giorno appena trascorso a Marta fin nei minimi dettagli, e la sua amica l’ascoltava sempre con vivo interesse. Non c’era nulla che le risultasse noioso o banale. Avevano continuato a fare i compiti assieme come al solito; i voti di Camilla erano in gran parte frutto del loro lavoro di gruppo. Le era capitato, a volte, di riuscire quasi a scordare quello che era successo. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Durante le vacanze natalizie del suo terzo anno aveva baciato per la prima volta un ragazzo; era uno studente di un’altra sezione, di un anno più grande di lei, che aveva conosciuto ad una festa organizzata a scuola dai rappresentanti d’istituto. Avevano iniziato a parlare quasi per caso sul finire della serata, e si erano ritrovati a scherzare e a lanciarsi occhiate fino al momento di andare via. Con un po’ di imbarazzo le aveva chiesto il numero mentre si avviavano all’uscita, e lei glielo aveva dato, sentendo dentro di sé un brivido di emozione. Erano usciti qualche giorno dopo, di pomeriggio, da soli. Le loro labbra si erano toccate sul marciapiede al momento di separarsi e tornare a casa, ed era successo con una naturalezza che Camilla non avrebbe mai immaginato possibile. Marta era stata felice per lei e aveva ascoltato il suo resoconto dell’incontro rapita ed eccitata. Lei aveva dato il suo primo bacio all’inizio del secondo anno, al cinema, ad un ragazzo più grande di loro che aveva conosciuto su Internet. Avevano continuato a sentirsi per un po’, intraprendendo una relazione acerba che era presto terminata. Anche nel caso di Camilla la frequentazione era stata abbastanza breve e non troppo approfondita, ma comunque accuratamente analizzata nelle lunghe riflessioni che lei e la sua migliore amica avevano condiviso la sera, prima che si addormentasse. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>C’erano stati in seguito altri appuntamenti e altri fugaci legami, che avevano superato i baci per esplorare ulteriori aspetti dell’intimità; Camilla si era accorta allora che la sua migliore amica aveva iniziato ad essere insofferente verso alcuni suoi racconti. Quando le descriveva un suo incontro con un qualche ragazzo, lei distoglieva lo sguardo e batteva le palpebre nervosamente. Sembrava che l’ascoltasse per dovere più che per piacere. Non aveva aspettato molto prima di chiederle le ragioni del suo comportamento, ma se in passato Marta non aveva mai avuto problemi ad esprimere i suoi sentimenti e la sua opinione sui più disparati argomenti, in quell’occasione aveva preferito barricarsi dietro una serie di risposte laconiche, rifiutando di aprirsi sinceramente con lei. Tuttavia, osservando il volto teso ed immobile della sua migliore amica, al quale si accostavano i gesti rigidi e veloci delle mani che intrecciavano nervosamente i capelli incorporei, Camilla aveva creduto di comprendere cosa stesse alla radice del suo turbamento. Marta non avrebbe mai potuto conoscere ciò che stava oltre i casti baci adolescenziali; la sua naturale esplorazione della dimensione sessuale dell’esistenza era stata interrotta quasi sul nascere, e ciò che rimaneva di lei non era che un’ombra in grado soltanto di osservare ciò che aveva attorno, senza poter partecipare ai rituali e agli eventi della vita. Il supplizio di Tantalo. Camilla aveva sentito il proprio cuore sprofondare dolorosamente nel senso di colpa. Da quel momento aveva smesso di parlare troppo apertamente delle proprie avventure con il sesso opposto a Marta; aveva imparato a raccontarle ciò che le succedeva censurando ciò che sapeva poterla disturbare. Era sempre stato evidente, ai suoi occhi, che Marta potesse facilmente intuire che in quei discorsi c’era molto di non detto: ma sembrava che questo non la irritasse, e che anzi la rendesse felice. In un certo senso, aveva ragionato tra sé e sé Camilla, era un atto d’affetto nei suoi confronti. Per la stessa ragione aveva cominciato ad evitare di invitare altre persone ad entrare nella sua camera; nel caso di relazioni sentimentali il divieto di accesso si estendeva all’intera casa. Ogni tanto le era capitato di sentirsi come la sacerdotessa di un tempio sacro e inaccessibile a chiunque, pieno di segreti che non potevano essere rivelati. Era un incarico che considerava nobile e magnanimo, anche se spesso estremamente faticoso.</p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Dopo l’incidente Camilla aveva tenuto Marta costantemente aggiornata su quanto succedeva in classe e in tutta la scuola, così approfonditamente che a volte si era resa conto di essersi scordata che la sua migliore amica non metteva piede in quel luogo da anni. L’esame di maturità era stato un rito di passaggio per entrambe. La notte prima del tema di italiano l’avevano passata insieme, sedute sul letto in mezzo ai libri e ai quaderni aperti, non tanto per ripassare quanto per ricordare ciò che era stato. Oltre all’ansia da prestazione, c’era anche un’altra angoscia a turbarle: nel giro di qualche settimana si sarebbero separate per sempre dal luogo che le aveva unite, e Camilla avrebbe avuto di fronte a sé una nuova vita da iniziare. Nessuna delle due aveva avuto il coraggio di verbalizzare la domanda che aleggiava nell’aria: il loro legame sarebbe sopravvissuto a questo cambiamento? </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Dopo l’orale quell’estate era stata per Camilla un grande giro di giostra. Le era sembrato che l’universo intero si fosse dischiuso di fronte a lei, pieno di possibilità da cogliere liberamente. Non c’era stato giorno in cui non fosse uscita insieme ai suoi amici per andare da qualche parte, ad esplorare luoghi sconosciuti e a fare nuove esperienze. Pochi mesi prima aveva preso la patente, ma solo in quelle lunghe nottate calde, al volante della macchina di sua madre, aveva iniziato a sfruttarla e ad apprezzare davvero le possibilità che le permetteva di cogliere. Si sentiva parte di una combriccola festante e vagabonda, perennemente in cerca di avventure. Insieme a tutti gli altri era andata una settimana in campeggio in una località di mare poco lontana. Avevano vissuto in stretto contatto tra loro e con la natura, con l’intensità e la spensieratezza di una farfalla che non ha che poche ore di luce da vivere. I dubbi, le aspettative e i timori su ciò che sarebbe venuto da settembre in poi erano affidate a brevi discussioni sussurrate tra le tende, nella penombra fresca e silenziosa prima dell’alba. Nelle profondità del proprio animo, e in particolare durante quei giorni lontana da casa, Camilla aveva sentito un forte senso di colpa accumularsi lentamente, goccia a goccia. Non aveva potuto fare a meno di pensare a Marta, isolata e impossibilitata a partecipare ai grandi festeggiamenti. Mentre loro tutti, tra gli scherzi e le risate che in fondo servivano a nascondere la paura, si allontanavano dalla riva per inoltrarsi nell’oceano della vita adulta, la sua migliore amica non avrebbe potuto far altro che guardarli dal bagnasciuga, senza poterli seguire. Eppure, nonostante l’insorgere di tanti radicali cambiamenti, Marta non le era sembrata per nulla rattristata, né prima che partisse né quando era tornata. Da quando aveva smesso di parlarle delle sue avventure sentimentali le sue profonde angosce sembravano essersi calmate. Gli oggetti sembravano rispondere al suo tocco come sollecitati da un campo magnetico; era un fenomeno affascinante da osservare e oltretutto, aveva riflettuto Camilla, rendeva le sue giornate solitarie un po’ meno tediose. Aveva passato mesi a sfogliare attentamente gli opuscoli delle varie facoltà universitarie; appollaiata sulla sedia della scrivania, dove amava sedersi anche prima dell’incidente durante i loro pomeriggi insieme, scandagliava Internet dal computer di Camilla alla ricerca di ulteriori informazioni e consigli. La scelta del corso universitario la riempiva di gioia ed eccitazione come se avesse riguardato anche il suo futuro. Ne avevano parlato molto durante gli ultimi pomeriggi di agosto e Camilla, a distanza di anni, si era convinta che la sua presenza e il suo sostegno erano stati fondamentali per lei in quel momento. Dopo molti dubbi e ripensamenti aveva scelto Economia, concordando con Marta che si trattava della scelta migliore per lei, che era sempre stata così razionale, organizzata e soprattutto molto portata per le scienze e la logica. Tra sé e sé Camilla aveva ipotizzato che se il destino fosse stato più clemente con lei, la sua migliore amica avrebbe scelto di dedicarsi a qualcosa di creativo, e se l’era immaginata come sarebbe stata, con gli occhi lucidi e pieni di emozione, vestita in colori sgargianti alla sua prima lezione universitaria. Aveva immaginato i messaggi che si sarebbero scambiate, i caffè che avrebbero condiviso ogni tanto per raccontarsi le reciproche esperienze. Di queste sue malinconiche fantasie non aveva mai parlato a Marta; soprattutto dopo aver effettuato l’immatricolazione, quando ormai tutto era stabilito e non c’era più nulla su cui sognare, aveva notato che a volte la sua migliore amica assumeva un atteggiamento distante, perdendosi a guardare nel vuoto con un’espressione stanca, e aveva temuto che con simili discorsi non avrebbe potuto fare altro che deprimerla ulteriormente. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Del suo primo giorno di lezioni Camilla ricordava distintamente il profondo senso di smarrimento; il corridoio principale dell’immenso edificio in cui aveva passato la giornata le era sembrato l’atrio di una stazione privo di indicazioni, in cui sembrava quasi impossibile raggiungere il treno che si stava cercando. Tutti i ragazzi e le ragazze che le erano passati accanto sembravano sapere dove andare, come sospinti da un vento che lei non riusciva a sentire. Quando si era seduta in uno dei posti della grande aula che, dopo un po’ di ricerche, aveva finalmente trovato, aveva preso un gran numero di appunti sentendosi insieme affascinata e confusa. Aveva supposto di non essere l’unica a provare questa sensazione tra i molti che lì dentro, come lei, stavano vivendo per la prima volta quell’esperienza; ma nessuno sembrava mostrarlo. Nessuna mano aveva tremato, nessuna voce aveva balbettato, nessun paio d’occhi si era alzato perplesso dal quaderno sotto di sé. Tutti, compreso il professore, sembravano seguire il ritmo di una musica per lei inudibile. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>In quei primi lunghi mesi, e per molti di quelli a seguire, Marta era assurta a pilastro della sua esistenza. Non frequentava più spesso come in precedenza i suoi amici, impegnati al pari di lei nell’imparare a destreggiarsi tra nuovi impegni ed orari, e con i suoi compagni di lezione non aveva ancora instaurato rapporti molto stretti; il fulcro delle conversazioni era sempre un esame, un libro da studiare o un dubbio su qualche argomento. Spesso fuori dalla sua stanza si era sentita persa, come se fosse stata immersa nel bel mezzo di un grande specchio d’acqua ai bordi del quale non vedeva nessuna chiara destinazione. Quando tornava a casa vedere Marta in camera sua, seduta ad aspettarla, la faceva sentire rincuorata. La loro routine era sempre la stessa: le raccontava la sua giornata, discutevano più o meno a lungo su qualche evento in particolare e poi si mettevano a studiare insieme, come avevano continuato a fare. Camilla aveva sempre pensato che a Marta l’economia piacesse poco o addirittura per nulla, ma aveva supposto che se ne interessasse comunque per poterle stare accanto nel suo percorso. Quando non la seguiva nelle sessioni di studio, Marta leggeva i libri che Camilla prendeva in biblioteca appositamente per lei o esplorava il mondo virtuale attraverso il computer. La diffusione capillare dell’uso dei social network avvenuta in quel periodo le aveva dato la possibilità di esistere almeno su un piano del reale: si era creata un profilo sotto un falso nome su Facebook e passava molte ore a parlare con altre persone su pagine e gruppi che trattavano argomenti a lei congeniali. Camilla pensava, con il senno di poi, che quello fosse probabilmente stato il periodo più felice che avevano passato insieme dopo l’incidente. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Con il tempo Camilla aveva costruito nuovi rapporti di amicizia e rinsaldato alcuni di quelli vecchi. Aveva ricominciato ad avere una vita sociale intensa e frenetica; andava a sentire conferenze e concerti, al cinema, a ballare, a visitare musei. Al centro del suo continuo vagabondare, tuttavia, c’era sempre Marta, chiusa nella sua stanza ad aspettare il suo ritorno, ad ogni ora del giorno e della notte. Camilla aveva accettato molto raramente inviti a dormire fuori casa; non avrebbe sopportato di lasciare sola la sua migliore amica troppo spesso e troppo a lungo. Era un dovere che aveva sentito di avere nei suoi confronti, almeno da quando aveva iniziato a passare molto tempo fuori casa, e che cercava di rispettare il più possibile. Sua madre aveva iniziato allora a suggerirle che era arrivato il momento di sostituire la sedia della sua scrivania, ormai vecchia e malandata tanto da essere quasi inutilizzabile, ma lei si era opposta strenuamente. Era l’oggetto che Marta preferiva della stanza e non avrebbe avuto il cuore di toglierglielo. Avevano parlato molto raramente di lei e della sua condizione in modo diretto: Camilla aveva sempre supposto che sarebbe stato troppo doloroso per lei. La sua assurda esistenza post-mortem si svolgeva tutta all’interno di quelle quattro mura, senza poter parlare con nessun altro che con lei. I suoi genitori non avevano mai potuto vederla né percepirla, anche se entrambe non erano mai riuscite a comprenderne davvero l’esatta motivazione. Marta poteva rendersi invisibile a suo piacimento anche di agli occhi di Camilla, ma lo faceva molto di rado, e mai troppo a lungo. Le aveva confessato una volta che non era particolarmente piacevole perché non essere vista da lei la faceva sentire fragile, una pura coscienza senza appiglio sulla realtà. Camilla non sapeva se Marta aveva mai cercato notizie su sua madre e suo padre: se lo aveva fatto non gliene aveva parlato, ma in realtà dubitava che ci avesse mai provato. Se anche fosse esistito un modo non era per nulla convinta che Marta l’avrebbe utilizzato. Mettersi in contatto con loro non avrebbe reso meno amara la sua situazione, e in fondo c’era la concreta possibilità che servisse soltanto ad acuire la sua e loro sofferenza. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Camilla aveva conosciuto Marco durante il suo penultimo anno di università. Si erano incontrati alla festa di compleanno di una loro amica comune in un locale del centro città, un sabato sera di novembre. Inizialmente non aveva saputo cosa pensare di quel ragazzo con le spalle larghe, i capelli ricci e la barba a chiazze, che si era messo a parlare allegramente e animatamente degli ultimi concerti che si erano tenuti nei dintorni con lei e con i suoi amici, lanciandole ogni tanto uno sguardo. Eppure i suoi occhi azzurri e sinceri, che brillavano dietro i piccoli occhiali tondi, l’avevano fatta sentire abbastanza ben disposta verso di lui da accettare di lasciargli il proprio contatto Facebook quando glielo aveva chiesto. Non aveva temporeggiato molto prima di proporle di uscire, giusto una manciata di messaggi in chat. Camilla aveva apprezzato il suo spirito d’iniziativa. L’aveva invitata a vedere uno spettacolo in un piccolo teatro del centro che lei non conosceva; nella sala non era presente un palco, e gli attori si esibivano in uno spazio vuoto al centro delle gradinate dove sedeva il pubblico. La scena era essenziale e i costumi altrettanto, ma le voci e le espressioni degli attori erano potenti abbastanza da creare ciò che non era materialmente presente. Era stata una rappresentazione affascinante e molto lontana da qualunque cosa avesse visto in passato Camilla. Marco si era rivelato uno studente di lettere con una sconfinata passione per l’arte drammatica e le aveva raccontato un sacco di aneddoti interessanti e curiosi, guardandola dolcemente negli occhi con un lieve sorriso stampato sulle labbra. Camilla aveva sentito nascere dentro di sé un’affezione calma e serena, una connessione che le dava un senso di profonda pace interiore, mai provata nei confronti di nessuno. Era quasi spaventata da quanto velocemente fosse sbocciata. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Quando erano usciti dal teatro egli le aveva proposto di andare a bere qualcosa in un locale poco lontano e lei aveva accettato senza nemmeno pensarci. Aveva seguito i suoi passi fedelmente e mentre camminavano sul marciapiede gli aveva preso la mano, spinta da un istinto irrefrenabile. Egli gliel’aveva stretta gentilmente, accarezzandole con delicatezza le dita. Avevano camminato per un bel po’ in mezzo alla calca del sabato sera, facendosi largo tra capannelli rumorosi di altri ragazzi raggruppati qua e là, ma lei si era sentita tranquilla e protetta come se si fosse trovata nel suo letto, avvolta in una calda coperta nel bel mezzo dell’inverno. La città le era apparsa come una bella e luminosa casa di bambola dove muoversi liberamente, senza paura. Avevano comprato un paio di bottiglie di birra in un locale e si erano seduti sui gradini di una chiesa che dava su una piazza piuttosto trafficata, uno accanto all’altra. Marco le aveva chiesto la sua opinione sullo spettacolo che avevano appena visto e l’aveva ascoltata con grande attenzione, riflettendo insieme a lei, da pari, senza voler esserle superiore o, al contrario, sentirsi inferiore, come molto spesso era capitato quando in passato era uscita con altri ragazzi. Avevano anche discusso riguardo alcuni dettagli che avevano interpretato in modo diverso, ma sempre con grande rispetto e mai con la presunzione di avere l’assoluta ragione. Dopo un po’ avevano iniziato a parlare di argomenti più personali, come le loro aspettative per il futuro, i propri timori, l’amore. Egli le aveva sussurrato i propri pensieri con grande franchezza e lei si era sentita spinta a fare lo stesso. In quella reciproca e liberatoria apertura Camilla aveva sentito il formarsi di un forte legame. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>L’aveva riaccompagnata a casa in macchina, guidando lentamente attraverso le strade ormai quasi del tutto deserte; avevano fatto molto tardi. Camilla ricordava distintamente di aver percepito il suo cuore battere con grande forza nel petto: per tutta la durata del viaggio di ritorno si era domandata, piena di eccitazione e paura come sull’orlo di un precipizio, se al momento di salutarla l’avrebbe baciata. Quando erano arrivati sotto casa sua, Marco si era girato verso di lei e l’aveva stretta a sé in un abbraccio che era durato una decina di secondi. Sentire il corpo di Marco attorno a sé e il calore del suo respiro lento accanto al suo orecchio era stata per Camilla una sensazione bellissima e molto intima. Aveva aperto il portone di casa sentendosi in armonia con l’universo intero, e salendo le scale del palazzo le era venuta voglia di cantare; soltanto l’ora tarda l’aveva spinta a trattenersi. Era entrata nella sua camera di soppiatto, cercando di non attirare l’attenzione di Marta, intenta a leggere un articolo sullo schermo del computer nel buio quasi assoluto. Si era sentita come una ladra che nasconde un gioiello preziosissimo tra i propri vestiti. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Il primo bacio era arrivato al secondo appuntamento, subito dopo essersi incontrati, poco lontano dalla fermata dell’autobus, in mezzo a orde di studenti liceali schiamazzanti. Camilla aveva sentito una parte di sé sciogliersi come miele, rilasciando una tenera dolcezza che non aveva mai saputo neppure di possedere. Avevano passato il pomeriggio impegnati in un gioco che si era inventato Marco in quel momento: cercare angoli, anfratti e rientranze dove amoreggiare non visti, non per vergogna o per paura, ma per il divertimento di abbandonarsi a un senso di infantile trasgressione. Camilla durante quelle ore si era sentita travolta da una felicità assoluta che non provava da molto tempo; con lui poteva ridere, dire stupidaggini, esporre i propri pensieri, non importa quanto profondi o leggeri. Marco era intraprendente, inventivo, pieno di entusiasmo per la vita e, cosa ancora più importante, sapeva trasmetterlo a chi aveva intorno. Faceva parte di una piccola compagnia teatrale e Camilla era andata a vedere un suo spettacolo dopo qualche settimana da quando avevano iniziato a frequentarsi: sul palco si muoveva sicuro e tranquillo, anche se lei era a conoscenza, perché gliele aveva confessate, delle tante insicurezze che aveva. Eppure nonostante tutto era in grado di restare aperto nei confronti del prossimo, senza alzare difese, e questo la colpiva e la faceva sentire orgogliosa di lui, e la incentivava a migliorare se stessa, a seguire il suo esempio. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Non aveva mai parlato direttamente di Marco con Marta; a dire il vero, per quanto riusciva a ricordare non l’aveva mai nemmeno nominato. Eppure era certa che la sua amica ne avesse intuito la presenza sin dagli albori della loro relazione. Ogni volta che era tornata a casa piena di gioia e di amore dai loro primi appuntamenti, lei l’aveva fissata intensamente, con sospetto, spalancando gli occhi e seguendo i suoi movimenti come un gatto randagio di fronte ad una minaccia. Non le aveva mai domandato nulla, ma in più di un’occasione aveva sospettato che aspettasse che si fosse addormentata per leggere i suoi messaggi. In quel periodo le era capitato sovente di trovare il cellulare fuori posto, con la batteria completamente esaurita nonostante la sera prima lo avesse caricato. Probabilmente avrebbe dovuto arrabbiarsi, ma i rimorsi della sua coscienza non glielo avevano permesso. Il senso di solitudine di Marta in quel periodo doveva essersi intensificato; Camilla passava sempre meno tempo nella sua camera. L’unica cosa che aveva nascosto di sé a Marco era proprio il suo inusuale rapporto con la sua migliore amica. Sebbene egli fosse estremamente comprensivo e sensibile, sarebbe stato troppo difficile, incredibile e doloroso da spiegare. Mantenere il segreto, tuttavia, nella sua opinione era stato quasi altrettanto arduo. Non le era mai stato possibile invitarlo a casa sua; aveva sempre temuto la reazione di Marta, che dubitava sarebbe stata in grado di subire in silenzio senza far presente in qualche modo il suo disappunto. Per studiare si trovavano in biblioteca al pomeriggio, e quando dormivano insieme condividevano il letto nella stanza di Marco, mai nella sua. Camilla quasi non riusciva a capacitarsi di come il ragazzo avesse potuto accettare compromessi tanto grandi, a maggior ragione poiché lei non era mai stata in grado di fornirgli una spiegazione ragionevole per quelle limitazioni. Di fronte ai suoi occhi allegri e sinceri non aveva avuto il coraggio di inventarsi problemi familiari inesistenti o qualche altra menzogna; gli aveva detto soltanto che c’era un motivo ma che non poteva parlargliene. Marco l’aveva guardata dritta nelle pupille, a lungo, facendola sentire trapassata da parte a parte da un raggio di luce invisibile ma potente, poi aveva sorriso e le aveva detto che le credeva, perché in lei non aveva visto nulla di malizioso. Anche se a volte quella sua incrollabile fede nel proprio istinto lo portava a peccare di ingenuità, in quel caso aveva permesso alla loro relazione di sopravvivere nonostante le avversità. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Con il passare del tempo Camilla aveva sentito la distanza tra lei e Marta aumentare inesorabilmente. Mentre lei trascorreva gran parte delle sue giornate a studiare e a scrivere la tesi, la sua migliore amica ascoltava continuamente le vecchie canzoni dei gruppi musicali che andavano di moda quando loro facevano il liceo e sfogliava nostalgicamente i suoi vecchi diari e quaderni. Camilla aveva provato a discutere con lei di quello che le passava per la testa in quel momento, ma aveva trovato che fosse diventato molto difficile farsi capire: i commenti e i pensieri di Marta erano quelli di sempre, tuttavia erano ormai passati molti anni da quando entrambe erano state entusiaste sedicenni e pochissimo era rimasto uguale ad allora. La sua amica, prigioniera di un’eterna adolescenza, non era più in grado di comprenderla davvero; se ne era presto resa conto lei stessa e l’averlo realizzato la faceva soffrire profondamente. Avevano iniziato a parlare sempre più di rado; per lo più condividevano silenziosamente uno spazio comune, ancora legate dalla grande forza di quello che era stato.</p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Camilla aveva trovato un buon lavoro nell’ufficio vendite di una grande azienda poco tempo dopo essersi laureata; anche se non si trattava di un’occupazione particolarmente appassionante o stimolante per lei, era pagata piuttosto bene. Marco, invece, si barcamenava tra tanti, piccoli lavori di poco conto mentre continuava a scrivere e recitare negli spettacoli della piccola compagnia di cui faceva parte, ottenendo discrete ed incoraggianti recensioni. Nel giro di qualche mese era stato in grado di prendere in affitto un monolocale all’ultimo piano di un vecchio palazzo nel centro della città, e spesso Camilla si fermava a dormire da lui. Durante le prime ore del mattino, guardando distrattamente il soffitto pieno di crepe illuminato dalle lingue di luce che entravano dalla finestra, portavano avanti lunghe discussioni sussurrate con un filo di voce. Ricordava che faceva molto freddo ed erano abbracciati stretti sotto le coperte quando lui per la prima volta aveva parlato di andare a vivere insieme. Era stata solo un’allusione, ma lei aveva sentito il suo respiro rallentare e un brivido salirle lungo la schiena. Ormai stavano insieme da qualche anno e, anche se si era immaginata che occasionalmente il poco realismo di Marco e il suo pragmatismo si sarebbero scontrati, non aveva faticato ad immaginare quanto avrebbe potuto essere bello e stimolante condividere una casa, non essere più separati. Quasi immediatamente, però, il piacevole flusso di questo pensiero aveva impattato violentemente contro un nome: Marta. Per iniziare la sua vita con Marco avrebbe dovuto abbandonarla. Non si era mai voluta chiedere davvero se l’esistenza in forma di spirito della sua migliore amica fosse strettamente legata alla sua stanza o alla sua casa, anche se era certa che in tutti quegli anni, nonostante il progressivo raffreddarsi dei loro rapporti, lei non avesse mai avuto intenzione di allontanarsi, rimanendo saldamente aggrappata al suo rifugio in un mondo che sentiva non appartenerle più. Toglierle quella sicurezza le era sembrato crudele, ma allo stesso tempo era diventata pienamente cosciente del fatto che non fosse possibile per lei rimanerle accanto per sempre, a meno di non sacrificare la sua stessa vita. Marta non sarebbe mai stata in grado di convivere con Marco, di accettarne la presenza e quello che significava. Camilla aveva temuto che per la sua migliore amica sarebbe diventato sempre più doloroso essere la silenziosa testimone della sua esistenza. Ogni piccolo o grande avvenimento le avrebbe ricordato tutto ciò che non avrebbe mai potuto avere, l’avrebbe costretta a soffrire costantemente a causa di un passato impossibile da cambiare. Del resto, aveva ritenuto che una situazione del genere sarebbe stata penosa e insopportabile anche per lei, e che avrebbe spento lentamente il suo entusiasmo privandola della felicità, spingendola all’inattività e al silenzio pur di non ferire Marta. Si sarebbe creata una terribile stasi che alla fine avrebbe consumato entrambe. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Nei meandri della sua mente Camilla aveva chiaramente stabilito quali fossero le azioni da compiere, ma, pur essendo profondamente convinta della loro correttezza, spostarle dal piano del puro ragionamento a quello della realtà era stato molto complesso. Aveva provato e riprovato tra sé e sé durante innumerevoli e tediose giornate di lavoro ciò che avrebbe voluto dire a Marta, ma ogni volta che tornava a casa e si trovava davanti a lei non riusciva a pronunciare neanche una sillaba di quelle parole che ormai conosceva a memoria. A volte capitava che chiacchierassero del più e del meno, del tempo o delle notizie del giorno. Camilla replicava con frasi brevi ed impersonali, senza rivelare quasi nulla delle sue emozioni e dei suoi sentimenti, nonostante le occasionali insistenze della sua amica. Il volto etereo e malinconico di Marta, con gli angoli della morbida bocca sempre più rivolti all’ingiù, le provocava una forte stretta allo stomaco tutte le volte che il suo sguardo cadeva su di esso. Era per lei la prova tangibile di come la sua migliore amica riuscisse comunque a percepire le sue intenzioni segrete e di quanto il solo intuirle la facesse profondamente soffrire. L’unico argomento che pareva in grado di risollevarle l’umore per un po’ era ricordare gli episodi del loro passato condiviso, ma Camilla trovava che per lei stesse diventando una conversazione sempre più difficile da sostenere. La sua memoria di quei tempi lontani si faceva sempre più sbiadita e imprecisa, mentre Marta rammentava qualunque dettaglio di ogni avvenimento, come se fosse successo soltanto il giorno prima. Il legame che da molto tempo le stringeva l’una all’altra nell’immaginazione di Camilla aveva cambiato natura; un po’ alla volta, da corda che teneva a galla entrambe si era tramutato in un cappio che si stringeva attorno ai loro colli, impedendo loro di allontanarsi da quella stanza, di accettare l’inevitabilità del cambiamento. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>In quei lunghi e bui mesi di indecisione e timore Marco non l’aveva mai abbandonata. Era rimasto al suo fianco, l’aveva accolta nel suo microscopico appartamento ogni volta che le era sembrato del tutto impossibile passare un’intera notte nella sua stanza senza sentire la propria mente lentamente e costantemente erosa dal ronzio incessante dei suoi pensieri negativi. Aveva asciugato le sue lacrime con le proprie dita e accarezzato le sue spalle tremanti, l’aveva baciata come se attraverso la propria bocca avesse potuto assorbire la sua sofferenza. Non aveva mai insistito per ottenere una spiegazione che lei riteneva di non essere in grado di dare, non aveva mai lasciato che i sospetti e le supposizioni che pure era naturale avere nella sua posizione lo dominassero. La purezza del suo amore per lei la sgomentava come un’apparizione divina e allo stesso tempo l’avvolgeva nel suo tepore, donandole conforto e sicurezza in un momento in cui non riusciva a trovarli dentro di sé. Eppure, nelle ombre violacee che erano apparse sotto gli occhi del ragazzo e nell’inusuale stanchezza che ogni tanto ammantava i suoi movimenti, Camilla poteva vedere quanto quella situazione pesasse su di lui come un masso invisibile che a poco a poco, nonostante la sua grande forza d’animo, lo schiacciava verso il basso. Molto spesso in quel periodo si era sentita affogare nell’immensità gelida del senso di colpa che provava verso di lui e verso Marta. Le era sembrato che l’intera città fosse sprofondata sul fondo di un’oscura fossa oceanica, trascinandoli tutti con sé. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>La chiave di volta si era presentata a sorpresa, sul finire di una lunga mattinata passata alla sua scrivania in ufficio a battere dati e numeri sulla tastiera del computer con il cuore pesante come se fosse stato rivestito di piombo fuso. L’avevano convocata in direzione poco prima della pausa pranzo e l’avevano informata che c’era un posto vacante nella sede della capitale: si trattava di un’ottima posizione nel reparto marketing, con mansioni più interessanti rispetto a quelle che svolgeva dove si trovava in quel momento e molto ben pagata. Visti i suoi risultati, la sua intelligenza e la sua passione avevano pensato a lei per occuparlo. Si era sforzata di ascoltare i responsabili con attenzione, cercando di arginare la moltitudine di emozioni che avevano preso ad agitarsi dentro di lei e che minacciavano di distrarla dalla situazione che aveva di fronte. Notando i suoi occhi spalancati e un po’ smarriti avevano aggiunto che le avrebbero dato qualche giorno per pensarci. Camilla aveva sorriso più che poteva, stringendo le loro mani e ringraziandoli. Quando era tornata alla sua scrivania per prendere la borsa e il cappotto e andare a pranzare si era accorta che le sue mani tremavano. Aveva faticato a mangiare, percorsa senza requie da scosse di felicità e terrore. Attorno a sé dopo tanto tempo aveva sentito qualcosa di nuovo, meraviglioso e terribile allo stesso tempo. Le parole che pronunciava e le azioni che compieva, anche le più banali, sembravano aver assunto una nuova e misteriosa importanza; dietro di esse non c’era più soltanto un dubbio nebuloso, ma anche una possibilità concreta che era possibile cogliere. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Quella sera aveva chiesto a Marco di cenare assieme in un piccolo ristorante che ad entrambi piaceva molto e, al momento del caffè, lo aveva messo al corrente della proposta che aveva ricevuto. Egli si era mostrato subito entusiasta: nel fondo delle sue pupille era ricomparso improvvisamente lo scintillio che Camilla non vedeva più brillare così forte da mesi. Le aveva detto che quella era una grandissima occasione: lei avrebbe ottenuto un lavoro più soddisfacente e vicino alle sue ambizioni, e lui dal canto suo avrebbe potuto inserirsi in un ambiente teatrale più vivo ed interessante rispetto a quello della loro città natale, di rilevanza nazionale. L’aveva assicurata che lasciare il suo lavoro e la compagnia teatrale non sarebbe stato un problema. Si sarebbero trasferiti e avrebbero potuto finalmente iniziare la loro vita insieme. Guardandola negli occhi, però, si era rabbuiato: non riusciva a capire perché lei avesse un’espressione così tesa, quasi triste. Camilla aveva abbassato gli occhi e l’aveva rassicurato, affermando che ovviamente era molto felice, era solo che l’eccitazione per quell’improvvisa novità l’aveva un po’ stancata. Egli le aveva sorriso e le aveva accarezzato una mano, le sopracciglia lievemente corrugate a dimostrare che un residuo di dubbio sulla sua sincerità comunque era sopravvissuto dentro di lui. Tornati al monolocale di Marco si erano infilati subito nel letto. A notte fonda Camilla si era ritrovata a fissare la debole luce elettrica dei lampioni che trapelava dalla serranda abbassata della finestra, incapace di trovare la pace necessaria ad addormentarsi. Preda della sua mente tormentata, le era sembrato di trovarsi sospesa sull’orlo di un precipizio profondissimo, impegnata con tutte le proprie forze a tenersi ancorata alla terraferma, consapevole che il più lieve soffio di vento l’avrebbe spazzata via. Anche se nelle sue fantasie a metà tra il sonno e la veglia non era riuscita a visualizzare il fondo dell’abisso, intuitivamente sapeva che se avesse lasciato la presa e si fosse lanciata sarebbe stata più felice di quanto era in quel momento e di quanto avrebbe mai potuto essere se avesse continuato a concentrare tutte le sue forze nell’opporsi alla gravità. Per saltare avrebbe dovuto affrontare il timore dell’ignoto, buttarsi senza guardarsi indietro. Nell’immobile silenzio della notte si sentì scossa da una scarica di adrenalina. Da quanto aspettava questo momento senza nemmeno averlo realizzato? Era la sua occasione per essere finalmente libera dalle pastoie del passato e pronta ad accogliere le incognite del futuro, e sentiva dentro di sé che se non l’avesse colta se ne sarebbe pentita a lungo, forse per sempre. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Era riuscita a sonnecchiare un po’ mentre albeggiava; quando le era sembrato opportuno era sgusciata silenziosamente fuori dal letto, si era lavata e vestita ed era sgattaiolata via prima che Marco si alzasse. Era arrivata al lavoro in anticipo e si era messa a compilare diligentemente documenti alla scrivania, gettando occhiate impazienti all’ora indicata in basso sullo schermo del computer. A metà mattinata si era alzata dalla sedia girevole e si era diretta verso gli uffici della direzione, chiedendo di essere ricevuta. Mentre compiva un passo dietro l’altro sul pavimento di grigio linoleum del corridoio le era parso di aver smesso di respirare, come se si fosse trovata in apnea su un fondale marino. Quando le avevano dato il permesso di entrare si era diretta subito verso i responsabili e aveva loro annunciato che avrebbe accettato l’offerta. Non aveva pensato: aveva agito guidata dall’istinto come un animale. Tutti le avevano sorriso e si erano complimentati con lei, elargendo consigli su come prepararsi al trasferimento e alla nuova posizione che avrebbe occupato. Aveva cercato di ascoltarli attentamente, ma concentrarsi sulle loro parole invece che sulle sue emozioni le risultava molto difficile, essendole d’improvviso sembrato d’esser diventata molto più leggera, quasi al punto di essere in grado di sollevarsi dal suolo e cominciare a galleggiare. L’aria che respirava, pur essendo intrappolata nelle grandi stanze e nei condotti di areazione di quel palazzo da tempo immemore, le pareva pura e piena d’ossigeno. Era stato come precipitare senza preavviso in una dimensione parallela, simile ma più luminosa e felice rispetto a quella che aveva abitato in precedenza. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Aveva informato i suoi genitori e Marco della decisione che aveva preso al termine della giornata di lavoro. Sua madre e suo padre inizialmente erano rimasti piuttosto interdetti; del resto, nei giorni precedenti non aveva accennato loro nulla riguardo la proposta che aveva ricevuto. Comunque si erano presto convinti, anche se Camilla era certa che sarebbe stato loro necessario ancora un po’ di tempo per metabolizzare davvero il grande cambiamento che di lì a poco sarebbe avvenuto. Marco, d’altro canto, era stato così felice della notizia che aveva abbandonato le prove con la compagnia a cui stava partecipando per correre ad incontrarla lungo la strada del ritorno e abbracciarla stretta, tanto da non farle più sentire l’aria gelida che sferzava sul marciapiede. Camilla gli aveva accarezzato amorevolmente la schiena, consapevole che quel momento rappresentava per entrambi il termine di mesi emotivamente molto difficili. Si erano baciati appassionatamente, senza prestare alcuna attenzione alla massa di gente che usciva dagli uffici o andava a fare compere prima della chiusura dei negozi, che ogni tanto urtava contro di loro. Quella sera, per festeggiare, erano andati a cena fuori insieme ai suoi genitori in uno dei ristoranti che preferivano e avevano fatto molto tardi. Camilla aveva iniziato ad informare anche i suoi amici, che avevano deciso all’unisono di organizzare una festa in suo onore. Avrebbe iniziato il nuovo lavoro tra tre settimane e lei e Marco prima di allora avrebbero dovuto occuparsi di una moltitudine di questioni, piccole e grandi. Avrebbero dovuto trovare un alloggio adatto e organizzarsi per il trasloco, e lui avrebbe dovuto licenziarsi e iniziare a cercare un nuovo lavoro. Camilla al solo pensarci sentiva l’agitazione infiltrarsi nei muscoli e irrigidirli, ma Marco non sembrava per nulla preoccupato. Quando erano tornati a casa e si erano salutati davanti al portone della sua casa, come erano soliti fare, gli occhi del ragazzo brillavano, nonostante la luce fornita dai lampioni e dalla luna fosse piuttosto debole. Per lui si trattava di una nuova, emozionante avventura in cui non vedeva l’ora di lanciarsi insieme a lei. Il suo entusiasmo la rincuorava; rinforzava in lei la convinzione che sarebbero stati in grado di affrontare qualunque difficoltà che si sarebbe presentata davanti a loro nei mesi seguenti.</p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Soltanto quando aveva acceso la luce in camera sua Camilla aveva realizzato che Marta doveva aver sentito i suoi genitori parlare del suo nuovo lavoro e dell’imminente trasferimento. Il cuore le era sprofondato nel petto, le era mancato il respiro. Si era sentita stupida ed incosciente per non averci pensato. Sembrava che un soffio di vento crudele e prepotente avesse strappato ogni oggetto dalla sua abituale collocazione: il pavimento era ricoperto dai libri precipitati disordinatamente dagli scaffali, e i suoi vestiti erano dappertutto tranne che dentro l’armadio, le cui ante erano completamente spalancate. Sul letto rimaneva soltanto il materasso; coperte e lenzuola formavano un groviglio confuso ai piedi della scrivania. La sua vecchia sedia, dove solitamente Marta la attendeva, giaceva ribaltata per terra, rotta come se fosse stata lanciata da una finestra. Fortunatamente la porta della camera era stata chiusa e i suoi genitori, tornando, non si erano accorti di quanto era accaduto. Non avrebbe saputo come spiegar loro l’incidente senza farli preoccupare e senza che la credessero pazza. Era rimasta sveglia fino alle prime ore del mattino a risistemare il minimo necessario per potersi muovere e trovare quello che le serviva: perdere tempo a riordinare davvero le era sembrato inutile, visto che nei giorni successivi avrebbe dovuto iniziare a selezionare e imballare ciò che avrebbe portato con sé nella nuova città. Quando aveva terminato si era infilata velocemente nel letto e si era addormentata quasi subito, troppo sfinita per dare ascolto alle preoccupazioni che pure aveva riguardo la sua migliore amica. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Inizialmente aveva creduto che si sarebbe trattato solo di qualche ora: era già capitato, in rare occasioni, che durante alcuni momenti di attrito Marta scomparisse brevemente. Le aveva detto in passato che nonostante non le piacesse, a volte le era stato utile per ragionare più lucidamente. Tuttavia i giorni si susseguivano senza che si rivelasse la minima traccia di lei. Camilla faticava ad addormentarsi; a volte le era sembrato, svegliandosi di soprassalto, di vedere la sagoma della sua migliore amica appollaiata sulla sedia traballante della scrivania, che aveva rimesso al suo posto nonostante fosse ormai inutilizzabile. Nel momento in cui osservava con più attenzione, però, si rendeva conto che si trattava soltanto di un’illusione data dall’abitudine. L’assoluto silenzio la innervosiva. Le sembrava addirittura che la stanza fosse diventata più fredda, percorsa da lievi correnti gelide come se fosse stata molto più grande, vuota e desolata di quanto era in realtà. Aveva cercato di passare meno tempo possibile al suo interno, e in verità non era stato difficile, considerati i numerosi impegni che la attendevano e le tante scelte che andavano soppesate e portate a compimento nel minor tempo possibile. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Insieme a Marco si era subito messa alla ricerca di un appartamento nella nuova città; dopo dieci lunghi giorni di analisi di annunci e invio di mail ne avevano trovato uno, non molto grande ma in una buona posizione. Una mattina avevano preso il treno all’alba ed erano andati ad effettuare un sopralluogo in loco. La casa era meno luminosa di quanto appariva nelle fotografie sull’annuncio, ma era sembrata ad entrambi abbastanza confortevole e adatta alle loro esigenze. Il proprietario era un signore anziano di poche parole ma tutto sommato cordiale. Camilla si era soffermata nella camera da letto mentre Marco aveva continuato a seguire l’uomo, che gli stava mostrando i pregi e le qualità dell’appartamento procedendo lungo il corridoio e soffermandosi davanti ad ogni stanza. Si era seduta sul materasso coperto dalla tela cerata e si era guardata intorno: in quella camera regnava un pacifico silenzio che sembrava invitare al riposo. Dalle persiane socchiuse del balconcino si intravedevano appena la strada e gli alberi del giardino poco lontano. La luce del sole pomeridiano riverberava sulle pareti, ricoprendo ogni cosa di una patina dorata. Tutto era esattamente come appariva, non c’era alcun mistero da proteggere o nascondere. La cassettiera appoggiata contro il muro era soltanto un vecchio mobile, il cui passato non apparteneva a lei, e le crepe sul soffitto imbiancato non nascondevano nessun ulteriore significato. In quei pochi minuti si era ricordata, dopo molti anni, quanto fosse liberatorio godersi la sola compagnia di se stessi all’interno di una stanza. Aveva avuto il forte presentimento che in quel posto lei e Marco avrebbero potuto essere molto felici. I suoi sensi di colpa nei confronti di Marta non si erano risvegliati fino a quando il treno del ritorno non aveva iniziato la sua corsa. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Per trasferirsi avrebbero viaggiato sulla piccola utilitaria di Marco, perciò gli scatoloni e i bagagli avrebbero dovuto essere preparati con attenzione, valutando cosa fosse più necessario e cosa invece potesse aspettare un viaggio successivo. Avevano speso parecchie sere nell’appartamento del ragazzo a scegliere gli oggetti, i libri e i vestiti da portare via e cosa invece lasciare indietro, temporaneamente depositato a casa dei genitori di lui. A Camilla sembrava incredibile che in un monolocale piuttosto piccolo come quello potessero accumularsi così tanti oggetti, dei quali forse appena la metà poteva essere davvero utile. Alla fine erano riusciti ad operare una cernita soddisfacente. Per quanto riguardava lei, era stata fermamente convinta che non le ci sarebbe voluta più di qualche ora per organizzare e preparare le sue cose: del resto, tutto ciò che possedeva si trovava dentro una singola stanza nemmeno troppo grande, e la gran parte di ciò che aveva accumulato lì dentro nel corso del tempo non era che un residuo del passato di cui era certa che non avrebbe più avuto bisogno. Tuttavia, pur essendosi riproposta per molti giorni di fila di iniziare, non l’aveva fatto fino all’ultimo pomeriggio antecedente alla partenza. Si era trattato di un comportamento inusuale per lei, che generalmente era molto precisa ed organizzata, e provocato, lo aveva compreso pur non volendolo ammettere, dal rimorso che provava nel portare a compimento l’azione che avrebbe comportato l’effettivo ed irreversibile abbandono di Marta. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Aveva iniziato ad approntare scatoloni e valigie con il cuore pesante: la scomparsa repentina della sua migliore amica, con cui aveva condiviso, a quel punto, più di metà della sua vita, la intristiva profondamente. Sapeva che non sarebbe stato per nulla semplice, ma le sarebbe piaciuto aver avuto il tempo di parlare di ciò che stava per succedere, anche se probabilmente non sarebbero riuscite a raggiungere un accordo tale da permettere loro di separarsi pacificamente; ma, al di là del risultato a cui avrebbe portato sul piano della loro relazione, almeno sarebbe servito a darle un senso di chiusura. Quel muro di silenzio calato così bruscamente, invece, le dava l’idea che tutto quello che non si erano dette fosse rimasto in sospensione nell’atmosfera, pesanti particelle di rancore e incomprensione che appesantivano l’aria che respirava. Lentamente e soprappensiero aveva aperto l’armadio e iniziato a scegliere cosa portare con sé. Aveva ancora molti vestiti risalenti ai tempi del liceo: erano almeno dieci anni che non ne indossava nessuno, ma li aveva tenuti comunque. Li aveva infilati tutti dentro una busta di plastica perché sapeva che era la cosa giusta da fare, ignorando la stretta alla gola che aveva sentito. Quando era da sola dentro quella stanza, avere fiducia in qualunque cambiamento era sempre più difficile che al di fuori. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Se ne era accorta soltanto dopo aver sistemato per la seconda volta lo stesso libro all’interno di uno scatolone: gli oggetti sfuggivano dalle collocazioni che assegnava loro. Ne aveva rimessi a posto un’infinità, per poi trovarne altri e ripetere la stessa azione, e così via, in un movimento circolare che le aveva occupato ore intere, costringendola a rinunciare alla cena con Marco. Tale evento curioso l’aveva fatta sentire allo stesso tempo spaventata e felice; per quanto potesse essere frustrante, era comunque un chiaro segno della presenza di Marta. Lei era lì. Si era ritrovata a sperare intensamente che la sua migliore amica decidesse di comunicare con lei in modi più diretti. Lo aveva detto ad alta voce, guardando la scrivania, sperando di riuscire a convincerla a farlo. Aveva aspettato per qualche minuto poi, vedendo che non accadeva nulla, aveva ricominciato la sua impresa apparentemente interminabile. Nel momento in cui si era imbattuta nei suoi vecchi diari del liceo si era concessa una lunga pausa per ricordare il passato vicino e lontano.</p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Assorta nei suoi pensieri non aveva fatto caso al tempo che passava; l’occhio le cadde per caso sull’orologio da polso che portava e si rese conto che era molto tardi. Aveva ancora tra le mani il diario del suo secondo anno, aperto sull’ultima delle dediche di Marta. Lo richiuse e lo appoggiò sulla scrivania. Si diresse verso il comò, raccolse dal fondo di un cassetto aperto una camicia spiegazzata che era convinta di aver infilato in valigia almeno tre volte, la distese sul letto ed iniziò a ripiegarla con cura. Dopo qualche istante alle orecchie le giunse il suono di pagine voltate. Sentì il cuore scattare come un giocattolo a molla appena caricato. Alzò lo sguardo nella direzione da cui proveniva il rumore, verso la scrivania, e vide Marta con il diario tra le mani, intenta a sfogliarlo con noncuranza. Era seduta a gambe incrociate sulla vecchia sedia malandata, leggermente incurvata in avanti, così che i lunghi capelli, un po’ arruffati, le coprivano il viso. Il nervosismo che cercava di nascondere emergeva nella posizione estremamente rigida delle spalle. Camilla raddrizzò la schiena, si voltò e fece qualche passo, andando a sedersi di fronte a lei sul bordo del letto. Marta la ignorò. Prese un lungo, lento respiro; sapeva che una volta iniziata quella conversazione avrebbero dovuto arrivare fino in fondo. Non c’era modo di tornare indietro. Distese le braccia, appoggiando le mani sulle cosce, e cercò di raggranellare dentro di sé ogni minima particella di coraggio. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>«Non posso più restare qui, lo sai» dichiarò, con un’unica emissione di fiato. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Marta sollevò la testa di scatto e la fissò, le sopracciglia minacciosamente sollevate sulla fronte. I suoi occhi erano grandi e scuri come quelli di un gatto che si prepara a soffiare. Sulle guance, Camilla notò i lunghi segni traslucidi lasciati dalle lacrime. Sentì un’onda di dispiacere crescere dentro di lei, ma la tenne a bada. Doveva andare avanti. Se si fosse interrotta, sentiva che ricominciare il discorso sarebbe stato impossibile. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>«Non è detto che sia necessariamente una brutta cosa» continuò. «Siamo rimaste qui insieme per così tanto tempo… Magari è arrivato per entrambe il momento di guardare oltre queste quattro mura.»</p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Le labbra di Marta si distorsero in una smorfia sdegnata. «Non c’è niente per me là fuori, ne sei perfettamente cosciente. Bugiarda» sibilò, la voce strozzata. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Camilla esitò. Nella sua mente aveva immaginato quel dialogo migliaia di volte nel corso degli ultimi mesi, e quella era sempre stata una delle prime obiezioni che aveva supposto che avrebbe ricevuto. Non era mai riuscita a trovare una risposta logica e razionale che la convincesse davvero; era consapevole, del resto, che non ne esisteva nessuna. La situazione che Marta si era trovata a sperimentare era unica e, per quanto poteva saperne, senza precedenti. L’unica argomentazione con cui poteva replicare era sentimentale, emotiva; ciò che credeva essere vero in virtù dell’intensità con cui lo sentiva tale, per istinto, senza poterlo davvero provare. Sperò che, parlandole con sincerità, la sua migliore amica potesse almeno comprendere la bontà delle sue intenzioni, anche se avesse trovato alla fine la sua replica insoddisfacente. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>«No, io non ne sono così certa» disse, «perché né io né te abbiamo mai veramente tentato niente di nuovo. Abbiamo continuato a ripetere lo stesso schema, sempre uguale a se stesso, senza mai metterlo davvero in discussione. Purtroppo, però, non possiamo continuare così, devi capirlo anche tu. Per me il tempo continua a scorrere. Non puoi chiedermi di rinunciare ad ogni mio possibile futuro». Camilla sentì la gola contrarsi dolorosamente. Si guardò le mani intrecciate in grembo. Marta non rispose. Riportò gli occhi su di lei e si accorse che stava piangendo silenziosamente. I suoi singhiozzi, a malapena udibili, scuotevano il suo corpo immateriale con così tanta forza che Camilla si sentì attanagliare dalla pietà. Non avrebbe desiderato altro che trovare il nucleo della sofferenza dentro di lei e neutralizzarlo. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>«Io… Ho paura» scandì faticosamente Marta. «Non so cosa fare, non so dove andare, non ho più nessun altro al di fuori di te, non ho altro posto che questo. Se tu te ne vai, che cosa farò? Impazzirò, sparirò, perderò me stessa, i miei ricordi, la mia identità.» </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Camilla sentì improvvisamente caldo al viso; combatté strenuamente contro le lacrime che iniziavano a velarle lo sguardo. Respirò profondamente per ricacciarle indietro. «Io ci sarò sempre per te, non dubitare mai di questo. Anche se sarò lontana, anche se non potremo più parlarci, il mio affetto resterà lo stesso. Ovunque io vada porterò con me quello che abbiamo condiviso, l’amore che ci siamo date. Niente potrà cambiarlo» affermò, la voce via via più tremante. Si passò le mani sulle guance bagnate per asciugarle. «Però devi permettermi di andare avanti, e devi fare lo stesso anche tu. Anzi, è proprio perché ci vogliamo bene che dobbiamo farlo. Quello che ti è successo è terribile e ingiusto, lo so, ma per quanto non ci sia nulla che vorrei di più, purtroppo non posso cambiare il passato. Possiamo solo farci i conti, tutte e due, e accettarlo così com’è, nel bene e nel male. Mi dispiace di non avere risposte più certe da darti sul tuo futuro, posso soltanto dirti che finché vorrai potrai restare qui. Io tornerò a trovarti. Però sono anche convinta, e non so dirti con certezza il perché, che dovresti uscire da questa stanza, tornare là fuori. Il mondo è così grande che non posso credere che non abbia nulla di bello in serbo per te.»</p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Marta la fissò mordendosi il labbro inferiore, cercando di tener fermo il proprio mento, che tremava incontrollabilmente. Mentre abbassava lo sguardo intrecciò le mani davanti alla bocca, stringendole così forte che le nocche diventarono bianche. I suoi occhi vagavano lungo il pavimento, come alla ricerca di qualcosa di invisibile per chiunque altro. Camilla pensò che fosse meglio lasciarle un po’ di tempo per riflettere. Si alzò silenziosamente e riprese a fare i bagagli. La testa sul collo le sembrò così leggera che ebbe il timore di perdere l’equilibrio e svenire. Per non cedere al vortice di emozioni confuse che rischiava di risucchiarla si concentrò con tutte le proprie forze sullo scegliere e sistemare con cura suppellettili e indumenti. Non dovette più recuperare oggetti sparsi in giro per la stanza: tutto rimaneva nel posto da lei stabilito. Dopo aver cenato velocemente con i suoi genitori andò avanti fino a notte fonda, e per tutto quel tempo Marta non si spostò di un millimetro. Rimase immobile, immersa nei suoi pensieri, del tutto dimentica di quello che le accadeva intorno. Camilla le gettava ogni tanto uno sguardo preoccupato, sentendo il cuore saltare un battito. Dopo aver chiuso con il nastro adesivo l’ultimo scatolone si fece una doccia veloce e poi si infilò nel letto, cercando di convincersi che sarebbe riuscita a dormire almeno qualche ora. Mentre si rigirava per l’ennesima volta tra le coperte, nel suo campo visivo entrò per un attimo la figura minuta di Marta, seduta nella stessa posizione di ore prima. Avrebbe voluto disperatamente parlarle, ma sapeva che non avrebbe potuto aggiungere nulla di utile a quanto aveva già detto; non poteva che attendere e sperare che arrivasse a comprendere le sue ragioni, senza leggere in esse soltanto un crudele abbandono. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Era ormai l’alba quando fu colta all’improvviso da una sensazione strana ma familiare: era come se una lieve brezza fredda avesse trovato il modo d’infiltrarsi sotto il suo pigiama, accarezzandole delicatamente la pelle. Erano passati molti anni dall’ultima volta che l’aveva sentita. Aprì gli occhi e vide il volto di Marta, distesa accanto a lei sul letto, che la guardava pensierosa, studiando la sua espressione. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>«Ci sarai sempre per me?» sussurrò con un filo di voce. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>«Certo» rispose subito Camilla con tono sicuro. «Il tempo, la distanza, le altre persone non cambiano l’affetto che provo per te.» </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Le labbra di Marta si incurvarono in un sorriso appena accennato, e Camilla avvertì una sensazione di calore nascerle nel petto e avvolgerla completamente. Fu improvvisamente travolta da tutta la stanchezza che, a causa dell’agitazione, aveva ignorato nelle ore precedenti, e che ora la ritrovata calma lasciava emergere. Non c’era più tempo per dormire ma era convinta che, se avesse potuto, si sarebbe abbandonata completamente al sonno come non riusciva più a fare da anni. Marta le sfiorò una mano passandoci attraverso con la propria. Lo fece lentamente, senza la frustrazione che di solito le generavano simili contatti, che le ricordavano la sua irrimediabile separazione dal mondo dei vivi. Sembrò osservare quel gesto attentamente, con una meraviglia che non aveva mai mostrato prima. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>«Grazie» mormorò, «di avermi lasciato restare qui per tutto questo tempo». </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Camilla sentì un singhiozzo di commozione nascere sopra il diaframma e risalire lungo la gola. Prese un lungo respiro. «Lo volevo, e sono contenta di averlo fatto.» Accarezzò la mano incorporea di Marta con la propria. Il sorriso sulla bocca della sua migliore amica si allargò, i suoi occhi brillarono vivacemente, illuminati da una luce calda; li chiuse, rimanendo distesa accanto a lei, e sul suo volto si dipinse un’espressione serena che Camilla non credeva di aver mai visto in precedenza. Rimasero sdraiate l’una accanto all’altra finché fu possibile. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Camilla si alzò molto presto: Marco sarebbe passato a prenderla alle otto. Si vestì e fece una colazione rapida e spartana, sorseggiando una tazza di caffellatte e sbocconcellando qualche biscotto passeggiando per il salone. Le sembrava che il suo corpo fosse continuamente percorso da una corrente elettrica che non trovava sbocco e continuava a circolare indisturbata. Era felice e allo stesso tempo molto nervosa. Osservò la visuale dalle finestre della sua casa, trovandola improvvisamente molto meno banale che in passato. A partire dalla mattina successiva, e per tutte quelle a seguire almeno per un bel po’ di tempo, si sarebbe lentamente abituata ad altre strade, altri alberi, altre macchine, altre voci. Marta la scrutava appoggiata allo stipite della porta di camera sua, seguendo accuratamente ogni suo movimento, come se cercasse di memorizzare ogni singolo istante di quelle ultime ore. Anche se i suoi occhi erano apparentemente luminosi e felici, le sue labbra erano distese in un sorriso tirato e preoccupato. Camilla le rivolse uno sguardo comprensivo: sarebbe stata una giornata difficile per entrambe. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Marco arrivò perfettamente in orario; quando suonò il citofono, Camilla per la prima volta lo invitò a salire in casa. Egli accettò, sorpreso e quasi incredulo. Quando gli aprì la porta lo trovò intento a pulirsi educatamente le scarpe sullo zerbino con aria guardinga. Oltrepassò la soglia lentamente, guardandosi attorno come un timoroso fedele a cui sia stato appena concesso di entrare nella stanza segreta di un tempio. Aggrottò le sopracciglia, perplesso, e Camilla sorrise tra sé e sé, pensando a quante ipotesi più o meno assurde doveva aver partorito la mente del ragazzo in tutti quegli anni, nel tentativo di trovare una spiegazione al mistero che avvolgeva quel luogo. La normalità di quel salone doveva apparirgli al confronto sconcertante. Dopo aver lasciato che i suoi genitori lo salutassero lo guidò verso la propria stanza perché le desse una mano a trasportare gli scatoloni e le valigie. Camilla entrò per prima: scambiò con Marta, in piedi vicino alla finestra, un rapido sguardo agitato. Marco la seguì immediatamente, osservando ogni cosa con estrema attenzione e senza troppa discrezione, più stupito di prima dalla banalità degli oggetti che si trovava davanti. Guardò dritto nel punto in cui si trovava Marta senza notare nulla di straordinario. Alla fine, dopo un attimo di esitazione, afferrò uno scatolone e si avviò verso la porta. Camilla si voltò a guardare Marta ansiosamente non appena il ragazzo le diede le spalle: la sua migliore amica sorrideva, fissando la schiena di Marco con meraviglia, le mani sollevate a coprire la bocca socchiusa dallo stupore. Si accorse che la stava osservando e annuì nella sua direzione, con gioia. Camilla non le aveva mai chiesto se lei vedesse il mondo in modo diverso rispetto a prima dell’incidente, ma in quell’istante ebbe la netta impressione che lei fosse riuscita a guardare attraverso i vestiti e la carne e che avesse visto all’interno di Marco qualcosa di splendido e bellissimo. A Camilla parve che la stanza fosse improvvisamente diventata più luminosa; sentì la gioia scoppiarle nel cuore come una bolla di sapone. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Furono necessari alcuni viaggi per portare giù tutti i suoi bagagli, ma con l’aiuto dei suoi genitori il trasporto fu completato piuttosto velocemente. Mentre Marco e suo padre erano impegnati a trovare il modo migliore di incastrare scatole e valigie nel piccolo bagagliaio della macchina, Camilla ne aveva approfittato per risalire in casa e tornare in camera sua. Marta era appoggiata al davanzale e guardava fuori dalla finestra, verso la strada; probabilmente osservava i due uomini all’opera, visibili in lontananza. Quando la sentì arrivare si voltò verso di lei. La guardò con gli occhi lucidi, sforzandosi di sorridere. Camilla avrebbe voluto dirle qualcosa di bello e significativo per salutarla, ma nessuna parola riuscì a superare il groppo che le chiudeva la gola. Si avvicinò a Marta e una volta arrivata davanti a lei alzò le braccia tremanti e le pose attorno alla sua sagoma immateriale, a mimare un abbraccio. Marta fece lo stesso. La mente di Camilla fu affollata tutto d’un tratto da una miriade di ricordi e immagini dei loro momenti insieme: le chiacchiere e le corse nel corridoio della scuola, i compiti svolti in collaborazione, le lunghe camminate per tornare a casa, le merende condivise, le risate che quando iniziavano non finivano mai. L’incidente, il terrore, la tristezza, il lento consolidarsi di un nuovo equilibrio. Le discussioni, le riflessioni e i racconti fino a tarda notte nella sua stanza. La vicinanza nonostante la crescente difficoltà di comunicare. Memorie distanti e recenti che improvvisamente riemergevano alla rinfusa, si accumulavano e la travolgevano come una valanga. Grosse lacrime lucide iniziarono a scivolarle sulle guance mentre tratteneva i singhiozzi; Marta iniziò a piangere, gemendo sommessamente. Rimasero in quella posizione per un lungo momento, senza riuscire a distaccarsi. Quando sentì un rumore di passi pesanti nella tromba delle scale e intuì che Marco e suo padre dovevano aver finito di caricare la macchina e stavano tornando nell’appartamento, Camilla sciolse l’abbraccio e indietreggiò di qualche passo, cercando di ricomporsi. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Marta si passò il braccio destro sul volto per asciugarlo, respirando lentamente. Quando ebbe ritrovato la calma la guardò e disse: «Buona fortuna». Nei suoi occhi non c’era altro che pace. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Camilla sorrise e rispose: «Anche a te». Si asciugò le dita fradicie sopra i jeans, si voltò e fece per andare verso il salone, ma Marta la richiamò indietro. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>«Se mai sarà possibile, per te andrebbe bene se venissi a trovarti qualche volta?»</p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Camilla provò una grande tenerezza nel vedere il suo sguardo trepidante e dubbioso. «Certamente» replicò con affetto, «basta che tu non faccia troppo disordine». Marta si lasciò scappare una lieve risata e la ringraziò in silenzio, gli occhi luccicanti. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Camilla salutò i suoi genitori con un lungo abbraccio; assicurò che li avrebbe chiamati spesso. Si fece promettere da sua madre che non avrebbe buttato la vecchia sedia della sua scrivania. Poi, tenendosi per mano con Marco, scese giù per le scale del palazzo. Ogni gradino, che negli anni passati aveva sovente superato di corsa senza pensare, le sembrava diventato all’improvviso immenso. Il rimbombo dei loro passi lungo le mura nella sua immaginazione dava un senso di solennità a quella breve discesa. Infine uscirono all’aperto. Nonostante l’aria fosse ancora piuttosto fredda il sole era più luminoso e caldo che nelle settimane precedenti, preannunciando l’imminente arrivo della primavera. Attraversarono la strada e si incamminarono sul marciapiede opposto per raggiungere la macchina di Marco, a una decina di metri di distanza. Egli entrò nell’abitacolo e accese il motore, iniziando a fare manovra per uscire dal parcheggio. Camilla si fermò poco più indietro per guardare ancora una volta la sua vecchia casa; i suoi occhi vagarono fino alla finestra della sua stanza. Un movimento lieve, quasi invisibile, attirò la sua attenzione sull’ingresso dell’edificio. Aguzzando lo sguardo vide che davanti ad esso era apparsa la figura minuta di Marta, la testa sollevata a scrutare il cielo, una mano posta davanti agli occhi per ripararli dalla luce intensa, a cui non era più abituata. Scrutò i dintorni, incerta sulla direzione da prendere; notò Camilla intenta a fissarla e agitò un braccio in segno di saluto. Camilla ricambiò il gesto. Marta le mandò un bacio, poi si voltò ed iniziò ad allontanarsi lungo il marciapiede nella direzione opposta, gettando occhiate curiose tutto attorno a lei. Prima che scomparisse alla sua vista girando un angolo, Camilla notò che la sua andatura si faceva via via sempre più sicura. Un sospiro di sollievo le sfuggì dalle labbra, e sentì le guance scaldarsi per la commozione e l’affetto. </p><p style="text-align: justify;"><span> </span>Marco, seduto nella sua macchina in mezzo alla carreggiata, abbassò il finestrino e la chiamò. Camilla si affrettò a raggiungerlo, allontanandosi dal portone. Una volta che si fu sistemata al suo posto il ragazzo le afferrò una mano, la strinse e le chiese se andava tutto bene e se era pronta a partire. Camilla suppose che l’agitazione che aveva percepito in lei durante quella mattinata lo preoccupasse. Gli sorrise, lo baciò su una guancia e gli disse: «Sì, sono pronta. Andiamo». Marco inserì la marcia e la macchina iniziò a procedere lungo la strada, guadagnando via via sempre più velocità. Camilla non si voltò a guardare indietro neppure una volta. </p><p style="text-align: justify;"><br /></p><p style="text-align: right;">Grugliasco, 9 dicembre 2019</p><p style="text-align: justify;"><br /></p><p class="MsoNormal" style="line-height: 150%; text-align: justify; text-indent: 1cm;"><br /></p>Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-79391523123162617112020-12-20T20:24:00.003+01:002020-12-22T15:35:12.856+01:00The Mandalorian – Capitolo 16: Il salvataggio <div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj1BJtylJAMPksZ_WRWR4lDN_K8YkuG0BH4uroMEDRoRrkYPbY9jAQkJhAjQ1eKR038Gj2PmiBaVfod2kBhqMQgcq-fijdTzB0ZDvE_b5u_h1QCgblO5chnhb-vMVU37zXE93MI15cnjUw/s700/mandalorian2x8.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="300" data-original-width="700" height="171" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj1BJtylJAMPksZ_WRWR4lDN_K8YkuG0BH4uroMEDRoRrkYPbY9jAQkJhAjQ1eKR038Gj2PmiBaVfod2kBhqMQgcq-fijdTzB0ZDvE_b5u_h1QCgblO5chnhb-vMVU37zXE93MI15cnjUw/w400-h171/mandalorian2x8.jpg" width="400" /></a></div><br /><p style="text-align: justify;">Lo dichiaro subito, senza girarci troppo intorno, in modo da fugare fin dall'inizio qualunque ambiguità: <b>il finale di stagione di <i>The Mandalorian</i> non mi ha convinto per tutta una serie di ragioni</b>. Mi rendo conto che si tratta di un’opinione impopolare e probabilmente molto personale: proprio per questo ho deciso di usare molto più che in passato la <b>prima persona</b>, invece di sforzarmi di ammantare di obiettività questo articolo. Beninteso: il <b>cambiamento</b> è necessario a tutte le storie, è la spinta che le muove in avanti, ed era dagli ultimi sei episodi che si intuiva che una grossa modifica allo status quo era in arrivo. <i><b>Il salvataggio</b></i> (<i>The Rescue</i>) è a tutti gli effetti il culmine di questo processo; è solo che la sua realizzazione e, soprattutto, le <b>conseguenze</b> che porta con sé, mi hanno lasciato con più di qualche <b>dubbio</b>. </p><p style="text-align: justify;"><span></span></p><a name='more'></a><p></p><p style="text-align: justify;">Iniziamo dalla <b>regia</b>: <b>Peyton Reed</b>, che aveva già firmato quella de <i>Il passeggero</i>, fa un lavoro pulito e funzionale, ma nel complesso non particolarmente ispirato, soprattutto per quando riguarda le <b>scene d’azione</b>, che occupano gran parte del minutaggio. La sceneggiatura offre una grandissima varietà di armi e combattimenti: praticamente ogni situazione è possibile, eppure molto spesso la macchina da presa si accontenta di seguire la coreografia senza aggiungere molto di suo o sottolineare qualcosa con la scelta dell’inquadratura. Un po’ di camera a mano, qua e là, che comunque impatta molto poco sulla resa complessiva. Le <b>dinamiche</b> tra le quattro componenti del team d’assalto che prendono il ponte di comando dell’incrociatore non sono sfruttate più di tanto; alla fine, è un <b>percorso lineare</b> senza trovate visive di rilievo. Forse a un episodio simile avrebbe giovato un occhio più pronto a tradurre le parole sulla pagina in movimento continuo. Il <b>duello</b> all’arma bianca tra <b>Din Djarin</b> (Pedro Pascal) e <b>Moff Gideon</b> (Giancarlo Esposito), ampiamente anticipato, in fondo non è ripreso in modo da avere un suo carattere specifico: finisce per mescolarsi a tutto il resto senza emergere davvero come meriterebbe. Basta confrontarlo con lo scontro tra <b>Ahsoka</b> e <b>il magistrato</b> de <i>La Jedi</i>: si trattava ugualmente di una sequenza molto breve e dove venivano scambiate pochissime battute, ma moltissimo veniva raccontato <b>visivamente</b>, con le azioni dei personaggi, il sonoro e la scelta dei piani e dei tempi, ammantandolo di un’aria di ieraticità che ben si adattava all’ambientazione e ai personaggi in gioco. Ovviamente, questo non vuol dire che <i>Il salvataggio</i> avrebbe dovuto sottomettersi alle stesse regole, ma solo <b>trovarne di proprie</b>, magari più legate all’<b>urgenza</b> di abbattere l’avversario che a una nobile tenzone tra virtuosi. Un dettaglio che ho apprezzato molto, invece, è <b>l’animazione a scatti</b> del dark trooper con cui il protagonista è costretto a fare i conti, che richiama in modo molto appropriato il <b>Terminator</b> originale del 1984. Ciò che, in ogni caso, rimane di altissimo livello è la <b>colonna sonora</b> composta da <b>Ludwig Göransson</b>, che non si adatta semplicemente all’immagine ma la arricchisce, aggiungendo suggestioni e riferimenti. </p><p style="text-align: justify;">Passando alla <b>sceneggiatura</b>, l’impressione che ho avuto è che la <b>responsabilità</b> di inserire nella trama innumerevoli <b>agganci</b> alle varie <b>altre serie</b> che saranno prodotte nei prossimi anni abbia finito per intralciare lo sviluppo dell’arco narrativo principale. Tenere insieme in un’unica storia un gran numero di elementi differenti e destinati ad essere principalmente anticipazioni <b>non era un compito semplice</b>, e bisogna comunque dire che gli episodi precedenti svolgevano tutto sommato piuttosto bene il loro lavoro di collocare <i>The Mandalorian</i> all’interno del <b>canone preesistente</b> creando contemporaneamente <b>nuovi spazi di espansione</b>. I personaggi traghettati da altre opere, in fondo, giustificavano la loro presenza perché effettivamente <b>utili</b> a far progredire la storia dei protagonisti. Soprattutto, rimanevano visitatori che restavano sulla scena per <b>un tempo limitato</b>. È chiaro, d’altronde, che introdurre <b>Ahsoka</b> servisse a preparare il terreno per una sua serie, ed è indubbio che rubasse un po’ il centro della scena al protagonista, ma funzionava perché permetteva di instaurare un <b>primo collegamento</b> con i Jedi senza implicazioni troppo pesanti, visto che si trattava di una fuoriuscita dall’ordine che rifiutava di prendersi cura di Grogu, preferendo andare per la sua strada, lasciando libero il mandaloriano di andare per la sua e procedere quindi con il suo viaggio <b>in autonomia</b>. Avere inserito una pletora di personaggi all’interno dell’episodio finale, invece, finisce per creare un <b>panorama sovrappopolato</b> dove quasi nessuno riesce davvero ad avere il giusto spazio in un momento in cui più semplicità avrebbe invece permesso di portare a termine l’intreccio in maniera meno faticosa. Alla fine è principalmente una questione di <b>tempistiche</b>: era ovvio che la sottotrama legata a <b>Bo-Katan</b> e alla <b>riconquista di Mandalore</b> dovesse collidere con l’inevitabile scontro con Moff Gideon, ma inserire tutto negli ultimi minuti di un episodio il cui obiettivo principale sarebbe – almeno in teoria – risolvere, temporaneamente o definitivamente, il rapporto tra Din e Grogu finisce per creare più che altro <b>confusione</b>, aprendo un’altra linea narrativa incentrata sulla Spada Oscura che, per quanto interessante, non ha il tempo di essere davvero introdotta, restando un <b>accenno</b> sospeso nell’aria. È una difficoltà di cui ravvedo le tracce nel <b>dialogo scritto per Moff Gideon</b>, che è principalmente <b>espositivo</b> e, alla fine, poco influente, quando in realtà sarebbe il personaggio da sconfiggere, non solo sul piano tattico ma anche <b>ideologico</b>. Invece di lasciarlo libero di eseguire il suo compito di antagonista, la sceneggiatura gli chiede di essere colui che spiega agli spettatori e ai personaggi le implicazioni di quello che succede sulla scena, un ruolo decisamente poco interessante. Il suo destino, inoltre, come quello degli altri, rimane <b>in bilico</b>, perché la risoluzione del conflitto è affidata a un <b>personaggio esterno</b> che nulla aveva a che fare con esso, e che spezza l’azione dei personaggi principali con il suo inserimento: <b>Luke</b> (Mark Hamill e Max Lloyd-Jones). Ora, era molto probabile se non certa una sua apparizione, fin da quando si è iniziato a parlare di <b>Jedi</b> nel finale della scorsa stagione; trovo però che rendere <b>così centrale</b> il suo personaggio proprio in quel momento, facendone il <b>salvatore ultimo</b>, finisca per <b>soffocare</b> l’indipendenza e l’identità di <i>The Mandalorian</i>. Se c’è qualcosa che l’insieme dei sedici capitoli ha dimostrato è che può esistere una storia ambientata nel mondo di <i>Star Wars</i> che non sia <b>necessariamente intrecciata</b> alla saga principale o ai suoi interpreti, e che forse è addirittura meglio così, perché ciò la rende <b>libera</b> di esplorare ambiti e concetti differenti senza rimanere imbrigliata da quanto è venuto prima. A renderla <b>unica</b> era proprio il suo <b>punto di vista ridotto</b>, il concentrarsi emotivamente sulla formazione di una <b>strana famiglia</b> tra due creature che a prima vista non avrebbero potuto essere più lontane e che finivano per salvarsi a vicenda, all’interno di un’ambientazione <b>lontana anni luce</b> dai grandi conflitti per i destini della galassia, popolata da <b>personaggi minori</b> che nei film non avrebbero avuto più che una manciata di inquadrature e che invece avevano finalmente lo spazio di respirare e di raccontare la loro storia, il tutto tenuto insieme da un aspetto visivo che manteneva <b>la nostalgia cinefila</b> delle pellicole originali per il western e il cinema giapponese pur sapendo trovare un suo carattere definito. Era lampante che la storia di Din e Grogu non potesse andare avanti uguale a sé stessa per molto: una separazione era <b>inevitabile</b> e forse, sotto un certo punto di vista, anche necessaria. La <b>scena dell’addio</b> è indubbiamente la migliore dell’episodio; <b>Pedro Pascal</b> dimostra una volta di più di saper esattamente come comunicare tantissimo con molto poco, ed è ancora più vero considerando che le sue controparti sono un animatronic e la ricostruzione digitale di un attore che, per quanto accurata, non ha certo l’espressività di un volto umano. Credo, però, che avrebbe funzionato ancora meglio se non fosse stata infilata a metà tra <b>due esigenze esterne alla narrazione</b>, cioè la necessità da un lato di ricondurre <i>The Mandalorian</i> all’interno del grande disegno della saga, e dall’altro di farne contemporaneamente il punto di partenza per tutta una lista di altre storie possibili per adesso soltanto accennate. È un <b>big bang</b> in cui a smarrirsi è proprio <b>l’unicità della serie</b>: più si avvicina ai film e ai loro protagonisti, più risponde ad esigenze esterne, più <b>perde se stessa</b>, quando invece in un’ottica di universo espanso sarebbe fondamentale lasciare che ogni pezzo del puzzle abbia <b>un suo carattere specifico e una dimensione sua propria</b>. È la <b>diversità</b> delle singole parti, del resto, a giustificare l’esistenza di più racconti in uno stesso spazio narrativo, non l’uniformità. Se le opere finiscono per <b>assomigliarsi</b>, allora un buon numero non ha senso di esistere perché diventa ripetizione di quanto già visto. Considerata <b>la quantità di serie e spin off annunciati dalla Disney</b>, c’è solo da sperare che all’interno del team produttivo ci si ricordi di questa massima. </p><p style="text-align: justify;"><br /></p><br /><h3 style="text-align: left;">THE MANDALORIAN, GLI ALTRI POST</h3><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-9-lo-sceriffo.html">The Mandalorian - Capitolo 9: Lo sceriffo</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-10-il.html">The Mandalorian - Capitolo 10: Il passeggero</a><br /><br /><a href="https://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-11-lerede.html">The Mandalorian – Capitolo 11: L’erede</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-12-lassedio.html">The Mandalorian - Capitolo 12: L'assedio</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/12/the-mandalorian-capitolo-13-la-jedi.html">The Mandalorian - Capitolo 13: La Jedi</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/12/the-mandalorian-capitolo-14-la-tragedia.html">The Mandalorian – Capitolo 14: La tragedia</a><div><br /></div><div><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/12/the-mandalorian-capitolo-15-il.html">The Mandalorian – Capitolo 15: Il vendicatore</a><br /><br /><br /><h3 style="text-align: left;">ALTRI POST SU STAR WARS</h3><div><br /></div><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2019/12/star-wars-lascesa-di-skywalker-star.html">Star Wars: L'ascesa di Skywalker</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2017/12/star-wars-episodio-viii-gli-ultimi-jedi.html">Star Wars: Gli ultimi Jedi</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2015/12/star-wars-il-risveglio-della-forza-la.html">Star Wars: Il risveglio della Forza</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2016/12/rogue-one-star-wars-story-la-recensione.html"></a><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2016/12/rogue-one-star-wars-story-la-recensione.html">Rogue One</a></div>Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-32486545181519082952020-12-14T20:20:00.001+01:002020-12-14T22:06:02.413+01:00The Mandalorian – Capitolo 15: Il vendicatore <div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi72x_xivzYBMO-ww9sJ5WqB7GjCpkcI9zDLb6qzP0UcS8nBzrJ_X2L7homGUVwtr-hF_MHHI3Bq52fHuNf37t2knrhNS9f-90ToIyZiKEVOJfZOrFjVeuJP8OTQxXR01LkV1r9_VN1p3E/s1000/mandalorian2x7.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="500" data-original-width="1000" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi72x_xivzYBMO-ww9sJ5WqB7GjCpkcI9zDLb6qzP0UcS8nBzrJ_X2L7homGUVwtr-hF_MHHI3Bq52fHuNf37t2knrhNS9f-90ToIyZiKEVOJfZOrFjVeuJP8OTQxXR01LkV1r9_VN1p3E/w400-h200/mandalorian2x7.jpg" width="400" /></a></div><br /><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Il <b>titolo originale</b> del penultimo episodio della seconda stagione di <i><b>The Mandalorian</b></i> è <i><b>The Believer</b></i>; la traduzione italiana, <i><b>Il vendicatore</b></i>, non ne mantiene <b>l’ambiguità</b>. Il tema centrale è indubbiamente la <b>fede</b> in qualcosa, ma non sotto un unico aspetto e non riguardo a un solo personaggio. Sono almeno <b>quattro</b>, infatti, a un certo punto e a differenti livelli, quelli costretti a confrontarsi con le proprie intime convinzioni. <b>Rick Famuyiwa</b>, regista e sceneggiatore, in mezz'ora e con poche battute comunica moltissimo del loro stato interiore. Dal meno al più significativo, li passiamo in rassegna nei prossimi paragrafi. </div><div style="text-align: justify;"><span><a name='more'></a></span></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Al termine della puntata, le ultime credenze in ordine cronologico ad essere scosse sono quelle di <b>Cara Dune</b> (Gina Carano): il suo disprezzo assoluto per gli imperiali si scontra con la decisione di Mayfeld (Bill Burr) che, per togliersi un peso dalla coscienza e venire a patti con i suoi dolorosi ricordi di ex militare che ha visto tanti suoi compagni inutilmente massacrati, fa saltare in aria la raffineria nemica. Scegliere di farlo passare per morto e di non restituirlo al campo di prigionia dal quale era stato prelevato all'inizio dell'episodio è un atto di riconoscenza e rispetto per qualcuno che si è dimostrato migliore delle apparenze. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Per <b>Valin Hess</b> (Richard Brake), invece, la cieca e incrollabile fede nell'Impero è fatale: a spingere Mayfeld, del quale è stato il superiore, a ucciderlo è la sua completa incapacità di comprendere il peso delle sue decisioni sui suoi sottoposti, il costo in vite umane di una strategia bellica che è espressione di una lotta per accaparrarsi il potere e schiacciare chi è sopraffatto ignorando qualunque conseguenza. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Mayfeld</b>, come già accennato, si rivela meno miscredente di quello che sembra; nel dialogo - più un monologo, per la verità - con il mandaloriano sul mezzo carico di ridonio, si posiziona ideologicamente come un <b>relativista morale</b>: Impero o Nuova Repubblica sono alla fine la stessa cosa per i singoli individui che si trovano intrappolati nel bel mezzo del loro conflitto. Anche le tradizioni e i dogmi rispettati da Din Djarin in fondo sono privi di significato, pronti a crollare quando la contingenza lo impone. Mayfeld sostiene, fondamentalmente, che non c'è nulla in cui valga la pena credere, nessun ideale per cui sia giusto combattere se non per <b>la pace della propria coscienza</b>. È proprio qui, però, che è nascosto il seme di una <b>visione morale opposta</b>: avere abbastanza rispetto di sé da riuscire a dormire sereni la notte è anche essere fedeli alla propria idea di ciò che è giusto ed evitare che altro male e altra sofferenza possano essere inflitti. Il mercenario, che nella scorsa stagione appariva come disonesto e privo di scrupoli, si rivela un uomo traumatizzato dalle sanguinose battaglie a cui ha partecipato. Nonostante il mandaloriano lo neghi categoricamente, Mayfeld non è completamente nel torto quando sostiene che siano <b>simili</b>: entrambi, infatti, si schermano dal proprio passato, dietro una corazza fisica o ideologica, e allo stesso modo, nella seconda metà dell'episodio, sono messi nella condizione di affrontare quanto soppresso. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">L’ultimo dei personaggi le cui convinzioni sono messe in discussione, e indubbiamente il più importante, è infatti <b>Din Djarin</b> (Pedro Pascal): la necessità di strappare Grogu alle grinfie di Moff Gideon (Giancarlo Esposito) lo obbliga a prendere decisioni difficili che lo pongono in conflitto con i rigidi precetti che ha osservato per gran parte della sua vita. È un <b>dissidio interiore</b> che era stato ampiamente preannunciato fin dalla prima puntata della stagione: il confronto con <b>Cobb Vanth</b> (Timothy Olyphant) ne <i>Lo sceriffo</i> lo aveva posto di fronte ad un uomo che indossava un’armatura mandaloriana senza esserlo, e che nonostante questo si rivelava infine onorevole. <i>L’erede</i>, poi, metteva sulla sua strada <b>Bo-Katan</b> (Katee Sackhoff), che pur essendo mandaloriana non aveva nessuna remora morale nello scoprirsi il volto, e che gli aveva rivelato come la <b>Via</b> fosse il prodotto di una visione estremista e antiquata delle loro tradizioni; un incontro non facile, ma che si concludeva comunque con una qualche forma di rispetto reciproco. Non è certo un caso che nell’episodio immediatamente successivo, <i><b>L’assedio</b></i>, il protagonista si sollevasse parzialmente il casco per bere, seppure in una situazione del tutto riservata. La conoscenza di <b>Boba Fett</b> (Temuera Morrison), un altro mandaloriano che, pur essendolo a tutti gli effetti, non rispetta il Credo e non si copre il volto, certamente ha avuto il suo impatto. Tutto ciò, ovviamente, non può lavare via decenni di severa adesione alle norme dei Figli della Guardia, ma è l’inizio di una difficile evoluzione, che passa attraverso <b>la perdita delle sicurezze</b>: prima la <b>Razor Crest</b> sul finire della scorsa puntata e poi, anche se solo temporaneamente, <b>la propria armatura</b>. Dato che nessuno dei suoi compagni può accompagnare Mayfeld all’interno della raffineria imperiale in cui quest’ultimo deve introdursi per raggiungere un terminale in grado di fornirgli le coordinate dell’incrociatore di Moff Gideon, e che mandare il mercenario da solo non è un’opzione, visto il suo comportamento ne <i>Il prigioniero</i> durante la prima stagione, non c’è altra decisione possibile che occuparsene lui stesso. Fortunatamente le divise dei carristi a cui devono sostituirsi comprendono un casco, ma certo non è semplice mettere a tacere la coscienza: il tormento interiore è evidente nella <b>rigida posizione</b> che il mandaloriano assume una volta all’interno dell'abitacolo. La mancanza dell’armatura e della sua tecnologia si fa sentire nel momento in cui una banda di pirati tenta di far saltare in aria il mezzo, in una lunga sequenza che unisce rimandi a <i>Vite vendute</i> (<i>Le salaire de la peur</i>, Henri-Georges Clouzot, 1953), <i>Indiana Jones e l’ultima crociata</i> (<i>Indiana Jones and the Last Crusade</i>, 1989) e <i>Mad Max: Fury Road</i> (George Miller, 2015), un lungo ed estenuante <b>corpo a corpo</b> ben girato e ben montato – Rick Famuyiwa aveva già diretto abilmente, del resto, l’assalto al sandcrawler de <i>Il Bambino</i>. Il carico arriva comunque a destinazione con un po’ di sostegno da parte imperiale: è interessante a questo punto il <b>ribaltamento prospettico</b> che rende gli assaltatori e i caccia TIE, per una volta, figure positive, in contrapposizione ai pirati che forse sono in realtà ribelli che cercano di liberare il proprio pianeta (e con cui normalmente ci schiereremmo come spettatori). Un’altra difficoltà si presenta sulla scena una volta superato l'ingresso della base: il terminale è all’interno della sala mensa e attorno ad uno dei tavoli è seduto Valin Hess, e Mayfeld, che non vuole correre il rischio di essere riconosciuto, preferisce desistere. Nuovamente, quindi, l’unica possibilità che non comporti il lasciare Grogu al suo destino è che sia lo stesso protagonista ad occuparsi di recuperare i dati, anche se, come lo avverte il compagno, il macchinario richiede un riconoscimento facciale. Din Djarin, quindi, dopo un inutile tentativo di evitarlo, si sfila volontariamente il casco per la prima volta e <b>mostra il volto</b>. L’ultima sicurezza crolla. Una soggettiva di Mayfeld, che osserva di nascosto dalla soglia, guarda il mandaloriano di spalle, nell’angolo più remoto di una stanza grigia e spoglia, la testa china, lontano dagli ufficiali e dai soldati presenti. In silenzio, non notato, si sta consumando un intimo dramma. È, in fondo, una questione di <b>identità</b>: seguire i dettami del Credo significa perdere la propria individualità, assurgere a <b>simbolo</b>. La Via di Mandalore può sopravvivere perché chi la pratica è un asceta che sacrifica se stesso per perpetuarla in tutti i suoi precetti, vivendo nell’ombra. Nella tribù di Nevarro c’era cameratismo e fiducia, ma certo non affetto né calore umano, che non può esistere senza esporsi all’altro per quello che si è. L’orfano Din Djarin si è aggrappato alla nuova famiglia che lo ha accolto, accettandola in tutto e per tutto, con riconoscenza, celando se stesso dietro un’immagine inespressiva. Non si poteva certo permettere di perderla, del resto. Il finale del primo episodio della serie, <i>Il mandaloriano</i>, lo metteva di fronte ad una riproposizione dell’<b>evento traumatico</b> che aveva vissuto in prima persona: un infante che sta per essere trucidato da un droide. Non poteva voltarsi dall’altra parte e portare avanti comunque l’incarico, come il suo ruolo e il suo addestramento gli avrebbero imposto: come lui a suo tempo era stato salvato da un guerriero della Ronda della Morte, allo stesso modo ha salvato Grogu. Sotto l’elmo, in quel momento ha iniziato a riemergere l’individualità. Ha del tutto senso, quindi, che a mettere in discussione la sua posizione ideologica sia l’<b>affetto</b>, paterno e profondamente personale, per il suo trovatello. Il mandaloriano deve ritrovare il proprio cuore sotto il metallo, in modo non troppo diverso dall’uomo di latta del <i>Mago di Oz</i>. L’armatura è una protezione non solo esteriore, ma anche interiore: è nascondere agli occhi degli altri le proprie fattezze e contemporaneamente le proprie emozioni, alzare un muro impenetrabile tra se stessi e la sofferenza, anche quella che arriva dal passato. Non c’è comunque nulla di semplice in un simile percorso: privato delle difese, il protagonista è <b>nudo</b>, la capacità di dissimulare e di fingere gli è sconosciuta, la vergogna e il senso di colpa lo bloccano. Senza il supporto di Mayfeld finirebbe in grossi guai. Serve educazione anche nel campo dei sentimenti: chissà se nel prossimo episodio - l'ultimo della stagione - avrà modo di flettere ancora questi muscoli arrugginiti. Nella trasmissione a Moff Gideon è già evidente un'emotività molto meno repressa che in passato. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><h3 style="text-align: left;">THE MANDALORIAN, GLI ALTRI POST</h3><div><br /></div><div><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-9-lo-sceriffo.html">The Mandalorian - Capitolo 9: Lo sceriffo</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-10-il.html">The Mandalorian - Capitolo 10: Il passeggero</a><br /><br /><a href="https://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-11-lerede.html">The Mandalorian – Capitolo 11: L’erede</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-12-lassedio.html">The Mandalorian - Capitolo 12: L'assedio</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/12/the-mandalorian-capitolo-13-la-jedi.html">The Mandalorian - Capitolo 13: La Jedi</a></div><div><br /></div><div><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/12/the-mandalorian-capitolo-14-la-tragedia.html">The Mandalorian – Capitolo 14: La tragedia</a><br /><br /><h3 style="text-align: left;">ALTRI POST SU STAR WARS</h3></div><div><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2019/12/star-wars-lascesa-di-skywalker-star.html">Star Wars: L'ascesa di Skywalker</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2017/12/star-wars-episodio-viii-gli-ultimi-jedi.html">Star Wars: Gli ultimi Jedi</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2015/12/star-wars-il-risveglio-della-forza-la.html">Star Wars: Il risveglio della Forza</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2016/12/rogue-one-star-wars-story-la-recensione.html"></a><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2016/12/rogue-one-star-wars-story-la-recensione.html">Rogue One</a></div>Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-40269790867371544672020-12-07T22:51:00.001+01:002020-12-07T23:02:47.873+01:00Looper (Rian Johnson, 2012)<p style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEij7ABaa-hlxDLBL4VAwN6SVmZpkExgeJqo86Lriy6Wb7zrmNE9MpWesMJRdypAop8TXEd7yLwwhjToRxC6wLCKZgiXie0_eM4Go5YSbHaKx1ss5Q24w426pb0wDC3_0gT4_FVQvB1m5N8/s2048/looperposter.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="2048" data-original-width="1383" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEij7ABaa-hlxDLBL4VAwN6SVmZpkExgeJqo86Lriy6Wb7zrmNE9MpWesMJRdypAop8TXEd7yLwwhjToRxC6wLCKZgiXie0_eM4Go5YSbHaKx1ss5Q24w426pb0wDC3_0gT4_FVQvB1m5N8/w270-h400/looperposter.jpg" width="270" /></a></div><i><br /></i><p></p><p style="text-align: justify;"><i>Una breve premessa: quella che segue è una recensione scritta nel settembre del 2016, pensata per essere pubblicata prima dell'uscita di </i>Star Wars: Gli ultimi Jedi<i>, che Rian Johnson ha diretto. Alla fine, per un motivo o per l'altro, è rimasta sepolta in una cartella del computer, abbandonata a se stessa. Ho pensato che valesse comunque la pena pubblicarla, epurando le riflessioni che erano ormai antiquate, ma mantenendo tutto il resto. </i></p><div style="text-align: justify;">Nell’anno <b>2074</b> verrà inventato il <b>viaggio nel tempo</b>, ci racconta il protagonista <b>Joe</b> nel voice over che apre <i><b>Looper</b></i>. Verrà immediatamente reso <b>fuorilegge</b>, ma le <b>mafie</b> se ne serviranno per liberarsi delle persone scomode inviandole nel <b>passato</b>, nell’anno <b>2044</b>, perché nel futuro sarà impossibile <b>disfarsi di un corpo</b>; quando arriveranno, legate ed incappucciate, troveranno ad attenderle un <b>uomo</b>, incaricato di <b>ucciderle</b> con un colpo di fucile. È un <b>lavoro</b> semplice, alienante, persino banale nella sua asfittica ripetitività, però <b>remunerativo</b>. Tuttavia c’è un <b>alto prezzo</b> da pagare alla fine della propria carriera: <b>l’ultima vittima</b> che si eliminerà, infatti, sarà il <b>se stesso</b> del futuro, spedito indietro di trent’anni per chiudere il cerchio, il <b>loop</b>. Dopodiché non resta che <b>aspettare</b>, godendosi la vita grazie alla ricca <b>buonuscita</b>. Per Joe, giovane looper al servizio di un’associazione criminale, però, il crudele rituale non andrà esattamente come previsto.</div><span><a name='more'></a></span><br /><div style="text-align: justify;"><b>Rian Johnson</b>, regista di alcuni tra gli episodi più celebrati di <i><b>Breaking Bad</b></i>, <i>Caccia grossa</i> (<i>Fly</i>), <i>Un ambiente migliore</i> (<i>Fifty-One</i>) e <i>Declino</i> (<i>Ozymandias</i>), scrive e dirige un film fantascientifico <b>solido e ben costruito</b>, che fin dalla sua idea centrale dichiara un’evidente parentela con <i><b>Terminator</b></i> (<i>The Terminator</i>, James Cameron, 1984), senza che questo, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, lo danneggi in alcun modo. Alcuni passaggi della <b>sceneggiatura</b> sembrano un po’ <b>forzati</b>, e forse l’insieme è <b>meno originale</b> di quanto sembri, ma ciò che davvero funziona è <b>la costruzione e la caratterizzazione dei personaggi</b>, che pur essendo alla stregua di <b>figure archetipiche</b> del genere, riescono a trovare una loro personalità ed un loro carattere. Anche <b>Sara</b>, la madre single interpretata da <b>Emily Blunt</b> (che fin dal nome richiama la Sarah Connor di <i>Terminator</i>), che potrebbe rischiare di rimanere soltanto un facile stereotipo, diventa <b>più sfumata e tratteggiata</b> con il passare dei minuti in maniera quasi sorprendente. <b>Joe</b>, che è interpretato, nelle sue due diverse incarnazioni, da <b>Joseph Gordon-Levitt e da Bruce Willis</b>, sotto un’apparenza cinica e disillusa che ricorda un po’ l’apatia dipinta sul volto di Harrison Ford in <i><b>Blade Runner</b></i> (Ridley Scott, 1982), cela dubbi, timori e sentimenti che filtrano lentamente attraverso la sua maschera di freddezza. <b>Jeff Daniels</b> presta le proprie sembianze al signore del crimine <b>Abe</b>, imbevendolo di sicurezza di sé e tranquillità, persino mentre prende le decisioni più spietate. I <b>dialoghi</b> sono efficaci e ben distribuiti, e le <b>spiegazioni fuoricampo</b> si insinuano nella narrazione in maniera minima; lo <b>sporco e decadente mondo futuro</b> in cui si muovono i protagonisti è descritto quanto basta attraverso le immagini, <b>tecnologia convenzionale e futuribile</b> si incontrano in un insieme che appare verosimile. La <b>droga</b> che il protagonista assume durante il film, un liquido che va versato con il contagocce negli occhi come un collirio, pare in un certo senso una interessante rielaborazione del fenomeno del <i><b>vodka eyeballing</b></i> che qualche anno fa era stato oggetto di discussione sulle pagine dei giornali anglosassoni. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">La mano di Rian Johnson è ferma nello <b>scrivere</b>, forse un po’ meno nel <b>dirigere</b>: per <i>Looper</i> si affida, in diversi momenti, a <b>tagli di montaggio bruschi</b>, a volte uniti a <b>sporadiche infrazioni delle regole tradizionali di suddivisione dello spazio scenico</b>. Qualche volta questi stratagemmi risultano un po’ <b>arbitrari</b>, ma nulla porta a pensare che il regista del Maryland non possa, con il tempo, migliorare questi aspetti. Se si può supporre che <i>Looper</i> non verrà ricordato, in futuro, per essere stato <b>particolarmente innovativo</b>, si può altresì immaginare che ciò che resterà di esso sarà <b>il modo estremamente accurato con cui presenta e mostra al pubblico i propri personaggi</b>, scavando nelle loro sensazioni e sentimenti con delicatezza, senza avere timore di mostrarli imperfetti, egoisti, pentiti, insensibili, rendendo semplicissimo <b>immedesimarsi</b> nelle loro vicende e nei loro problemi, che è poi l’obiettivo principale di ogni lungometraggio narrativo tradizionale. Per questa ragione, se non per altre, <i>Looper</i> è indubbiamente un <b>tentativo riuscito</b>.</div>Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-78672154422828897482020-12-06T23:05:00.001+01:002020-12-14T20:14:35.079+01:00The Mandalorian – Capitolo 14: La tragedia <div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhwYEQoMuMwN6LT_x9HhE9a36VjA9_Djwm8tw3WByzO5zRgHaNXLuU_w_nelsQ3VWTPLlqSfwaF4tMK0ai4Cdscp1CuKM8CsjOC2tiR3KmqKCsBXprt7ft49Qj7Z3ZdN6Smo4yRiAnnFgs/s700/mandalorian-season2-thetragedy-flying-babyyoda-700x300.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="300" data-original-width="700" height="171" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhwYEQoMuMwN6LT_x9HhE9a36VjA9_Djwm8tw3WByzO5zRgHaNXLuU_w_nelsQ3VWTPLlqSfwaF4tMK0ai4Cdscp1CuKM8CsjOC2tiR3KmqKCsBXprt7ft49Qj7Z3ZdN6Smo4yRiAnnFgs/w400-h171/mandalorian-season2-thetragedy-flying-babyyoda-700x300.jpg" width="400" /></a></div></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Il <b>sesto episodio</b> della seconda stagione di <i><b>The Mandalorian</b></i> inizia proseguendo sulla stessa <b>linea emotiva</b> del finale di quello <b>precedente</b>, con un momento di <b>tenerezza</b> tra il Bambino e Din Djarin (Pedro Pascal) che ben presto si tramuta in <b>malinconia</b>; dietro i discorsi incentrati sul dovere e sulla pura razionalità del mandaloriano si cela l’ansia di un <b>distacco</b> che è percepito come <b>imminente</b>. Ad ogni modo, ciò che colpisce nella scena è la <b>spontaneità delle reazioni del protagonista</b>, che si rivolge alla creatura che protegge senza schermare i propri sentimenti, se non completamente, molto meno che in passato. È un <b>cambiamento</b> che costituisce, in un certo senso, la <b>summa</b> di un percorso la cui traiettoria ha attraversato l’<b>intera stagione</b>, e che ha gradualmente mostrato quanto si sia sviluppato e rafforzato il <b>legame</b> che unisce i due personaggi. Il fatto che si <b>enfatizzi</b> così tanto l’affetto che si è creato e la difficoltà di accettare una potenziale separazione, però, suona <b>sospetto</b>, come il vago presentimento di una <b>prossima sventura</b>. L’apparizione del cartello con il titolo, che si rivela essere <i><b>La tragedia</b></i> (<i>The Tragedy</i>), conferma senza ombra di dubbio ogni timore. <span><a name='more'></a></span></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Il viaggio verso <b>Tython</b> si rivela piuttosto semplice e rapido; in men che non si dica <b>Grogu</b> è posto sulla <b>pietra veggente</b> ed entra in uno stato di <b>profonda meditazione</b> impossibile da interrompere. Tutto parrebbe andare per il verso giusto, ma a minacciare la quiete della situazione arrivano prima <b>Fennec Shand</b> (Ming-Na Wen) e <b>Boba Fett</b> (Temuera Morrison), in cerca dell’<b>armatura</b> di quest’ultimo, in possesso di <b>Din Djarin</b> dopo gli eventi de <i><b>Lo sceriffo</b></i> (<i>The Marshal</i>), e poi un contingente di <b>forze imperiali</b> guidate dal <b>radiofaro</b> installato di nascosto sulla <b>Razor Crest</b> durante <i><b>L’assedio</b></i> (<i>The Siege</i>). Messe temporaneamente da parte le <b>divergenze</b> legate al <b>Credo</b> del mandaloriano, che è portato a non considerare come suo <b>simile</b> il figlio (in realtà <b>clone</b>) di <b>Jango Fett</b>, i tre cacciatori di taglie <b>uniscono le forze</b> per respingere gli aggressori. Il minutaggio rimanente è quindi in gran parte dedicato a <b>sequenze d’azione</b>. L’<b>ambientazione</b> piuttosto <b>scarna</b> – un pendio roccioso su un pianeta apparentemente disabitato – è in fondo <b>funzionale</b> a non interferire con il <b>ritmo concitato</b> del <b>montaggio</b>: non è lo sfondo ad essere la principale fonte d’interesse, ma i <b>movimenti</b> dei personaggi. È proprio in quest’ambito, infatti, che il regista <b>Robert Rodriguez</b> può esprimersi al meglio. La scena in cui <b>Boba Fett</b> abbatte parecchi assaltatori con l’ausilio di un <b>bastone gaffi</b> (un’arma tipica dei <b>predatori Tusken</b> di <b>Tatooine</b>) è particolarmente <b>riuscita</b>: la <b>camera a mano</b> è lo strumento perfetto per seguire da vicino l’assalto violento ed implacabile dell’uomo, con un’<b>inquadratura</b> che addirittura si sofferma sull’<b>arma</b> che striscia per terra prima di dare il colpo di grazia ad un avversario ormai sconfitto, come se fosse il <b>coltello</b> di un <b>serial killer</b> in un film <b>horror</b>. È un <b>punto di vista</b> decisamente <b>inusuale</b> e <b>nuovo</b> nell’universo di <i>Star Wars</i>, che ben si adatta a reintrodurre l’<b>antagonista</b> che ne <i><b>Il ritorno dello Jedi</b></i> finiva comicamente inghiottito dal <b>Sarlacc</b> senza aver mai davvero potuto <b>dimostrare</b> la sua supposta <b>crudeltà</b>. La <b>sequenza conclusiva</b> dello scontro risponde alla stessa esigenza: Boba Fett giunge al termine dell’episodio come un <b>lottatore esperto e privo di scrupoli</b>, che annienta gli avversari uno dopo l’altro con tremenda <b>efficienza</b>, in grado finalmente di tener fede alla <b>leggenda</b> che gli appassionati, affascinati dal suo <b>aspetto</b>, gli hanno costruito attorno. Anche <b>Fennec Shand</b> ha modo di <b>brillare</b>, soprattutto grazie ad una serie di <b>tagli rapidissimi</b> che ne enfatizzano <b>l’abilità come cecchina</b>. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">La <b>rosa di registi</b> scelti da <b>Jon Favreau</b> per questa stagione è piacevolmente <b>variegata</b>: lo stacco tra quest’ultimo episodio e quello precedente è <b>evidente</b> ma non fastidioso, e lo stesso si potrebbe dire per gli altri. La <b>complessiva uniformità della scrittura</b> permette all’intreccio di accogliere <b>visuali differenti</b>, entro un certo limite di <b>adattarsi</b> anche ad esse, senza perdere coesione ma anzi finendo per esserne sostanzialmente <b>arricchito</b>. Non è del tutto ingiustificato, tuttavia, rintracciare qualche <b>forzatura</b> all’interno della <b>sceneggiatura</b> de <i>La tragedia</i>; alcune <b>decisioni</b> prese dai personaggi sembrano più legate al dover raggiungere una <b>certa specifica situazione</b> all’interno della storia piuttosto che a un processo organico e ragionevole. La <b>necessità</b> di tenere il protagonista ai <b>margini</b> del conflitto fin quasi alle <b>battute finali</b> così da potersi concentrare sui <b>due comprimari</b>, per esempio, è soddisfatta <b>insistendo</b> sul suo <b>tentare</b> testardamente di <b>superare</b> l’impenetrabile <b>campo</b> creato dalla <b>Forza</b> attorno al <b>Bambino</b>; se i ripetuti tentativi da un lato enfatizzano <b>l’attaccamento</b> del mandaloriano al suo trovatello, dall’altro potrebbero in effetti sembrare un po’ <b>eccessivi</b> e <b>troppo ravvicinati</b> tra loro. Considerando però come l’episodio si <b>focalizzi</b> in particolar modo sulla <b>resa delle scene d’azione</b>, si tratta forse di un difetto che si può considerare <b>non troppo importante</b> all’interno del quadro generale in quanto di <b>secondaria importanza</b> rispetto alla <b>vivacità</b> e <b>dinamicità</b> dello scontro. La <b>trama</b>, comunque, è portata <b>avanti</b> in modo più che <b>significativo</b>: il <b>risultato finale</b> è una <b>sonora sconfitta</b> per Din Djarin: i <b>Darktrooper</b> di <b>Moff Gideon</b> (Giancarlo Esposito) gli sottraggono <b>Grogu</b>, che dimostra, negli ultimi minuti, quanto possa diventare <b>pericoloso</b> se lasciato a se stesso, o peggio, posto nelle <b>mani sbagliate</b>, una <b>tematica</b> che già si intuiva negli episodi precedenti e che l’incontro con <b>Ahsoka</b> ha portato ancor più in <b>superficie</b>. Inoltre, la <b>Razor Crest</b> è definitivamente <b>disintegrata</b> da una cannonata imperiale, proprio quando sembrava aver superato tutte le <b>tribolazioni</b> della prima metà di stagione. Non resta altro da fare che salvare il (poco) <b>salvabile</b>, riunire gli <b>alleati</b> ed organizzare un <b>contrattacco</b>. La <b>posta in gioco</b> per la settima e l'ottava puntata non potrebbe essere più <b>elevata</b>.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><br /><h3 style="text-align: left;">THE MANDALORIAN, GLI ALTRI POST</h3><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-9-lo-sceriffo.html">The Mandalorian - Capitolo 9: Lo sceriffo</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-10-il.html">The Mandalorian - Capitolo 10: Il passeggero</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-11-lerede.html">The Mandalorian – Capitolo 11: L’erede</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-12-lassedio.html">The Mandalorian - Capitolo 12: L'assedio</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/12/the-mandalorian-capitolo-13-la-jedi.html">The Mandalorian - Capitolo 13: La Jedi</a><div><br /><h3 style="text-align: left;">ALTRI POST SU STAR WARS</h3><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2019/12/star-wars-lascesa-di-skywalker-star.html">Star Wars: L'ascesa di Skywalker</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2017/12/star-wars-episodio-viii-gli-ultimi-jedi.html">Star Wars: Gli ultimi Jedi</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2015/12/star-wars-il-risveglio-della-forza-la.html">Star Wars: Il risveglio della Forza</a><br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2016/12/rogue-one-star-wars-story-la-recensione.html"></a><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2016/12/rogue-one-star-wars-story-la-recensione.html">Rogue One</a></div>Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-12274825880973882742020-12-03T22:12:00.001+01:002020-12-14T20:15:49.649+01:00The Mandalorian – Capitolo 13: La Jedi <div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjvs9Bo1HKpUBCKSThhQoVFS_4DTVjU77w5vUt8x4gz1JKCsIkRkLk0dSdjKy8WDoZiMMAjkICUF9CSbb3b__w42IDK43gMdvfwpYQZ6wDTskpitbBbzDVbvMDHo2JjSDaqHHo-glYAhn0/s2048/star-wars-the-mandalorian-season-2-episode-5-chapter-13-the-jedi.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1100" data-original-width="2048" height="215" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjvs9Bo1HKpUBCKSThhQoVFS_4DTVjU77w5vUt8x4gz1JKCsIkRkLk0dSdjKy8WDoZiMMAjkICUF9CSbb3b__w42IDK43gMdvfwpYQZ6wDTskpitbBbzDVbvMDHo2JjSDaqHHo-glYAhn0/w400-h215/star-wars-the-mandalorian-season-2-episode-5-chapter-13-the-jedi.jpg" width="400" /></a></div><br /><p style="text-align: justify;">Scritto e diretto da <b>Dave Filoni</b>, <i><b>La Jedi</b></i> (<i>The Jedi</i>) introduce nella sfera del <i>live action</i> <b>Ahsoka Tano</b>, portando alla luce nel contempo tutta l’influenza del <b>cinema giapponese</b> nell’universo di <i>Star Wars</i>. A fare da riferimento principale sono due <b>pietre miliari</b> intimamente connesse tra loro, <i><b>La sfida del samurai</b></i> (<i>Yojimbo</i>, Akira Kurosawa, 1961) e <i><b>Per un pugno di dollari</b></i> (Sergio Leone, 1964), che del primo è praticamente un rifacimento non autorizzato. La <b>struttura</b> dell’episodio e in particolare alcuni momenti dell’<b>ultimo atto</b> richiamano fortemente questa coppia di pellicole, anche se è doveroso notare come sia Kurosawa che Leone facciano da <b>riferimento ideologico ed estetico</b> all’<b>intera serie</b> sin dalla sua concezione. L’ambientazione della vicenda, però, e alcuni elementi della trama suggeriscono anche <b>ulteriori parentele</b>. <span></span></p><a name='more'></a><p></p><div style="text-align: justify;">Una cittadina fortificata nel bel mezzo di una foresta devastata, governata da una signora della guerra; c’è qualcosa, in questa immagine, che richiama <i><b>La principessa Mononoke</b></i> (<i>Mononoke-hime</i>, Hayao Miyazaki, 1997). La stessa <b>apparizione di Ahsoka</b>, interpretata da Rosario Dawson, rafforza il paragone: l’ex-Padawan di Anakin Skywalker è una presenza cupa e misteriosa che emerge dalla nebbia e abbatte gli avversari uno ad uno, implacabilmente e velocemente. Uno <b>spettro guerriero</b>, come <b>San</b> nel film di Miyazaki – che, del resto, è stata una delle <b>principali ispirazioni</b> di Dave Filoni nell’ideazione della sua creatura. Quella che il mandaloriano (Pedro Pascal) si trova davanti è una persona che mostra i <b>segni psicologici</b> di quanto successo durante <i>The Clone Wars</i> e <i>Rebels</i>, portatrice di una <b>conoscenza</b> che è molto lontana dalla serena saggezza di Obi-Wan Kenobi o di Yoda, ma che invece è frutto di conquiste giornaliere sul <b>campo</b>, sintomo di una vita intera vissuta lottando e soffrendo <b>in prima linea</b>, senza cedere alle lusinghe del potere. Nelle parole e nei gesti di Ahsoka è appena nascosta una dolorosa e pensosa <b>tristezza</b>. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">La <b>scenografia</b> de <i>La Jedi</i>, in particolare per quanto riguarda la <b>foresta</b>, è caratterizzata da una semplicità che ha, in un certo senso, una <b>qualità pittorica</b>; più che uno scenario reale sembra una <b>quinta teatrale</b>, ma non in un’accezione negativa. È presente a più riprese un certo gusto per la composizione con <b>punto focale centrale</b>, geometrica, rigida come una rappresentazione sacra. Ammetto di non essere affatto un’esperta di cinema orientale, ma diverse inquadrature mi hanno ricordato l’<b>estetica rarefazione</b> di <i><b>Kwaidan</b></i> (Masaki Kobayashi, 1964). È una scelta stilistica che ben si sposa con il <b>minimalismo</b> della sceneggiatura e della regia, che non dice e non mostra niente di più (o pochissimo di più) di quanto necessario. Non che gli <b>episodi precedenti</b> perdessero tempo in chiacchiere superflue, ma nell’insieme mi erano parsi paradossalmente più rapidi e allo stesso tempo più rilassati. <i>La Jedi</i>, invece, pur avendo in molte parti un <b>ritmo non troppo concitato</b>, è animato da una <b>tensione sotterranea</b> che forse si nutre dell’<b>attesa di uno scontro</b> che è annunciato fin dalle prime battute, di cui in fondo soltanto i dettagli devono essere rivelati. Quando infine avviene, la sua gestione risponde alla stessa <b>logica dell’essenzialità</b> adottata in precedenza: i due conflitti paralleli – tra il mandaloriano e il mercenario (Michael Biehn), e tra Ahsoka e la signora della città (Diana Lee Inosanto) – sono collegati dal rapporto tra <b>suono e silenzio</b>. I due uomini, intenti a squadrarsi in quella che è a tutti gli effetti una <b>sfida tra pistoleri</b>, ascoltano il clamore delle armi delle due donne, impegnate invece in una <b>lotta all’arma bianca</b> che sostituisce le katane con un paio di spade laser e un bastone di puro Beskar. Su entrambi i fronti è comunque evidente come Filoni sappia dare la giusta importanza a tutto ciò che sta <b>intorno</b> al combattimento vero e proprio, e che è altrettanto se non più importante di esso: tra guerrieri esperti, del resto, è più importante prevedere e valutare l’avversario piuttosto che colpire alla cieca. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">All’interno di questo quadro complessivamente <b>votato alla sobrietà</b> sorge spontaneo spendere – forse anche con un certo colpevole ritardo – qualche parola sulla prova attoriale di <b>Pedro Pascal</b>, che di tale linea è forse l’espressione più fulgida. <b>Din Djarin</b> è un personaggio che scherma allo sguardo altrui non soltanto le proprie <b>fattezze</b>, ma anche le sue <b>emozioni</b>; far arrivare a chi guarda una traccia di ciò che si cela sotto la superficie è un intenso e accurato lavoro sui <b>movimenti</b> e sulla <b>voce</b>, una <b>sintesi tra naturalezza ed astrazione</b> tutt’altro che semplice da ottenere, dove ogni parola ed ogni gesto devono essere calcolati quel tanto necessario a superare la barriera della corazza, senza diventare forzati. Il <b>successo</b> dell’interpretazione è <b>evidente</b>: basti pensare alla <b>penultima scena</b> dell’episodio, dove la malinconica <b>riluttanza</b> del mandaloriano a lasciare il Bambino trapela da una manciata di parole, un paio di gesti e qualche pausa tra le battute, arrivando comunque con una tale chiarezza da commuovere. Al peso emotivo dell’episodio contribuisce indubbiamente anche <b>la colonna sonora di Ludwig Göransson</b>, che come mai prima d’ora imbastisce una ricca tela sonora di <b>richiami</b> a brani prelevati da altre opere del canone di <i>Star Wars</i> e allo stesso tempo <b>rielabora</b> quelli scritti appositamente per <i>The Mandalorian</i> fino a trasformarne completamente il significato – il tema principale, da eroico ed avventuroso qual è in partenza, si tramuta in un dolcissimo brano per flauti. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><i style="font-style: italic;">La Jedi</i><i> </i>ovviamente si chiude con <b>l’inizio di un altro viaggio</b>: non può certo essere Ahsoka, tormentata dal passato e dalla terribile caduta di Anakin, ad addestrare <b>Grogu</b> (finalmente Baby Yoda ha un nome), nel cui <b>attaccamento</b> verso il proprio padre adottivo rivede l’inizio della fine del suo passato maestro. Un ultimo, misterioso <b>sorriso</b>, poi l’ex-apprendista si incammina nuovamente verso altre avventure, lasciando la Razor Crest e i suoi passeggeri alla loro missione.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><h3 style="text-align: justify;">THE MANDALORIAN, GLI ALTRI POST</h3><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-9-lo-sceriffo.html">The Mandalorian - Capitolo 9: Lo sceriffo</a></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-10-il.html">The Mandalorian - Capitolo 10: Il passeggero</a></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-11-lerede.html">The Mandalorian – Capitolo 11: L’erede</a></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-12-lassedio.html">The Mandalorian - Capitolo 12: L'assedio</a><br /></div><div><div style="text-align: justify;"><br /></div><h3 style="text-align: justify;">ALTRI POST SU STAR WARS</h3><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2019/12/star-wars-lascesa-di-skywalker-star.html">Star Wars: L'ascesa di Skywalker</a></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2017/12/star-wars-episodio-viii-gli-ultimi-jedi.html">Star Wars: Gli ultimi Jedi</a></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2015/12/star-wars-il-risveglio-della-forza-la.html">Star Wars: Il risveglio della Forza</a></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2016/12/rogue-one-star-wars-story-la-recensione.html"></a><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2016/12/rogue-one-star-wars-story-la-recensione.html">Rogue One</a></div></div>Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-76933292883194093032020-11-24T20:47:00.000+01:002020-11-24T20:47:03.772+01:00Scherzi del destino: La casa di Jack (The House That Jack Built, Lars Von Trier, 2018)<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiTg1HBWucBFEIEFF62tEHYesCqYnAyNNv9_KWaahpTMCQVayUOgy0tsBz-EzldtqTTyGCTzuQ5pktaRAGR8Bqn4Vjd6M9rF2lMSdg2PZAq0sCp4CnUZ5BGRycJTlmZdfTA9AETE7eLLoE/s1024/La-casa-di-Jack-film.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1024" data-original-width="692" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiTg1HBWucBFEIEFF62tEHYesCqYnAyNNv9_KWaahpTMCQVayUOgy0tsBz-EzldtqTTyGCTzuQ5pktaRAGR8Bqn4Vjd6M9rF2lMSdg2PZAq0sCp4CnUZ5BGRycJTlmZdfTA9AETE7eLLoE/w270-h400/La-casa-di-Jack-film.jpg" width="270" /></a></div> <br /><p></p><div style="text-align: justify;"><b>«La scelta è tua»</b>, afferma <b>Virgilio</b> (Bruno Ganz) accomiatandosi dal protagonista <b>Jack</b> (Matt Dillon), il freddo e spietato <b>serial killer</b> che ha accompagnato fino al fondo dell’<b>Inferno</b>, ingaggiando con lui una <b>discussione</b> che si dipana per tutto il film. Tale dialogo è scandito dal racconto di <b>cinque efferati omicidi</b>, scelti tra i molti compiuti nell’<b>ossessiva ricerca</b> di un’artistica e gelida <b>perfezione</b> da raggiungersi attraverso l’utilizzo di un’<b>umanità</b> che, una volta privata della vita, non è altro che <b>materiale plasmabile</b>; in questa idea è presente, in un certo senso, un <b>rovesciamento blasfemo</b> del tocco divino che genera la vita. <span><a name='more'></a></span></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Virgilio dichiara che la <b>destinazione finale</b> di Jack è in realtà <b>un paio di cerchi più in alto</b>, ma che, per ringraziarlo dell’interessante conversazione, lo ha portato fin laggiù, avendo compreso il suo interesse a <b>conoscere</b> quanto più possibile. Il luogo in cui si trovano è una <b>cavità circolare</b> scavata nella roccia viva, al centro della quale scorre continuamente una <b>cascata di lava</b>, dominata da un <b>ronzio</b> assordante generato dalle <b>urla</b> di dolore dell’infinita moltitudine di persone condannate alla <b>sofferenza eterna</b>, presumibilmente intrappolate sul fondo dell’abisso. Al centro dello strapiombo vi è un <b>ponte crollato</b>; Virgilio risponde gentilmente alle domande di Jack, e gli racconta come un tempo fosse <b>integro</b>, e che la <b>scalinata</b> dall’altro lato di esso rispetto a loro porta <b>al di fuori dell’Inferno</b>. Molti hanno provato ad arrampicarsi sulle pareti per raggiungerla, ma <b>nessuno</b> è riuscito nell’impresa. Jack decide di <b>tentare a sua volta</b> nonostante l’altro rischio, scelta che Virgilio <b>accetta</b> di buon grado, salutandolo e lasciandolo alla sua impresa. Il protagonista riesce a procedere per un pezzo, ma infine si ritrova privo di appigli e <b>precipita</b>, condannandosi ad una punizione <b>peggiore</b> di quella che, almeno secondo quanto detto, avrebbe meritato. <b>È davvero così?</b> Non è un po’ curioso, a ben pensarci, che Virgilio gli permetta di compiere un’azione certamente destinata ad un <b>tremendo fallimento</b>, se la sua intenzione nel condurlo in quel luogo era soltanto quella di fargli un <b>favore</b>? Non potrebbe essere, invece, che lo abbia portato là ben cosciente che Jack, considerandosi <b>arrogantemente superiore</b> a tutti gli altri, avrebbe creduto di poter compiere quello in cui tutti avevano fallito, incapace di realizzare che il suo destino non sarebbe stato diverso? </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Potrebbe perfino darsi, a ben guardare, che il protagonista <b>fin dall’inizio</b> fosse destinato a terminare il suo viaggio lì. Gli <b>orrendi crimini</b> di cui si è macchiato <b>giustificherebbero</b> in effetti una simile condanna. Quello di Virgilio potrebbe essere, dopotutto, nient’altro che un <b>inganno</b> necessario al <b>compimento della punizione</b>, che è resa ancora più bruciante dal fatto di essere <b>autoinflitta</b>. Se così fosse, la <b>natura dell’aldilà</b> nell’opera di Von Trier sarebbe molto <b>beffarda</b>: si rivelerebbe essenzialmente impegnato a prendersi gioco delle sue vittime, e quindi piuttosto <b>distante</b> dal sistema preciso e ossessivamente corretto ed equilibrato rappresentato da Dante nella <i><b>Divina Commedia</b></i>, che pure è chiaramente preso a riferimento. Ripercorrendo le scene precedenti, ci si chiede se sia veramente presente in esse l’ombra di un’<b>entità superiore</b> che abbia interesse ad <b>amministrare la giustizia</b> in cielo e in terra; la risposta pare <b>negativa</b>. È impossibile spiegarsi, altrimenti, come sia possibile che Jack compia le proprie nefandezze <b>senza alcuna conseguenza</b>, soprattutto per quanto riguarda il <b>secondo «incidente»</b>, in cui compie un sacco di <b>errori</b> che potrebbero ricondurre le forze dell’ordine a lui, ma che si conclude con quello che sembra un <b>segno di assurda benevolenza divina</b>, forse null’altro che un semplice ed incredibilmente improbabile caso. Ad ogni modo, il dubbio resta.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Analogamente è sospetta l’<b>incitazione di Virgilio</b> a Jack nel momento in cui gli appare, quando quest’ultimo è ormai <b>intrappolato dalla polizia</b> nella cella frigorifera dove conserva i cadaveri delle proprie vittime; lo spirito lo invita infatti a <b>compiere l’opera</b> che tenta di portare a termine da una vita intera, la costruzione di una <b>casa</b>, espressione del suo <b>sogno frustrato</b> di essere <b>architetto</b> invece che ingegnere, servendosi dell’<b>unico materiale</b> che ha a disposizione, i <b>corpi umani</b> che ha accumulato. È una <b>creazione mostruosa e amorale</b>, e non si capisce perché un poeta come Virgilio dovrebbe addirittura <b>incoraggiarne l’esistenza</b>. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Forse la <b>risposta</b> a tutte queste domande è una sola: la fondamentale <b>indifferenza divina</b> nei confronti dell’umanità. Gli uomini e le loro vicende, per chi abita le sfere superiori, non sono null’altro che un <b>passatempo</b> per sfuggire alla <b>noia</b> che li attanaglia. La giustizia è somministrata quasi con disinteresse, e ogni <b>distrazione</b> – anche le chiacchiere di un serial killer psicopatico – è ben accolta. La punizione di Jack, allora, è certamente <b>sensata</b> da un punto di vista <b>morale</b>, ma pare soprattutto lo <b>scherzo</b> di un <b>destino</b> che ha trovato come divertirsi per qualche istante. È una visione <b>cupa e nichilista</b> che in fondo ben si adatta a <i>La casa di Jack</i>.</div>Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-12195979812670176922020-11-23T20:11:00.002+01:002020-12-14T20:16:17.690+01:00The Mandalorian – Capitolo 12: L’assedio <p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjvpP77TzKxV9swRJdO6oe-CRDtN4tt0cHCHLTzxu8Zn6v4b9cxjqk1yBnnQFZg8JrlqlBj8peWvb4fDUxx7xWwKRjXU8TZnNmqIuXDI90TTOAqpeJVR4BVpIK-bcQsiyvfxiGzc-5ZGBY/s2560/the-siege.jpeg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1073" data-original-width="2560" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjvpP77TzKxV9swRJdO6oe-CRDtN4tt0cHCHLTzxu8Zn6v4b9cxjqk1yBnnQFZg8JrlqlBj8peWvb4fDUxx7xWwKRjXU8TZnNmqIuXDI90TTOAqpeJVR4BVpIK-bcQsiyvfxiGzc-5ZGBY/w400-h168/the-siege.jpeg" width="400" /></a></div><p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Era del tutto prevedibile che <b>l’incontro con Ahsoka Tano</b> annunciato nella scorsa puntata non sarebbe avvenuto immediatamente; <i><b>L’assedio</b></i> (<i>The Siege</i>), però, non è un diversivo poco significativo per giocare ancora un po’ con l’attesa di un grande evento, ma porta avanti la trama concentrandosi sugli <b>antagonisti</b>, invece che sugli eroi, con <b>rivelazioni</b> forse ancora più interessanti di quelle precedenti.<span><a name='more'></a></span></div><div style="text-align: justify;"><br />Appurata l’impossibilità di riparare la <b>semidistrutta Razor Crest</b> in autonomia, <b>Din Djarin</b> (Pedro Pascal) è costretto ad interrompere il suo viaggio verso <b>Corvus</b> e a fare una deviazione nella direzione di <b>Nevarro</b>, il pianeta, centrale nella scorsa stagione, dove risiedeva la gilda di cacciatori di taglie e la tribù di mandaloriani a cui apparteneva il protagonista, sperando di poter ottenere aiuto. I primi minuti dell’episodio, in equilibrio tra tenerezza e umorismo, si concentrano <b>sull’evoluzione del rapporto tra il protagonista e il Bambino</b>, proseguendo una linea che già <i>Il prigioniero</i> aveva iniziato ad approfondire. È forse proprio la crescente familiarità tra i due a spingere il mandaloriano a compiere un piccolo <b>gesto anomalo</b>: sollevare lievemente il casco per bere. Sebbene ne <i>Il rifugio</i> se lo togliesse del tutto in una simile occasione, nessuna parte del volto era mostrata e – ovviamente – nessun altro personaggio era presente nelle immediate vicinanze. Il fatto che ora invece si sia presa una decisione opposta non sembra casuale. Potrebbe trattarsi, in un certo senso, della prova di come <b>l’incontro con Bo-Katan</b> abbia piantato il seme del dubbio nelle sue convinzioni religiose. <br /><br />All’arrivo su Nevarro il protagonista e il suo trovatello sono subito accolti calorosamente da <b>Greef Karga</b> (Carl Weathers, che oltre a recitare si è occupato anche della regia) e <b>Cara Dune</b> (Gina Carano), rispettivamente <b>magistrato</b> e <b>sceriffo</b> della città, che dalla fine della scorsa stagione si sono impegnati a <b>ripulire e riorganizzare</b>, trasformando quello che era un centro di malaffare in un <b>luogo</b> <b>rispettabile e tranquillo</b>. Qualche sacca criminale sopravvive, ma ha vita breve, come dimostra la scena immediatamente precedente i titoli di testa, in cui Cara Dune eradica rapidamente <b>una banda di criminali Aqualish</b> dall’ex-covo dei mandaloriani; è qui interessante notare, come in tutti gli episodi precedenti, il continuo impegno di Jon Favreau a sottolineare <b>l’esotismo della galassia</b>. Tutti i farabutti, infatti, pur apparendo soltanto in una scena molto breve e avendo poche battute, oltre a non avere tratti umani parlano una lingua incomprensibile. È un <b>tocco di colore</b> per nulla irrilevante e che, anzi, contribuisce a creare quella <b>specifica e particolare atmosfera</b> che anima <i>Star Wars</i>. <br /><br />Il <b>ritorno di Din Djarin</b> è salutato con gioia non soltanto in memoria delle prodezze passate: i suoi compagni d’avventura hanno ben chiaro, infatti, come potrebbe essere occupato il tempo libero in attesa che la Razor Crest venga rimessa in sesto. Nonostante il pianeta sia per la gran parte sicuro, hanno scovato <b>una vecchia base imperiale</b>, apparentemente semi-abbandonata, che potrebbe suscitare l’interesse di ladri e altri personaggi spiacevoli a causa delle <b>costose attrezzature militari</b> abbandonate al suo interno. Vorrebbero farla <b>saltare in aria</b> in modo da eliminare il problema alla radice, e per farlo hanno bisogno dell’aiuto del protagonista che, seppure inizialmente riluttante, forse perché reduce da uno scontro con l’Impero e desideroso di non attirare ulteriore attenzione, infine accetta. <br /><br />La <b>seconda parte dell’episodio</b> è quasi del tutto dedicata all’<b>infiltrazione nella base nemica</b> e al <b>compimento della missione</b> che, come molti recensori hanno notato, mostra più di una piacevole somiglianza con <b>il tentativo di liberare la principessa Leia</b> in <i>Una nuova speranza</i>. Greef Karga recluta, nel ruolo di autista e tecnico di supporto, il poco atletico e per nulla coraggioso <b>Mythrol</b> (Horatio Sanz) che Din Djarin aveva catturato durante la prima sequenza del primo episodio della serie. L’alieno si scopre essere <b>il contabile di Karga</b>, fuggito dopo aver gestito in maniera piuttosto disinvolta gli averi del suo datore di lavoro e prontamente riacciuffato. Gran parte della <b>comicità</b> dell’episodio è affidata a questo personaggio, una gradevole aggiunta che <b>stempera i toni</b> in una sequenza che culmina con una <b>scoperta sinistra</b>: la base non è semplicemente un centro operativo, ma un <b>laboratorio di esperimenti genetici</b>, per i quali <b>il Bambino</b>, e in particolare <b>il suo sangue</b>, sono fondamentali. La scoperta del motivo per il quale <b>Moff Gideon</b> (Giancarlo Esposito) è determinato a ottenere la misteriosa creatura porta con sé <b>implicazioni importanti</b>. Nulla è certo, per ora, ma è piuttosto probabile <b>un qualche collegamento con la creazione del Leader Supremo Snoke</b>, che ne <i>L’ascesa di Skywalker</i> si rivelava <b>prodotto artificialmente dall’Imperatore</b>; i corpi deformi nelle vasche (si suppone tentativi falliti o non completati di generare individui) e la necessità di servirsi di un essere particolarmente sensibile alla Forza parrebbero due indizi <b>abbastanza rilevanti</b>. Se così fosse, <i>The Mandalorian</i> si assumerebbe <b>il rischioso incarico</b> di far luce su uno dei punti più controversi della <b>trilogia sequel</b>, una svolta narrativa che è parsa ingiustificata e poco ragionata, un modo rapido e semplice per dare al finale della storia <b>una nuova nemesi</b>, sollevando <b>Kylo Ren</b> da tale responsabilità e permettendone, forse, una più facile <b>redenzione</b>, fornendo una <b>scappatoia</b> rispetto a quanto accaduto ne <i>Gli ultimi Jedi</i>, che pareva andare nella direzione <b>diametralmente opposta</b>. Non è certo un compito facile, ma se l’intenzione è davvero quella di approfondire l’argomento, il fatto che nel team creativo sia presente <b>Dave Filoni</b> non può che essere un indubbio <b>vantaggio</b>; fin dall’inizio della sua permanenza in Lucasfilm, infatti, le opere che ha supervisionato e diretto hanno avuto come scopo ultimo quello di <b>espandere le storie raccontate nei film arrivati al cinema</b>, arricchendole di <b>dettagli</b> e <b>portando alla luce aspetti</b> che altrove non trovavano lo spazio per essere esplorati e che, ben lungi dall’essere superflui o trascurabili, aggiungevano <b>significato e profondità</b>. Se alcune storture rimangono <b>irrisolvibili</b>, quello che può essere fatto – e non è poco – è cercare di dare a certi eventi una <b>migliore spiegazione della loro ragion d’essere</b>. L’introduzione del pilota della Nuova Repubblica <b>Carson Teva</b> (Paul Sun-Hyung Lee), che in questo episodio rivela la sua preoccupazione riguardo il <b>futuro della galassia</b>, è un ulteriore elemento che porta a pensare che si voglia andare a toccare l’origine del conflitto al centro della trilogia sequel. Verso la stessa direzione potrebbero puntare i <b>richiami al tema della Resistenza</b> presenti nella colonna sonora. È comunque possibile che la trama vada <b>in tutt’altra direzione</b>, e tanti indizi non fanno necessariamente una prova, ma mi sembra comunque che ci siano buone ragioni per avere <b>un sospetto</b>. <br /><br />Nell’insieme la regia è <b>solida</b>; dove forse si mostra più <b>debole</b> è negli <b>scontri a fuoco all’interno della base nemica</b>, che non sembrano particolarmente curati per quanto riguarda la coreografia e anzi risultano un po’ <b>improvvisati</b>, anche considerando una ragionevole dose di <b>licenza poetica</b>. È più convincente, invece, <b>la fuga finale</b> attraverso il canyon, che termina con una <b>battaglia aerea</b> acrobatica e spettacolare, dove l’inserimento dell'<b>entusiasta Bambino</b> contribuisce ad aggiungere qualcosa di <b>nuovo</b> e decisamente <b>divertente</b>. La <b>chiusura</b>, rivelando il <b>tradimento</b> di un meccanico su Nevarro e la presenza di un <b>radiofaro</b> sulla Razor Crest, che comunica i suoi spostamenti a Moff Gideon, aggiunge ulteriore tensione al <b>viaggio verso Ahsoka</b>, che è ragionevole pensare compaia nel <b>prossimo episodio</b>, scritto e diretto da <b>Dave Filoni</b>, il suo <b>creatore</b>. Il conto alla rovescia è partito e, viste le <b>armature</b> schierate attorno all'antagonista nell'ultima inquadratura, si prevedono <b>scintille</b>.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div><h4 style="text-align: left;">THE MANDALORIAN, GLI ALTRI POST</h4><div><br /></div><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-9-lo-sceriffo.html"><span style="font-size: medium;">The Mandalorian - Capitolo 9: Lo sceriffo</span></a></div><div><span style="font-size: medium;"><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-10-il.html">The Mandalorian - Capitolo 10: Il passeggero</a></span></div><div><span style="font-size: medium;"><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-11-lerede.html">The Mandalorian – Capitolo 11: L’erede</a></span></div><div><br /> <h4 style="text-align: left;">ALTRI POST SU STAR WARS</h4><div><br /></div><span style="font-size: medium;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2019/12/star-wars-lascesa-di-skywalker-star.html">Star Wars: L'ascesa di Skywalker</a><br /> <br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2017/12/star-wars-episodio-viii-gli-ultimi-jedi.html">Star Wars: Gli ultimi Jedi </a> <br /> <br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2015/12/star-wars-il-risveglio-della-forza-la.html">Star Wars: Il risveglio della Forza</a> <br /><br /><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2016/12/rogue-one-star-wars-story-la-recensione.html">Rogue One </a></span></div> Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-26586512706411594622020-11-16T21:56:00.000+01:002020-11-16T21:56:37.824+01:00The Mandalorian – Capitolo 11: L’erede <div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiWp2ZSX5ginnwwEj5eTq5Yl15DP20Ag6bgajn9e-OJjMPJZQq3mawBqXVo07IQvNcs1JrvjNP_N8Tfzxib6h7WrF8T5syi2JJYX_ilpcTWApYHwVySVpJP-Oc_eEgUf31xLAvhXyKX4Nk/s1200/mandalorian_season_2_episode_3_review_1605265152008.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="675" data-original-width="1200" height="225" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiWp2ZSX5ginnwwEj5eTq5Yl15DP20Ag6bgajn9e-OJjMPJZQq3mawBqXVo07IQvNcs1JrvjNP_N8Tfzxib6h7WrF8T5syi2JJYX_ilpcTWApYHwVySVpJP-Oc_eEgUf31xLAvhXyKX4Nk/w400-h225/mandalorian_season_2_episode_3_review_1605265152008.jpg" width="400" /></a></div> </div><div style="text-align: justify;">Mentre l’episodio rilasciato la scorsa settimana, <b><i>Il passeggero</i></b>, era fondamentalmente <b>una piacevole parentesi</b> utile a sviluppare il carattere dei personaggi, coinvolgendoli in una piccola avventura la cui conseguenza più evidente era <b>la quasi totale distruzione della Razor Crest</b> (e la sparizione di una manciata di <b>uova</b>, rotolate giù per il tratto digestivo del Bambino), <b><i>L’erede</i></b> (<i>The Heiress</i>), invece, pur essendo <b>più breve</b> in termini di minutaggio, <b>fa avanzare significativamente la trama</b>, stabilendo un forte <b>collegamento con le serie animate</b>. <span><a name='more'></a></span><br /><br />Dopo <b>un atterraggio</b> piuttosto complicato e <b>non del tutto riuscito</b>, il mandaloriano (Pedro Pascal) e i suoi compagni di viaggio approdano finalmente a <b>Trask</b>, la luna meta del loro viaggio. Il <b>porto</b> in cui sbarcano è <b>un’ambientazione suggestiva</b> e piuttosto <b>inedita</b> all’interno di <i>Star Wars</i>; la banchina è caotica e antiquata, <b>un umido molo novecentesco dislocato nello spazio profondo</b>, popolato da alieni, in maggioranza <b>Quarren e Mon Calamari</b>, vestiti con tradizionali abiti marinareschi solo leggermente riadattati. L’effetto è meno straniante di quello che si potrebbe pensare e perfettamente <b>in linea con l’estetica dominante della creazione di George Lucas</b>; nel rapportarsi del protagonista con tali creature immaginarie, esponenti principali di un mondo che è insieme <b>familiare e nuovo</b>, c’è davvero lo spirito del <b>racconto fantastico</b>. La <b>riunione tra la signora anfibia e il marito</b> è tenera come non ci si aspetterebbe, considerando che i personaggi coinvolti non hanno fattezze umane né un linguaggio comprensibile; l’emozione è comunicata interamente tramite i loro gesti, il tono dei loro vocalizzi, il montaggio e la musica, un piccolo ed umile <b>saggio</b> della potenza espressiva del cinema. Ancora una volta, dopo il molto riuscito <i>Il rifugio</i> (<i>Sanctuary</i>) nella scorsa stagione, <b>Bryce Dallas Howard</b> si rivela una regista di talento, in grado di gestire abilmente una grande varietà di registri, dai piccoli momenti intimi alle concitate scene d’azione. <br /><br />Ovviamente, nessuna avventura marittima sarebbe completa senza <b>pirati</b>, che per la prima volta in <i>Star Wars</i> non operano tra le stelle, ma <b>sull’acqua</b> come le loro controparti terrestri; ed è proprio tra le grinfie di una simile masnada che il protagonista finisce suo malgrado, convinto a salpare con loro dietro la promessa di <b>ricongiungerlo finalmente ai suoi simili</b>, quando in realtà l’obiettivo della ciurma di Quarren è soltanto di uccidere lui e il Bambino per impossessarsi della <b>preziosa armatura di Beskar</b>. <b>Ludwig Göransson</b> inserisce nella colonna sonora una <b>fisarmonica</b> appena accennata, una scelta appropriata che richiama immediatamente bandiere nere con teschi e ossa incrociate. A trarre d’impaccio Din Djarin e il suo protetto è la provvidenziale di <b>tre mandaloriani</b>, che si liberano velocemente e senza difficoltà degli avversari. Il felice incontro è però quasi immediatamente <b>rovinato</b> dal gesto che compiono i nuovi arrivati, irritando il protagonista: <b>rimuovere il casco</b>. Giunge infine il momento di risolvere <b>la domanda</b> che ci accompagnava fin dal primo episodio della serie: da dove nasce <b>il divieto di mostrare il proprio volto</b>, in precedenza mai rispettato né menzionato da nessuno? Scopriamo trattarsi di una regola introdotta dai <b>Figli della Guardia</b>, setta <b>estremista e reazionaria</b> che, allontanatasi dalla società civile, si proponeva di riportare in auge <b>le antiche tradizioni belliche di Mandalore</b>. Il nome in lingua originale, <b>Children of the Watch</b>, evidenzia uno stretto legame con la <b>Ronda della Morte (Death Watch)</b>, organizzazione terroristica introdotta in <i>The Clone Wars</i>, a cui apparteneva anche il guerriero che, nel <b>flashback</b> dell’ottavo episodio della prima stagione, salvava il <b>giovane Din Djarin</b> da morte certa, prendendolo sotto la propria ala. Si tratta di una <b>rivelazione</b> sia per il pubblico che per il protagonista, che probabilmente, non avendoli vissuti direttamente, è in gran parte all’oscuro degli <b>sconvolgimenti politici</b> che si celano dietro i dogmi del <b>Credo</b> che osserva. Latrice delle informazioni è la <b>leader</b> del trio di mandaloriani, <b>Bo-Katan del clan Kryze</b>, un personaggio ricorrente delle <b>serie animate</b>, il secondo, dopo Saw Guerrera, ad approdare al live action, e il primo a farlo <b>mantenendo lo stesso interprete</b> (Katee Sackhoff, convincente in entrambe le versioni). Mai negli episodi precedenti il collegamento con quanto narrato in altre opere era stato <b>così forte</b>. La donna è una veterana indurita dai molti conflitti scoppiati su Mandalore a partire dalla Guerra civile galattica; il suo obiettivo è <b>riconquistare il proprio pianeta natale</b>, e ad esso si dedica con dedizione e una certa <b>mancanza di scrupoli</b>. È interessante osservare come la sua filosofia di vita e quella del protagonista entrino <b>in contrasto</b>: il problema al centro della discussione è, in fondo, <b>una questione di sopravvivenza</b>, un tema che sotto un certo punto di vista è <b>rimarcato</b> dalla linea narrativa parallela riguardante <b>l’aliena anfibia</b> e la sua caparbia intenzione di far schiudere le sue uova per <b>non porre fine al proprio albero genealogico</b>. Per <b>Bo-Katan</b>, che per breve tempo è stata <b>reggente di Mandalore</b> e che ha vissuto tutta la sua vita <b>tra battaglie e intrighi politici</b>, sopravvivere significa <b>lottare strenuamente</b> per la riconquista di ciò l’Impero ha portato via a lei e al suo popolo, <b>rifiutando di rassegnarsi</b>; per <b>Din Djarin</b>, formato dalle regole della <b>comunità ristretta</b> in cui è vissuto, l’unico modo di proteggere le proprie tradizioni è <b>votarsi alla discrezione e alla segretezza</b>, abbandonando la speranza di riconquistare un pianeta che si dice sia ormai stato reso <b>inospitale</b> dalla dittatura, leggenda tuttavia <b>confutata</b> dalla sua interlocutrice, che la ritiene <b>pura propaganda</b> volta a <b>dividere i mandaloriani</b> in modo da renderli più facilmente controllabili. Le grandi differenze tra i due <b>non vengono completamente risolte</b> all’interno dell’episodio, che si conclude con una sorta di <b>rispettosa tregua</b>; una decisione narrativa <b>realistica, saggia e sensata</b>. <br /><br />Nel momento in cui la conversazione verte sulla <b>missione del mandaloriano</b>, in cerca di <b>Jedi</b> a cui affidare il Bambino, Bo-Katan rivela di conoscere <b>la posizione di uno di essi</b>; in cambio dell’informazione, però, chiede che il protagonista si unisca ad una <b>rapina</b> che sta per mettere in atto ai danni di <b>un trasporto imperiale carico di armi</b>; tale azione occupa <b>la seconda metà dell’episodio</b>. Le sequenze che compongono l’assalto sono <b>concitate e ben dirette</b>, con alcune trovate – visive e di sceneggiatura – <b>divertenti</b>. L’attacco si conclude <b>con successo</b>, nonostante l’obiettivo si espanda <b>considerevolmente</b>, passando dal furto di un paio di casse <b>alla conquista dell’intera nave</b>, un <b>cambio nei patti</b> stretti precedentemente che alimenta la <b>diffidenza</b> di Din Djarin nei confronti di Bo-Katan. Quest’ultima interroga violentemente <b>l’ufficiale a capo del mezzo</b>, tentando di ricevere conferma dell'identità del supposto proprietario attuale della <b>Spada Oscura</b>, arma dalla storia mitologica il cui possesso è necessario per <b>legittimare una rivendicazione al trono di Mandalore</b>. Dall’inquadratura finale della scorsa stagione sappiamo che essa si trova nelle mani dell’antagonista principale della serie, <b>Moff Gideon</b> (Giancarlo Esposito); si preannuncia, quindi, <b>uno scontro</b> in cui la posta in gioco non sarà soltanto la salvezza del Bambino. Per evitare di esser fatto prigioniero, l’ufficiale <b>si suicida</b> con una <b>capsula elettrica</b>, un ingegnoso richiamo a quelle ripiene di <b>cianuro</b> utilizzate dai <b>nazisti</b>, il principale <b>riferimento ideologico e storico</b> dietro l’immagine dell’Impero galattico. Una volta ottenute le armi e la nave, comunque, Bo-Katan si rivela una persona che <b>onora la parola data</b>, indicando al protagonista il pianeta e la città dove recarsi per incontrare la Jedi <b>Ahsoka Tano</b>, il personaggio più importante introdotto in <i>The Clone Wars</i>, che con il tempo si è guadagnata <b>un grande affetto</b> da parte degli appassionati. Non è ancora chiaro se il suo ingresso in scena avverrà già nella prossima puntata o in quella successiva (il fatto che il <b>quinto episodio</b> sia scritto e diretto da <b>Dave Filoni</b>, che è il suo creatore, farebbe propendere per quest’ultima ipotesi), ma in ogni caso le aspettative sono già molto alte. Fino ad ora <i>The Mandalorian</i> è proseguita in larga parte su <b>un binario parallelo</b> rispetto alle serie animate; ora <b>la convergenza è marcata e apparentemente duratura</b>, e sarà molto interessante osservare a quali sviluppi porterà.</div><div style="text-align: justify;"> </div><div style="text-align: justify;"><div style="text-align: justify;"><b>THE MANDALORIAN, GLI ALTRI POST<br /></b></div><div style="text-align: justify;"> </div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-9-lo-sceriffo.html">The Mandalorian - Capitolo 9: Lo sceriffo</a> </div><div style="text-align: justify;"> </div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-10-il.html">The Mandalorian - Capitolo 10: Il passeggero</a> </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>ALTRI POST SU STAR WARS</b> </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2019/12/star-wars-lascesa-di-skywalker-star.html">Star Wars: L'ascesa di Skywalker</a></div><div style="text-align: justify;"> </div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2017/12/star-wars-episodio-viii-gli-ultimi-jedi.html">Star Wars: Gli ultimi Jedi </a> </div><div style="text-align: justify;"> </div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2015/12/star-wars-il-risveglio-della-forza-la.html">Star Wars: Il risveglio della Forza</a> </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2016/12/rogue-one-star-wars-story-la-recensione.html">Rogue One </a><br /></div>Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-22178044695294933062020-11-16T19:38:00.000+01:002020-11-16T19:38:12.747+01:00Splatter comedy: tre consigli di visione <div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Anche se li si considera <b>horror</b>, i film <b>splatter</b> non sempre si pongono l’obbiettivo di spaventare i propri spettatori; esiste, infatti, un folto sottogenere che preferisce esagerare al massimo con il sangue e gli smembramenti, fino a tramutarsi in una sorta di <b>farsa dall’umorismo nerissimo</b>. C’è qualcosa di indubbiamente <b>liberatorio</b> nello sghignazzare sguaiatamente in faccia alla morte. Senza ombra di dubbio uno dei capisaldi del sottogenere è il mai troppo citato <b><i>Braindead</i></b> (Peter Jackson, 1992), al quale avevo dedicato <a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2015/04/braindead-1992-peter-jackson.html">un post</a> parecchio tempo fa, e per il quale è stata coniata la definizione di <b>splatstick</b> (fusione di <i>splatter</i> e <i>slapstick</i>). La sua irriverente influenza continua a farsi sentire tutt’ora, e diversi sono i film che in qualche modo ne riprendono gli aspetti più evidenti e truculenti; basti pensare all’assurdo <b><i>Black Sheep – Pecore assassine</i></b> (ne avevamo parlato <a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2015/08/black-sheep-pecore-assassine-black.html">qui</a>), anch’esso opera di depravate menti neozelandesi. Nel corso del tempo ho incontrato, un po’ per caso, altri <b>tre interessanti esponenti della corrente</b>, due dei quali con importanti radici nella terra dei kiwi, ed ho pensato quindi di parlarvene qui, nel caso in cui foste alla ricerca di un film in grado di soddisfare il vostro bisogno di scoprire <b>nuovi incredibili modi di morire in maniera assolutamente ridicola</b>. <span><a name='more'></a></span></div><div style="text-align: justify;"></div><div style="text-align: justify;"></div><div style="text-align: justify;"><h3><br /></h3><h3>1. Deathgasm (Jason Lei Howden, 2015) </h3></div><div style="text-align: justify;"> </div><div style="text-align: justify;"></div><div style="text-align: justify;"></div><div style="text-align: justify;"></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEheqcCYW4uijIl-T1qiFY6ljL2oZz7nSHWjycx2maftk2NQrys-OMnLWk7si-oilqn8cjUSbKYTevTXIVm_AldgUienZYLsaFjDDQ9eMD-ul10nSVV6DTOZYmreK0ppgZ77ErEeeyit7iY/s800/Deathgasm-Dark-Sky-540x800.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="800" data-original-width="540" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEheqcCYW4uijIl-T1qiFY6ljL2oZz7nSHWjycx2maftk2NQrys-OMnLWk7si-oilqn8cjUSbKYTevTXIVm_AldgUienZYLsaFjDDQ9eMD-ul10nSVV6DTOZYmreK0ppgZ77ErEeeyit7iY/w270-h400/Deathgasm-Dark-Sky-540x800.jpg" width="270" /></a></div><br /><div style="text-align: justify;">Un <b>metallaro adolescente</b>, costretto ad abitare con dei cristianissimi zii dopo la morte del proprio padre e la chiusura della madre in un istituto di igiene mentale, evoca per errore un <b>demone</b> durante le prove della sua band, facendo precipitare nel caos la cittadina neozelandese in cui vive. Da qualche parte, in mezzo a masse di posseduti accoppati grazie alle <b>armi più improbabili</b>, c’è anche un po’ di <b>commedia adolescenziale</b>, ed ovviamente molto <b>heavy metal</b>. <br /><br /><h3>2. Turbo Kid (Anouk Whissell, François Simard, Yoann-Karl Whissell, 2015) </h3></div><div style="text-align: justify;"> </div><div style="text-align: justify;"></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiVZkYEWHO-73mHQw06O-lT6BEHIkydBgEF2_eDgOOPG-vFjarvz00M__xBHuvaToQEPHRigDd_CL-EpTvZ_l_rPHjmF4PNEdzOcHeNPgWnGVqmJGNQEVZp9M4YkNjXVYZgKVHJgYqcT0w/s385/Turbo_Kid_poster.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="385" data-original-width="259" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiVZkYEWHO-73mHQw06O-lT6BEHIkydBgEF2_eDgOOPG-vFjarvz00M__xBHuvaToQEPHRigDd_CL-EpTvZ_l_rPHjmF4PNEdzOcHeNPgWnGVqmJGNQEVZp9M4YkNjXVYZgKVHJgYqcT0w/w269-h400/Turbo_Kid_poster.jpg" width="269" /></a></div><br /><div style="text-align: justify;"><i>Turbo Kid</i> è <b>retrofuturista</b> sin dall’inizio dei titoli di testa; in un <b>1997 postapocalittico</b>, come lo si immaginava più di trent’anni fa, un orfano sopravvive raccattando rottami in una pericolosa terra desolata, in cui l’acqua pulita è un bene preziosissimo. A rendergli la vita meno dura sono le sue <b>fantasticherie su un supereroe del passato, Turbo Kid</b>, di cui colleziona gli albi a fumetti. L’avventura verrà a cercarlo nelle vesti di <b>una strana fanciulla</b>, e in quelle meno affabili di un gruppo di <b>crudeli malintenzionati</b>; l’unica cosa che accomuna tutti i personaggi è <b>un bizzarro senso estetico</b>. La colonna sonora – rigorosamente <b>synthwave</b> – accompagna <b>un pastiche di riferimenti</b> alle saghe filmiche più celebri degli anni ottanta, tra le quali svetta senza ombra di dubbio quella di <i>Mad Max</i>. Ciò che <i>Turbo Kid</i> esige dal suo pubblico più di ogni altra cosa è di <b>non essere preso sul serio in nessuna possibile maniera</b>. La pagina Wikipedia del film canadese (ed un po’ neozelandese) non utilizza la definizione “splatter comedy” ma, se lo vedrete, non potrete che concordare con me sul fatto che la sua inclusione in questa breve lista non sia per niente infondata. <br /><br /><h3>3. Dead Snow (Død snø, Tommy Wirkola, 2009), e Dead Snow 2: Red vs Dead (Død Snø 2, Tommy Wirkola, 2014) </h3></div><div style="text-align: justify;"> </div><div style="text-align: justify;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjdDdfSeSkWXaPb_AHvz_1fcoD1JG0p9KK5zMxTCEGtz49trVnXq_Sf0n51sxKaRFo_CM4zYFtiSAvUu7wJTLsKCDVTV4cZDytN6mlraAMfCClxyQM1CRNOAGKW7vcTTt6yiD3RKCDVIcE/s1440/Dead-Snow-Collection-01.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="810" data-original-width="1440" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjdDdfSeSkWXaPb_AHvz_1fcoD1JG0p9KK5zMxTCEGtz49trVnXq_Sf0n51sxKaRFo_CM4zYFtiSAvUu7wJTLsKCDVTV4cZDytN6mlraAMfCClxyQM1CRNOAGKW7vcTTt6yiD3RKCDVIcE/s320/Dead-Snow-Collection-01.jpg" width="320" /></a></div> </div><div style="text-align: justify;">La settimana bianca di un gruppetto di <b>ragazzi norvegesi</b> è rovinata dall’apparizione di <b>un plotone di nazisti zombi</b>, intenzionati a recuperare il <b>tesoro</b> ammassato in vita grazie alle razzie perpetrate durante la guerra. Tra tutti i film citati, <i>Dead Snow</i> è forse quello che si avvicina di più alle <b>vette di cattivo gusto</b> raggiunte da <i>Braindead</i>, al quale si richiama <b>apertamente</b> (uno dei personaggi indossa una maglietta con <b>la locandina</b> del film di Peter Jackson). Nel sequel, <i>Dead Snow 2: Red vs Dead</i>, nel frullatore vengono lanciati anche <b>tre nerd americani sommamente inetti</b>, e soprattutto un altro bel gruppo di soldati non morti che, essendo <b>russi e comunisti</b>, non vedono l’ora di fare a botte con i loro colleghi tedeschi. C’è davvero bisogno di aggiungere altro? </div><br />Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-50069513423499814932020-11-10T22:03:00.001+01:002020-11-10T22:07:08.345+01:00The Mandalorian – Capitolo 10: Il passeggero<p style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEisgUEVm6pcPaWB0muhXlBjVYyCeoE9I5SnkDVn__SPhnJqmSNgvtRu449C9gWfIJBO9CWdJRM-dOdsyIfvCeqEcLdYhdXdVNhNWPPSegMmpjCBHhaocymo65kNbDFo2idT4KAcpf728kU/s1200/mandalorian2x2babyyoda.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="499" data-original-width="1200" height="166" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEisgUEVm6pcPaWB0muhXlBjVYyCeoE9I5SnkDVn__SPhnJqmSNgvtRu449C9gWfIJBO9CWdJRM-dOdsyIfvCeqEcLdYhdXdVNhNWPPSegMmpjCBHhaocymo65kNbDFo2idT4KAcpf728kU/w400-h166/mandalorian2x2babyyoda.jpg" width="400" /></a></p><p></p><p style="text-align: justify;"><b>«Filler»</b> non è mai usato in maniera troppo lusinghiera quando si parla di serie televisive; è il termine a cui si ricorre ogniqualvolta si vuole tacciare un particolare episodio di essere <b>superfluo</b> nell’economia complessiva della storia. Sotto un certo punto di vista <b><i>Il passeggero</i></b> (<i>The Passenger</i> in originale) potrebbe rientrare in tale definizione; almeno al momento attuale i suoi eventi non sembrano essenziali alla trama generale. Eppure non mi sembra corretto considerarlo inutile o, peggio ancora, una perdita di tempo narrativo; se ci si libera della spasmodica necessità di arrivare alla grande rivelazione che sempre si attende dalle vicende che appassionano, ci si riesce a <b>godere il viaggio</b> senza concentrarsi troppo sul traguardo, e ad apprezzare ciò che si incontra lungo la strada. </p><a name='more'></a><div style="text-align: justify;">Sorge spontaneo mettere in correlazione la spiccata <b>vena umoristica</b> de <i>Il passeggero</i> con il suo regista, <b>Peyton Reed</b>, che nell’universo Marvel si sta occupando di <b>Ant Man</b>; la direzione è nel complesso molto pulita, forse leggermente confusionaria durante il combattimento corpo a corpo nella sequenza introduttiva, ma si tratta, ad ogni modo, di finezze di montaggio. Dove brilla, invece, è nella gestione dei <b>tempi comici</b>, decisamente azzeccati. Anche il comprimario principale – il passeggero del titolo – è in linea con il tono lieve dell’episodio, trattandosi di una <b>buffa signora dalle fattezze anfibie</b> che vorrebbe ricongiungersi al marito con il suo carico di <b>uova</b>, e che per riuscirci è disposta a fare un patto con il protagonista: condurlo fino al nascondiglio di alcuni mandaloriani in cambio del trasporto di sé e dei suoi futuri pargoli. A mettere i bastoni tra le ruote all’improbabile coppia e alla rispettiva prole penserà <b>una pattuglia di X-Wing della Nuova Repubblica</b>, per nulla intenzionata a lasciarsi sfuggire una nave vetusta e sospetta. A seguito del fallimento di ogni tentativo diplomatico di trarsi d’impaccio, ai nostri eroi non resta che la <b>fuga</b>; ma l’inseguimento, che dallo spazio aperto si sposta nei cieli di un pianeta ghiacciato, si conclude in modo <b>infausto</b>, con un rovinoso tonfo in una caverna di ghiaccio che danneggia molto gravemente la Razor Crest. <br /><br />Ciò che colpisce in modo particolare durante la parte centrale dell’episodio è come <b>al centro della scena non ci sia un solo volto umano</b>; gli unici personaggi presenti sono infatti il Bambino (un animatronic), l’aliena (un’attrice un costume), e Din Djarin (il cui volto è sempre ed interamente coperto dal casco), dei quali, tra l’altro, solo l’ultimo parla in un linguaggio comprensibile allo spettatore. In tale scelta c’è un <b>esotismo</b> che nelle uscite cinematografiche di <i>Star Wars</i>, almeno le più recenti, spesso è mancato; nulla rende più l’idea di una <b>galassia multiculturale</b> come il mescolarsi di linguaggi, fattezze e idiomi diversi, popolazioni sconosciute e lontane che interagiscono tra loro e non costituiscono soltanto uno sfondo multicolore. Meritano di essere lodate, inoltre, le capacità di <b>mimo</b> sfoggiate da chi si trova sotto l’armatura del protagonista (sia esso <b>Pedro Pascal</b> o uno degli stunt man), in grado di comunicare un’emozione con un cenno del capo o un movimento del corpo, senza lasciare il compito alla sola voce, che pure è espressiva quanto più possibile. <br /><br />Se la settimana scorsa la pietra miliare del cinema presa come riferimento per il finale era <i>Lo squalo</i> (<i>Jaws</i>, Steven Spielberg, 1975), ne <i>Il passeggero</i> la citazione più evidente rimanda a <b><i>Alien</i></b> (Ridley Scott, 1979); impossibile, infatti, non pensare all’inquietante apertura dell’uovo di Xenomorfo di fronte alla rottura di quello, molto più piccolo, che il Bambino incautamente disturba, mangiandone il contenuto e irritando un’intera e ben nutrita comunità di <b>ragni giganti</b>, aggressivamente decisi a vendicarsi per il torto subito. A risolvere la spinosa situazione, che ben presto si tramuta in un <b>soffocante assedio</b>, è il provvidenziale arrivo dei due <b>piloti di X-Wing</b>, che decidono di dare una mano e chiudere un occhio sulla partecipazione del mandaloriano all’organizzazione dell’<b>evasione</b> dalla nave prigione della Nuova Repubblica, mostrata nel <b>sesto episodio</b> della scorsa stagione, <i>Il prigioniero</i>, in virtù della difesa da parte di quest'ultimo del <b>tenente Davan</b>, avvenuta nella stessa occasione, e della sua <b>cattura</b> di tre pericolosi criminali. È una decisione che evidenzia, in controluce, la <b>profonda instabilità politica</b> della galassia nel momento storico in cui <i>The Mandalorian</i> è ambientato: i confini morali tra legge e crimine sono <b>sfumati</b>, spesso affidati all’interpretazione dei singoli che si trovano ad agire in un panorama privo di modelli universalmente accettati e che, per la sua stessa struttura spaziale, rifugge l’unitarietà, soprattutto nei quadranti dell’<b>Orlo Esterno</b>, immensa frontiera che perfino il dominio dell’Impero - certamente più organizzato del neonato governo repubblicano - faticava a controllare capillarmente. È la sua stessa sconfinata estensione ad incentivare <b>continue lotte per il potere</b> ad ogni livello, come già sottolineato, nell’episodio precedente, dal <b>racconto di Cobb Vanth</b> dei primi, convulsi momenti dopo l’arrivo della notizia della distruzione della <b>seconda Morte Nera</b>. Rispetto al <b>gioioso finale</b> de <i>Il ritorno dello Jedi</i>, che con afflati fiabeschi annunciava un «e vissero felici e contenti» duraturo e utopico, <b>il cambiamento è decisamente significativo</b> e forse comunicato con maggiore incisività e minor confusione che nella trilogia sequel conclusasi poco meno di un anno fa al cinema. <br /><br />Non è del tutto sbagliato considerare <i>Il passeggero</i> come <b>un episodio di transizione</b>; nonostante ciò, però, non è privo di elementi di interesse, soprattutto se si osservano <b>i dettagli</b>. Il <b>grande vantaggio</b> che <i>The Mandalorian</i> ha rispetto ad altre opere pensate non per la televisione ma per la proiezione è che, incentrandosi su dei <b>personaggi più periferici</b> nella gerarchia della saga, ed essendo inoltre composto da <b>più ore di narrazione</b>, può permettersi di <b>prendere tempo</b> e respirare, di osservare i mondi e le creature che incontra, un intento che forse <b>eredita</b> da molte puntate delle due serie animate che l’hanno preceduta, <i>The Clone Wars</i> e <i>Rebels</i>. Ciò non si applica soltanto alle ambientazioni e ai comprimari, ma anche ai <b>protagonisti</b>. Durante la puntata, infatti, <b>il rapporto tra Din Djarin e il Bambino</b> è approfondito attraverso tante piccole interazioni che portano alla luce <b>l’affetto e l’attaccamento reciproco</b>, minuti tocchi di pennello che, per quanto insignificanti possano apparire se osservati da vicino, contribuiscono a costruire <b>una storia organica e coesa</b>. Per iniziare a vedere il quadro più da lontano e comprenderne davvero le dimensioni dovremo probabilmente aspettare i prossimi <b>sei episodi</b>: personalmente, <b>poco importa</b>, se nell’attesa si può godere di quasi un’ora di intrattenimento raccontato bene. </div><div style="text-align: justify;"> </div><div style="text-align: justify;"> </div><div style="text-align: justify;"><b>THE MANDALORIAN, GLI ALTRI POST<br /></b></div><div style="text-align: justify;"> </div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2020/11/the-mandalorian-capitolo-9-lo-sceriffo.html">The Mandalorian - Capitolo 9: Lo sceriffo</a> </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>ALTRI POST SU STAR WARS</b> </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2019/12/star-wars-lascesa-di-skywalker-star.html">Star Wars: L'ascesa di Skywalker</a></div><div style="text-align: justify;"> </div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2017/12/star-wars-episodio-viii-gli-ultimi-jedi.html">Star Wars: Gli ultimi Jedi </a> </div><div style="text-align: justify;"> </div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2015/12/star-wars-il-risveglio-della-forza-la.html">Star Wars: Il risveglio della Forza</a> </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2016/12/rogue-one-star-wars-story-la-recensione.html">Rogue One </a><br /></div><p></p><p style="line-height: 100%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><br />
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Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-75165841825138529312020-11-02T00:30:00.006+01:002020-11-10T22:04:15.738+01:00The Mandalorian – Capitolo 9: Lo sceriffo <p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhNSl4fcfpeIP3X3A_JnfBqV_ObiyE9tqANHWpLa8cuWf_HlOd7U7MedWwUxOGtCe7Ftf7kwUODrmz6-0LrrAfquJf0vtyohiZoWWOlKHIADUTa-VRHDrBvJvosIpmgXXx-tHHMlBcFibc/s1913/XjHSPXK.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="802" data-original-width="1913" height="168" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhNSl4fcfpeIP3X3A_JnfBqV_ObiyE9tqANHWpLa8cuWf_HlOd7U7MedWwUxOGtCe7Ftf7kwUODrmz6-0LrrAfquJf0vtyohiZoWWOlKHIADUTa-VRHDrBvJvosIpmgXXx-tHHMlBcFibc/w400-h168/XjHSPXK.jpg" width="400" /></a></div><p></p><div style="text-align: justify;">Se, per amore della conoscenza, si tentasse di determinare <b>l’esatta composizione di <i>Star Wars</i> nel suo complesso</b>, cercando di trovarne le componenti essenziali, si scoprirebbe che la formula è semplice soltanto in apparenza; si comprenderebbe, in realtà, quanto essa è delicata e tutt’altro che facile da ottenere senza un’ottima capacità di analisi e un abbondante affetto per la materia. <b>Jon Favreau</b>, che s’interessa anche di cucina oltre che di cinema, pare aver ben chiare quantità e dosi, e serve al suo affezionato pubblico <b>un primo piatto delizioso e ben congegnato</b>.</div><span><a name='more'></a></span><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">La sequenza che apre <i><b>Lo sceriffo</b> </i>(in originale <i>The Marshal</i>), il primo episodio della seconda stagione di <i>The Mandalorian</i>, porta subito all’attenzione un aspetto che i creatori della serie sanno cogliere ed utilizzare con maestria: <b>la scenografia</b>. Le prime inquadrature mostrano il protagonista e il Bambino procedere attraverso una strada malfamata e periferica di una qualche città spersa in un punto della galassia; nell’insieme l’immagine è familiare, imparentata con tante altre provenienti dallo sconfinato universo cinematografico al di fuori dei confini della Lucasfilm, ma a fare la differenza sono <b>i dettagli</b>. Le forme dei grattacieli in lontananza sono esotiche, i muri dei palazzi sono coperti di graffiti che richiamano assaltatori e droidi, dall’ombra si alza un coro di ringhi e riluce una pletora di minacciosi occhi rossi. L’atmosfera cupa è quella dei bassifondi di una qualunque grande città, ma gli animali non sono cani, gli scarabocchi sui muri non si rifanno a nulla di reale, e le costruzioni non sono rapportabili a quelle che siamo abituati a vedere. Procediamo: il mandaloriano entra in un localaccio dove sta avvenendo un incontro di lotta per un pubblico in visibilio. Il suo obiettivo è incontrare <b>Gor Koresh</b> (John Leguizamo), boss della malavita; la posizione di potere del personaggio non è apertamente dichiarata, ma è chiaramente suggerita dal contesto e dal costume che, al netto della pelle verde e dell’unico grande occhio, è ideato in un modo tale da richiamare una lunga tradizione di mafiosi non reali, ma cinematografici. <i>Star Wars</i>, del resto, non fonda le sue radici nel mondo vero, ma in quello <b>immaginario</b> che esiste soltanto all’interno dello schermo, con una sua propria fisica e con le sue proprie regole. La caratteristica principale dell’universo narrativo creato da George Lucas è difatti l’esistere all’interno di una <b>stratificazione di generi differenti</b> e spesso normalmente piuttosto lontani l’uno dall’altro, che nel loro collidere all’interno di una cornice fantascientifica creano nuovo materiale, contemporaneamente tradizionale nei concetti di base e innovativo nel modo in cui le sue singole componenti sono messe in relazione tra loro. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Dopo la sequenza introduttiva, il cui ambiente malfamato e pericoloso si rifà alle atmosfere tipiche del noir, si ritorna su <b>Tatooine</b>, pianeta lontanissimo dal cuore della galassia eppure suo epicentro ideale e ideologico; e non è un caso, osservandolo sotto questo punto di vista, che le suggestioni dominanti sui suoi terreni roventi e sabbiosi provengano dal <b>western</b>, da sempre fondamentale all’interno di <i>Star Wars </i>e ancora di più in <i>The Mandalorian</i>, in cui assurge a ispirazione principale. <b>Mos Pelgo</b> è l’archetipica città di frontiera in disgrazia, diffidente e sospettosa, sempre costretta a difendersi da tutto ciò che sta all’esterno dei suoi fragili confini, patria d’elezione di diseredati, vagabondi, avventurieri e cacciatori di taglie. In virtù di ciò è del tutto logico, quindi, che proprio qui faccia la sua ricomparsa uno degli oggetti più preziosi di tutta la mitologia di <i>Star Wars</i> che, proprio in quanto tale, è ricolma di sacre reliquie: <b>l’armatura di Boba Fett</b>. Nonostante sia ormai separata dal suo legittimo proprietario, essa basta da sola a evocare una storia, che è suggerita dal racconto di come sia giunta in possesso di <b>Cobb Vanth</b>, fascinoso sceriffo interpretato con gusto e una buona dose di arroganza da <b>Timothy Olyphant</b>. Favreau sa che le grandi figure del passato non possono tornare in scena tutto d’un colpo, piombando sotto la luce dei riflettori senza un minimo di preparazione; vanno svelate poco alla volta, giocando con il pubblico, seducendolo con ogni nuovo, piccolo indizio. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">L’improvviso attacco di un gigantesco predatore – un <b>drago krayt</b>, che nuota nella sabbia e si abbatte sulle prede come un cataclisma – cambia nuovamente il genere di riferimento: dal western, che pure non è interamente abbandonato, si passa ora al <b>fantasy</b>, l’altro cardine principale su cui tutto <i>Star Wars</i> si impernia, che è l’habitat naturale di cavalieri erranti impegnati in coraggiose battaglie contro le forze del male. Il finale dell’episodio è una spettacolare caccia al mostro con blaster, bombe e balestre che riporta alla mente quella che si trovava al centro de <i><b>Lo squalo</b></i> (<i>Jaws</i>, Steven Spielberg, 1975); i movimenti e la ferocia della bestia non sono poi così lontani da quelli del vorace animale marino che terrorizzava le spiagge di Amity. Il richiamo si fa dichiarato nell’inquadratura che segue l’uscita del drago dalla caverna: la combinazione di carrello all’indietro e zoom in avanti – il cosiddetto <i><b>Vertigo shot</b></i>, perché estensivamente utilizzato da Alfred Hitchcock nell’omonimo film del 1958 – che Spielberg genialmente impiegava per sottolineare il terrore dello sceriffo Brody di fronte al temibile avversario, è citata apertamente da Favreau, pur senza esagerare. Il movimento infatti è appena accennato: una chicca per quanti riusciranno a coglierla. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">I coprotagonisti dell’ultima parte dell’episodio sono vecchissime conoscenze dell’universo di <i>Star Wars</i>: i <b>sabbipodi</b>, minacciosi predoni che infestano le grandi piane desolate di Tatooine, pronti ad avventarsi su ignari viaggiatori, poveri abitanti e sprovveduti malcapitati. Il loro corpo è nascosto addirittura più di quello dei Jawa, di cui è almeno possibile cogliere il brillio degli occhi (per quanto inquietante) e gli arti scuri e pelosi; i Tusken, seppure di forma umanoide, sono interamente <b>celati da bende</b>, e la posizione di occhi, naso e bocca è intuibile solamente da accessori metallici e inespressivi. La loro lingua è brusca e primitiva, una serie di suoni gutturali, stridii e grugniti alquanto sgraziata. Tutto li allontana e li separa dallo spettatore; sono resi più disumani possibile, e proprio per questo <b>semplici da odiare</b>. Non hanno identità né, apparentemente, sentimenti che non siano la volontà di nuocere al prossimo. Preso in considerazione tutto questo, è del tutto sensato che il compito di avvicinarli allo spettatore, di spingerci a <b>empatizzare</b> con essi, ricada sull’altrettanto mascherato protagonista, <b>Din Djarin</b> (interpretato da Pedro Pascal e da una serie di stunt man), il cui volto abbiamo potuto vedere soltanto una volta, almeno per il momento, ma che abbiamo imparato a conoscere nel corso della scorsa stagione come individuo con una sua propria storia e pieno di emozioni, spesso perfino nobili, in controtendenza con la sua veste di spietato cacciatore di taglie. È in questo <b>ribaltamento del ruolo tipico dei sabbipodi</b> che, ancora una volta, Favreau dimostra di aver profondamente compreso come gestire un materiale narrativo ricco e intricato come quello di <i>Star Wars</i>, che ha una storia quarantennale di figure, eroi e leggende; per non risultare noioso e ripetitivo il punto di vista deve rimanere <b>dinamico e innovativo</b> all’interno di pochi, e tuttavia molto rigorosi, limiti – che chi scrive riconosce nella precisa commistione di un certo numero di generi e archetipi cinematografici. La tradizione va rispettata e, allo stesso tempo, rimessa continuamente in discussione, rigenerata, vivificata. I sabbipodi, allora, non sono creature scolpite nel granito, sempre uguali a se stesse, ma si rivelano in grado di <b>giocare ruoli inaspettati</b> a seconda della situazione in cui sono calati, svelando così nuovi aspetti. L’invito alla cooperazione tra schieramenti opposti in vista del raggiungimento di un benessere comune che è alla base dell’episodio rompe con una lunga tradizione che partiva dall’assalto a Luke Skywalker in <i>Una nuova speranza</i> e proseguiva con la sanguinaria vendetta di Anakin ne <i>L’attacco dei cloni</i>, portandoci a <b>rivedere i nostri pregiudizi</b> e a osservare con occhi diversi personaggi ai quali eravamo abituati ad attribuire in automatico un ruolo negativo simile a quello degli indiani nei western; un cambiamento di senso ingegnoso e interessante che dà nuova linfa a quanto già stabilito, e che fa ben sperare per ciò che verrà che, stando a quanto preannunciato dall’ultima inquadratura dell’episodio, promette di andare a scavare ancora più a fondo nelle peripezie del <b>primo mandaloriano</b> introdotto nella galassia lontana lontana, dato per spacciato sullo schermo del cinema e ritornato dall’abisso un gran numero di volte nell’universo espanso. Jon Favreau e il suo degno compare <b>Dave Filoni</b>, che pare ingiusto non citare nemmeno una volta dato il suo ruolo determinante nelle sorti televisive di <i>Star Wars</i>, hanno le carte in regola per cimentarsi con questa sfida: solo le prossime puntate ci sapranno dire se ne usciranno vincitori o perdenti. Per ora, tuttavia, i pronostici sono <b>a loro favore</b>.</div><div style="text-align: justify;"> </div><div style="text-align: justify;"> </div><div style="text-align: justify;"><div style="text-align: justify;"><b>ALTRI POST SU STAR WARS</b> </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2019/12/star-wars-lascesa-di-skywalker-star.html">Star Wars: L'ascesa di Skywalker</a></div><div style="text-align: justify;"> </div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2017/12/star-wars-episodio-viii-gli-ultimi-jedi.html">Star Wars: Gli ultimi Jedi </a> </div><div style="text-align: justify;"> </div><div style="text-align: justify;"><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2015/12/star-wars-il-risveglio-della-forza-la.html">Star Wars: Il risveglio della Forza</a> </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><a href="http://shesoverbored.blogspot.com/2016/12/rogue-one-star-wars-story-la-recensione.html">Rogue One </a><br /></div>Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-17820202395618812522020-03-11T01:40:00.000+01:002020-03-11T01:40:28.758+01:00Midsommar – Il villaggio dei dannati (Midsommar, Ari Aster, 2019) <div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhegvT2l1US32vTfdaXFetZZvUF96eMjTMzn90HLEXAsz2MVIBOwKk_MwGgGY9CxcoCc5AtujSNMDZ2y_0b7K9Y42ykz8n6zWDpCK-n7zzDWKWebcx0kS6waXZXiZFuyBeDJznixUtbg9I/s1600/midsommar.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="500" data-original-width="333" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhegvT2l1US32vTfdaXFetZZvUF96eMjTMzn90HLEXAsz2MVIBOwKk_MwGgGY9CxcoCc5AtujSNMDZ2y_0b7K9Y42ykz8n6zWDpCK-n7zzDWKWebcx0kS6waXZXiZFuyBeDJznixUtbg9I/s400/midsommar.jpg" width="266" /></a></div>
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In controtendenza rispetto al del resto del film, dalla fotografia luminosa e dai colori sgargianti, <b>l’incipit di <i>Midsommar</i> è freddo e cupo</b>: dopo una serie di inquadrature notturne su alberi quasi del tutto immobili, sommersi da una coltre di neve che nell’oscurità appare grigia e opaca, l’occhio della macchina da presa si sposta su una cittadina e poi su una villetta, senza comunque rintracciare alcun segno di vita. Un carrello si muove orizzontalmente attraverso una stanza, giungendo infine ad un letto dove un’attempata coppia dorme placidamente, almeno in apparenza, seppure in una rigida posizione supina che ricorda, complice l’atmosfera funerea, quella di due morti all’interno di una bara. <b>L’assenza di vita</b> è annunciata dalla composizione dell’immagine prima ancora di essere realizzata nella trama; la casa è in realtà un sepolcro in costruzione. Allo spettatore è concesso di sbirciare brevemente il teatro della tragedia che investe la vita della protagonista, <b>Dani</b> (Florence Pugh), mentre è in corso. <a name='more'></a></div>
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<br /><b>Il terribile evento giunge, peraltro, in un momento non particolarmente felice per la giovane studentessa di psicologia</b>: la sua relazione con<b> Christian</b> (Jack Reynor) è ormai alle battute finali, e nella loro prima, breve conversazione telefonica non c’è che un’ombra sbiadita dell’affetto che doveva esserci stato un tempo tra i due. I rispettivi amici tentano di fare ragionare i due ex-innamorati sostenendo che la decisione migliore sia <b>separarsi</b>, tuttavia il piano fatale architettato dalla sorella di Dani arresta tutte le riflessioni sull’argomento e stringe nuovamente le maglie slabbrate del rapporto, ma in un’accezione tutto sommato piuttosto negativa. Christian, infatti, resta vicino alla protagonista più <b>per senso del dovere e per pietà</b> che per una sincera volontà, mentre la ragazza si aggrappa al giovane disperatamente in quanto, persa tutta la propria famiglia in una sola notte, egli è <b>l’unico legame</b> che la separa da una straziante solitudine che non riesce ad affrontare. La loro relazione quindi diventa, ancora più di prima, <b>una gabbia che li soffoca e li condanna a una felicità mai davvero autentica</b>. Ogni piccola gentilezza è, in fondo, il futile tentativo di rianimare un cadavere, mentre gli sgarbi, causati dalla disattenzione o intenzionalmente inflitti, sono il sintomo di una malattia inarrestabile. <b>Proprio nel doloroso e sommesso smembrarsi di questo rapporto sta, in fondo, il cuore pulsante di <i>Midsommar</i></b>. Sono in un certo senso i punti deboli di entrambi a far precipitare gli eventi fin dall’inizio: quando l’amico Pelle (Vilhelm Blomgren) invita Christian, assieme ad altri due compagni di studi, a trascorrere alcune settimane nella <b>comune in Svezia</b> in cui è cresciuto in occasione della festa di mezza estate, quest’ultimo non ne fa parola con la fidanzata, che lo scopre per caso. Se Dani teme di essere lasciata a se stessa e ai suoi cupi pensieri, il ragazzo non è in grado di abbandonarla nonostante sia ciò che vuole, e ciò li porta quindi a decidere, con molti dubbi, di <b>partecipare al viaggio in coppia</b>. <br /><br /><b>Il villaggio di Hårga ai nuovi arrivati appare come un luogo idilliaco</b>: i sorridenti abitanti, che indossano tutti abiti bianchi, sono sereni e dediti ad attività agresti. La connessione con la natura è profonda e intima e ogni fase della giornata è vissuta collettivamente, in una sorta di visione idealizzata della vita in campagna. <b>Gli individualismi dei singoli sono superati e messi da parte in favore della perpetuazione e della sopravvivenza dell’intero gruppo</b>; tale ideologia è esposta con brutalità e violenza dal primo rituale a cui i giovani americani assistono, in cui due anziani, che hanno raggiunto il termine del ciclo vitale stabilito dal credo degli autoctoni, si uccidono lanciandosi da una rupe. <b>Il lutto nella comunità non è un fatto privato</b>, ma è vissuto pubblicamente come parte di una filosofia di morte e rinascita che ammanta le sue caratteristiche traumatiche e scioccanti di una forma di nobiltà; per contrasto, <b>la perdita di Dani</b> è vissuta da chi le sta intorno e in un certo senso anche da lei stessa <b>con grande difficoltà</b>. La morte è, del resto, <b>un argomento tabù all’interno della civiltà occidentale</b>, allontanato dalle conversazioni, vissuto come un fatto scabroso e per quanto sia possibile nascosto; il singolo individuo è costretto quindi a tentare di elaborare in solitudine il proprio dolore, e ciò è tanto più vero se si tiene in considerazione il declino della religione e la minore importanza che di conseguenza assumono i rituali stabiliti da essa nel corso dei millenni per comprenderlo e superarlo. <br /><br />Ben presto gli abitanti del villaggio iniziano ad adoperarsi per raggiungere i propri scopi, all’insaputa dei personaggi principali che, come già in <b><i>Hereditary</i></b>, sono intrappolati, anche visivamente, in <b>una vicenda il cui esito pare già scritto fin dal principio</b>, perfino a partire dall’illustrazione in apertura al film, e alla quale non possono che arrendersi; come nell’opera appena citata, peraltro, le ambientazioni sono <b>case di bambola</b> che la macchina da presa attraversa da ogni parte con la massima libertà, uno sguardo posto ad un livello superiore ai personaggi e che li osserva con un certo distacco, e l'inclinazione a compiere il male continua a trasmettersi <b>attraverso i legami familiari</b>, che siano di sangue, come nel caso di Dani, o acquisiti, per quello che riguarda Hårga. La tremenda decisione presa dalla protagonista durante l’ultimo atto in qualche modo non è poi così distante dalle azioni compiute dalla sorella: entrambe trascinano nella propria sofferenza le persone a loro vicine fino a distruggerle. <br /><br />Nonostante all’inizio cerchi di ribellarsi, <b>Dani alla fine cede e si lascia inglobare dalla comunità durante una danza sfrenata e sfiancante,</b> che annulla i confini linguistici e culturali assimilandola in tutto e per tutto alle altre giovani partecipanti, nate e cresciute nel villaggio. Vinta la competizione per il titolo di <b>Regina di Maggio</b>, la fanciulla è ornata da una gran quantità di <b>fiori</b> che pulsano e reagiscono ai suoi movimenti; in precedenza, in almeno altre due occasioni i fili d’erba le trapassano le mani e i piedi, fondendosi con le sue carni. Al di là della spiegazione razionale fornita dal film, che attribuisce tali visioni al <b>consumo di droghe allucinogene</b>, ciò che tali immagini sottolineano è <b>la perdita del sé</b>, il suo fondersi con la comunità fino ad esserne completamente assorbito. L’abbandono della propria individualità comporta, dopotutto, anche <b>l’allontanamento dalle proprie sofferenze private</b>. La scoperta del <b>tradimento di Christian</b> – un atto che il ragazzo compie, come già molti altri nella sceneggiatura, non tanto per una sua reale volontà quanto per l’incapacità di opporsi alle pressioni esterne e contemporaneamente di superare le proprie debolezze interiori – è vissuta non in solitudine ma con <b>la partecipazione intensa di un corteo di ancelle</b>, che fa propria la tristezza di Dani e la esprime insieme a lei, condividendone il peso e allo stesso tempo impedendole di metabolizzare l’evento da sé. Lo stesso amplesso proibito, del resto, è un rituale pubblico e innaturale, in cui non è presente alcuna vera intimità. I protagonisti sono assorbiti da Hårga e <b>spersonalizzati</b>: assumono i ruoli che vengono loro attribuiti e smarriscono la loro identità. <br /><br />La terribile scelta finale presa da Dani parrebbe, da un certo punto di vista, <b>liberarla definitivamente dai suoi tormenti con un atto radicale</b>; in realtà, tuttavia, non la risarcisce davvero delle sue perdite, né le permette di elaborarle, ma <b>la allontana da se stessa e dalle sue emozioni profonde</b>, rimuovendole e lasciandosi così inglobare dalla comune e dalle sue tradizioni, allo stesso modo in cui il <b>pesante vestito cerimoniale</b> che indossa la ricopre quasi completamente, soffocandola e impedendole i movimenti. Quella che mette in pratica è <b>una distruzione che annienta ma non crea null’altro che ulteriore sofferenza</b>, un elogio della morte più che della rinascita che dovrebbe venire. Il suo ultimo sorriso sullo schermo assomiglia molto alla risata folle di Thomasin (Anya Taylor-Joy) al termine di <b><i>The VVitch</i></b> (Robert Eggers, 2015). Entrambe, in effetti, si emancipano dalla sofferenza lasciandosi alle spalle la propria identità e accettando di immergersi in un culto. È una <b>ribellione cupa, eversiva e violenta</b> che non può che culminare nel fuoco; cosa risorgerà dalle ceneri, se il futuro sarà luminoso o ancora più oscuro, allo spettatore non è dato di saperlo con certezza. </div>
Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-39522202554658757852020-02-26T00:11:00.000+01:002020-03-03T22:58:19.705+01:00Memorie di un assassino (살인의 추억, Sar-in-ui chu-eok, Bong Joon-ho, 2003)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiJV8qyXEH62AZmfxBBivXeE_F6k8W0ADB1erSMakr_kx6lLSmoSw-wTIjd2BXktg-_aXO9mK1t4pzpsO3NFk2xr3CNbKMBI1VZQJo49Nr686owlHcS3ypUjjr1Bw88vDGTJpL8iTA3D74/s1600/memorie.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="600" data-original-width="420" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiJV8qyXEH62AZmfxBBivXeE_F6k8W0ADB1erSMakr_kx6lLSmoSw-wTIjd2BXktg-_aXO9mK1t4pzpsO3NFk2xr3CNbKMBI1VZQJo49Nr686owlHcS3ypUjjr1Bw88vDGTJpL8iTA3D74/s400/memorie.jpg" width="280" /></a></div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
Lungo una stradina sterrata che costeggia una miriade di campi verdi e rigogliosi, sotto un cielo azzurro intenso, un trattore avanza lentamente; un nugolo di bambini lo insegue festante. <b><i>Memorie di un assassino</i></b> si apre con immagini agresti, amene, ma la tranquillità è presto squassata; l’agricoltore che guida il mezzo, infatti, non si avvia ad una lunga giornata di lavoro, ma accompagna l’investigatore <b>Park Du-man</b> (Song Kang-ho) sulla scena di un <b>tremendo delitto</b>. All’interno di un canale di scolo poco lontano è stato rinvenuto il cadavere di una ragazza stuprata e uccisa. Si tratta di un evento inaudito e disturbante nella tranquilla provincia in cui il film è ambientato, che le locali forze dell’ordine sono del tutto impreparate ad affrontare. A coadiuvarle giunge da Seul il giovane e laureato detective <b>Seo Tae-yun</b> (Kim Sang-kyung), i cui metodi finiscono per scontrarsi con quelli, decisamente meno scientifici, di Du-man e del suo irascibile collega <b>Cho Yong-gu</b> (Kim Roe-ha). </div>
<a name='more'></a><br />
<div style="text-align: justify;">
Nel contrasto tra il provinciale Park Du-man e il cittadino Seo Tae-yun è visibile, in trasparenza, lo <b>scontro tra classi</b> al centro dei successivi <a href="https://shesoverbored.blogspot.com/2020/02/note-su-snowpiercer.html" target="_blank"><i>Snowpiercer</i></a> e <i>Parasite</i>; le accurate e meticolose procedure del secondo sono apertamente derise dal primo, che indaga affidandosi al proprio istinto e alle proprie gambe, confidando che i criminali, in un’area così periferica e ristretta, dove tutti si conoscono, saltino fuori quasi da sé. <b>Il disprezzo è, del resto, reciproco.</b> Mentre Tae-yun scartabella documenti e analizza dichiarazioni e prove, andando scrupolosamente alla ricerca di una pista affidabile che possa indicare la via verso la risoluzione del caso, Du-man si affida alle voci di paese e persino alla magia, identificando dei possibili sospettati in alcuni soggetti dai comportamenti eccentrici, interrogandoli e torturandoli nei sotterranei della centrale, estorcendo dichiarazioni poco o per nulla veritiere. Più che una rigorosa indagine, si tratta dell'individuazione di <b>un capro espiatorio</b> a cui addossare la colpa delle disgrazie della comunità, che Tae-yun osserva con sufficienza e distacco. <br />
<br />
Un’<b>ironia feroce</b>, tuttavia, si accanisce su entrambi i personaggi e, se all’inizio i suoi effetti portano a momenti e sequenze venate di <b>efficace comicità</b>, con il procedere della trama – e l’inarrestabile proseguire delle uccisioni – gli eventi assumono un <b>tono sempre più cupo</b> (una dinamica riproposta anche nel già citato <i>Parasite</i>), acuito dall’evidente scarsità di mezzi e personale qualificato con cui la forza di polizia della zona si trova ad affrontare l’emergenza. <b>Le convinzioni lentamente si sgretolano e conflagrano con il susseguirsi dei buchi nell’acqua</b>: Du-man, dopo una serie di clamorosi abbagli, scopre quanto inaffidabili possano essere il proprio intuito e il proprio sguardo, mentre Tae-yun subisce una cocente e amarissima sconfitta proprio a causa dei documenti ai quali si affida ciecamente. La cattura dell’assassino rimane <b>un miraggio</b> che scompare non appena si è convinti di essersi avvicinati ad esso, e consuma progressivamente la forza d’animo di chi tenta di affrontarlo, indebolendone le convinzioni e la morale. È <b>un abisso</b> che, come in <i>Zodiac</i> (David Fincher, 2007), attira, imprigiona e ossessiona senza mostrare nulla di sé se non poche e sparute tracce. <br />
<br />
Il luogo in cui è ambientato il confronto finale contiene l’immagine che in un certo senso esemplifica e riassume sullo schermo il terribile potere di un crimine irrisolto: <b>l’imbocco oscuro di una galleria ferroviaria</b>, all’interno della quale i binari si perdono in una tenebra che la luce del sole non riesce a penetrare. È il portale verso <b>la parte nascosta dell’animo umano</b>, la più profonda e allo stesso tempo la più inconoscibile, dove dimorano le emozioni più intime, violente e, spesso, inconfessabili, che dovrebbero restare per sempre celate (e irrealizzate) e che invece le azioni ribelli dell’omicida portano alla luce. L’opera degli investigatori, quindi, è in fondo <b>un arduo scavo nell’altrui e propria personalità</b>, che mette alla prova la coscienza individuale e destabilizza, rivelando forse ciò che si preferirebbe continuare a non conoscere. È <b>un mondo sommerso</b> – un concetto che <i>Parasite</i> esplora a fondo con un’accezione forse più apertamente sociologica – <b>la cui esistenza è suggerita e richiamata in molte altre ambientazioni del film</b>, come il sotterraneo della centrale dove i sospetti vengono condotti per essere interrogati e seviziati, o il famigerato alloggio segreto scavato sotto i bagni pubblici accanto alla scuola, dove vivrebbe un folle che, secondo una leggenda, emergerebbe di notte per violentare ed uccidere le ragazze. Il ritrovamento della prima vittima, in effetti, già anticipa la presenza di questa dimensione parallela: per osservare il punto dove è stato abbandonato il cadavere, infatti, Du-man si inginocchia a terra e guarda all’interno della buia e profonda canaletta. <br />
<br />
<b>I corpi delle sventurate donne</b> sono gli unici indizi di atti orribili perpetrati all’imbrunire e sotto una cortina di fitta pioggia, i soli segni che il colpevole lascia dietro di sé, enigmi che parlano indirettamente del proprio creatore senza però, paradossalmente, rivelarne abbastanza per comprenderlo davvero. Un uomo capace di atti tanto efferati può avere <b>un’apparenza normale, comune</b>, mimetizzarsi perfettamente in mezzo al resto della comunità e quindi, in un certo senso, disciogliersi in essa, contaminarla tutta. Se un assassino può nascondersi dietro le sembianze di un qualunque individuo, allora qualunque individuo può, in potenza, essere un assassino. A nulla vale concentrarsi su <b>atteggiamenti e azioni non conformi</b>, su compaesani per qualche ragione ai margini della società: <b>il male è perfettamente integrato in essa</b>, a tal punto da scomparire. È la definitiva <b>sconfitta</b> dell’indagine, che si scontra con l’impossibilità materiale di essere portata a termine, e che spinge verso la <b>follia</b> chi la conduce. L’unico modo di sopravvivere è allontanarsi dal vortice per quanto sia possibile; <b>l’irresistibile fascino</b> di un’impresa quasi irrealizzabile, tuttavia, è sempre pronto a risorgere, e con esso <b>la delusione della disfatta</b>, mai veramente accettata. </div>
Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-80727095254317432152020-02-16T15:59:00.001+01:002020-02-16T15:59:55.567+01:00Note su Snowpiercer
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<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh6uRNOiJwYKDSuhZD1btGSkWJNfn57S7uj2nlO5_YVqePa7F20q3-1HWSumVI_cCea5DxIm9oUnuK9Yl2ACWUA0Ot5TPMvIfYT8aGzJ3qEevLfofGu7f6c2r-pRUpjVwkca9OhVnEoTLw/s1600/snowpiercer.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="570" data-original-width="420" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh6uRNOiJwYKDSuhZD1btGSkWJNfn57S7uj2nlO5_YVqePa7F20q3-1HWSumVI_cCea5DxIm9oUnuK9Yl2ACWUA0Ot5TPMvIfYT8aGzJ3qEevLfofGu7f6c2r-pRUpjVwkca9OhVnEoTLw/s400/snowpiercer.jpg" width="293" /></a></div>
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<br /></div>
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Uno degli elementi più interessanti di <b><i>Snowpiercer</i></b> (Bong Joon-ho,
2013) è certamente <b>il mondo nel quale la sua storia si svolge</b>.
L’avvento di una glaciazione estrema ha causato nel 2014
<b>l’estinzione di gran parte della popolazione umana</b>, provocata –
in maniera piuttosto ironica – da un tentativo di scongiurare gli
effetti del riscaldamento globale, rilasciando un agente chimico
nell’atmosfera. I pochi superstiti rimasti viaggiano a bordo dello
<b>Snowpiercer, un avveniristico treno</b> costruito dal magnate Wilford (Ed
Harris), continuamente in movimento lungo un percorso che abbraccia
l’intero pianeta. Il mezzo costituisce un <b>ecosistema chiuso</b>, in
grado di produrre da sé il necessario per la sopravvivenza, anche se
non senza <b>grandi sacrifici</b>. </div>
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</div>
<div style="text-align: justify;">
</div>
<a name='more'></a><br />
<div style="text-align: justify;">
I vari ambienti del treno sono suddivisi rigidamente per <b>classi</b>,
tra le quali non c’è – apparentemente – nessuna forma di
comunicazione diretta. Come spiega Mason (Tilda Swinton) durante la
sua prima apparizione, la divisione è stata operata inizialmente
sulla base del <b>tipo di biglietto acquistato dai passeggeri</b> (prima
classe, seconda, o nessuno), venendo poi reiterata negli anni con lo
stesso vigore di una <b>legge divina</b>. Come un piccolo pezzo di un grande
motore, ogni persona ha un suo posto assegnato all’interno del
treno, che deve rispettare per evitare il nascere del caos. Per chi
sfortunatamente si trova alla <b>coda del treno</b>, però, questo significa
accettare una vita di <b>stenti, violenze e soprusi</b> perpetrati da chi si
trova alla <b>testa del veicolo</b>. C’è una certa affinità tra questi
relitti di umanità e quelli protagonisti della <b>saga di <i>Mad Max</i></b>:
entrambi vagano in un mondo post-apocalittico dove non esiste più un
domani, cercando di sfuggire alla disperazione e sopravvivendo grazie
a quel poco che resta della ormai estinta civiltà umana,
raggruppandosi sotto la guida di personalità tanto carismatiche e
(apparentemente) generose quanto aggressive e prevaricanti. Wilford,
in fondo, è un padre-padrone tanto quanto Immortan Joe in <i>Mad Max:
Fury Road</i> (George Miller, 2015), soltanto in maniera più raffinata. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="text-align: justify;">
L’invalicabile confine tra le classi, che separa poveri e ricchi
a tal punto che solo una violenta rivoluzione può tentare di
oltrepassarlo, riporta alla mente anche <b>la città di <i>Metropolis</i></b>
(Fritz Lang, 1927), dove gli operai faticano in un inferno di vapore
e metallo mentre chi trae guadagno dal loro lavoro vive in un
giardino dell’Eden incastonato tra avveniristici grattacieli. Al
contrario di quest’ultima pellicola, tuttavia, <i>Snowpiercer</i> non si
conclude con un’intesa tra il cervello e le mani grazie alla
mediazione del cuore; a bordo del treno, <b>l’esistenza di un futuro
diverso dal presente è resa impossibile dall’invariabile
ripetitività con cui la vita scorre nei vagoni</b>, grazie ad un sistema
insieme razionale e crudele, che combatte l’estinzione arrogandosi
il diritto di prendere il posto occupato in precedenza dalla natura,
sfruttando, uccidendo ed ingannando innocenti nel nome della
sopravvivenza a tutti i costi. L’unico modo di spezzare questo
ciclo di abiezione è l’azione di un uomo «fatto anche lui come
tutti gli altri», come dice <b>Italo Svevo</b> nell’ultimo paragrafo de
<b><i>La coscienza di Zeno</i></b>, «ma degli altri un po’ più ammalato»,
quale potrebbe essere, più di Curtis (Chris Evans), <b>Namgoong Minsoo</b>
(Kang-ho Song), disposto a rischiare l’autodistruzione per porre
fine alle sofferenze di un’umanità ormai irrimediabilmente
corrotta fin nel midollo, dando la possibilità alla Terra – e alla
stessa umanità, almeno in <i>Snowpiercer</i> – di <b>ripartire completamente
da zero</b>.
</div>
Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-40114918826049021752020-02-06T01:47:00.000+01:002020-03-03T23:00:42.652+01:00Jojo Rabbit (Taika Waititi, 2019)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjXFBOwIEX2CSOW3S1wb_2tolM9LtDtzADihRx0NWOfP_J7JSvMrJmaR3t5FIR5pR4oGKwhM2okYAdFI_ryMuLgg2uwnkqdhjzm0-SY9oz8NcZ-7GQX44_9YAgjmbNx8NH20Mqv_6kLfyM/s1600/jojorabbit.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="600" data-original-width="420" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjXFBOwIEX2CSOW3S1wb_2tolM9LtDtzADihRx0NWOfP_J7JSvMrJmaR3t5FIR5pR4oGKwhM2okYAdFI_ryMuLgg2uwnkqdhjzm0-SY9oz8NcZ-7GQX44_9YAgjmbNx8NH20Mqv_6kLfyM/s400/jojorabbit.jpg" width="280" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<br />
<b>Maschere e travestimenti fanno da sempre parte dei giochi infantili</b>; assumere identità ed esplorarle è una componente fondamentale del processo che porta a trovare la propria, e che spesso passa attraverso il riconoscersi come <b>membri di un gruppo</b> dagli specifici valori e obiettivi, un istinto che si raffina in età adulta ma che in un certo senso non scompare mai del tutto. Alla radice del fervente nazismo del giovane protagonista di <i>Jojo Rabbit</i> e dei suoi coetanei vi è in fondo <b>uno spasmodico desiderio di appartenenza</b>, di cui la dittatura si serve crudelmente per i propri scopi bellici. <b>Johannes Betzler</b> (Roman Griffin Davis), del resto, ha<b> dieci anni nel 1945</b>; tutta la sua carriera scolastica si è svolta all’ombra della croce uncinata e del mito del <b>Führer</b>, che idealizza come suo <b>amico immaginario</b>. Ai suoi occhi la propaganda del regime è verità, e il grande carnevale delle divise, delle regole e dei complessi rituali non è <b>una folle recita</b>, della quale Taika Waititi enfatizza la tragicomica assurdità, ma la realtà. <br />
<a name='more'></a><br />
La guerra raccontata alle ingenue reclute della Gioventù hitleriana è <b>un eroico e glorioso sforzo per la patria</b>, del quale anche gli aspetti più cruenti e controversi sono idealizzati o celati. I valori celebrati sono il coraggio nell’affrontare il nemico e la freddezza nell’eliminarlo; <b>non c’è spazio per la pietà</b>, neppure verso un animale innocente. <b>L’indottrinamento è completo e assoluto</b>, e il suo unico scopo è creare irriducibili sostenitori e soprattutto piccoli soldati che possano farsi carico dell’ultima, disperata difesa del Terzo Reich, che si sta inesorabilmente sgretolando sotto la crescente pressione degli Alleati. L’inevitabilità della sconfitta non è mai lasciata trasparire da nessuno degli adulti responsabili dell’educazione dei bambini: <b>non c’è spazio per i dubbi o per le sfumature</b>. La più cieca obbedienza è ottenuta attraverso proclami e dichiarazioni la cui certezza è, per i bambini, inebriante e rassicurante, l’espressione di una definita e familiare lettura della realtà che appare inevitabile ed incrollabile. Dietro le esercitazioni e le lezioni non c’è nessun intento didattico, anzi; l’unico obiettivo è <b>propagare e rinforzare le menzogne del regime</b>, in particolare per quanto riguarda <b>la questione razziale</b>. Fräulein Rahm (Rebel Wilson) dà ampio credito agli stereotipi e alle ridicole fandonie che i bambini raccontano sugli ebrei, anche quando sfociano nella pura fantasia. Tutto ciò che conta è rinfocolare l’odio e celebrare la violenza in nome della patria. <b>Ciò non significa, tuttavia, che la fede nel nazismo sia completa ed assoluta in tutti i supervisori</b>; il capitano K (Sam Rockwell), in particolare, sotto la divisa nasconde un’anima meno nera di quello che appare, e un’identità spiccata che appare in contrasto con il conformismo dell’ideale virile ariano. <br />
<br />
All’apparato di regime si contrappone <b>l’amorevole e coraggiosa Rosie</b> (Scarlett Johansson), la madre di Jojo. Vestita di colori brillanti, sorridente e speranzosa nonostante le difficili condizioni di vita, la donna si oppone come può alla dittatura, senza coinvolgere il figlio per proteggerlo dalle conseguenze, ma allo stesso tempo senza mentirgli. Le sue battute e le sue azioni sono <b>oneste e spontanee</b>; in esse c’è l’intenzione di trasmettere a Jojo, che non ha conosciuto altro che la guerra o i suoi prodromi, <b>la bellezza di un mondo in pace</b>. Nel suo insistere perché il bambino veda i cadaveri impiccati dei dissidenti c’è un vero intento educativo, la volontà di mostrargli la brutalità del regime e la prova tangibile del coraggio di chi si ribella, che è molto maggiore di quello necessario a lanciare una granata in un bosco o a diffondere frottole. Non gli nasconde l’estrema pericolosità del mondo oltre la soglia della porta di casa, ma lo invita umoristicamente a tenerlo a mente e ad affrontarlo; non è una madre perfetta, ma è capace di discutere con il figlio del vuoto lasciato dal padre – disperso in Italia e probabilmente unitosi alla resistenza – con sincerità e dolcezza. È spesso <b>associata alla musica e alla danza</b>, simboli della liberazione dall’oppressione fisica e psicologica della dittatura, il naturale contrario del rigido e artificioso passo dell’oca dei soldati. <b>Non indossa divise e non porta maschere, ma rimane se stessa</b>, senza accettare l’interpretazione nazista della realtà ma anzi, battendosi contro di essa con gli strumenti che possiede. All’ideologia del rifiuto sprezzante della debolezza e della diversità, celebrata dal partito nazionalsocialista, si oppone <b>l’affettuoso sostegno e la tenera comprensione con cui la donna sprona Jojo ad affrontare le difficoltà</b>, e il suo porre l’accento sul fare ciò che si può, secondo le proprie possibilità, per incentivare la sopravvivenza della giustizia e della libertà, mossi dall’amore e non dall’odio. <br />
<br />
Anche <b>Elsa Korr</b> (Thomasin McKenzie), l’adolescente ebrea che Rosie accoglie in casa all’insaputa del figlio, non risponde all’immagine femminile propagandata dal regime, ma anzi ne è <b>il suo esatto contrario</b>. Cresciuta nella paura e indurita dalle enormi avversità che si è trovata ad affrontare, è una <b>creatura selvatica</b>, rabbiosa e aggressiva, che si difende attaccando e che risponde con irritazione alle domande di Jojo, che cerca di ritrovare in lei, senza riuscirci, lo stereotipo razziale che gli è stato inculcato. La <b>normalità</b> della ragazza, in nulla diversa dalle sue coetanee giudicate ariane, risulta sempre più evidente anche agli occhi del protagonista, per il quale è sempre più difficile ignorarne la natura umana e non mostruosa, rendendo progressivamente più arduo il considerarla altro da sé e nemica, e pertanto continuare ad avvallare il sistema di valori che ha appreso. <b>Con la sua stessa esistenza Elsa porta sulla scena l’ovvia e lampante verità che il Reich tenta di nascondere in ogni modo: non c’è nessuna reale differenza tra un ariano ed un ebreo.</b> La brusca schiettezza della ragazza contrasta fortemente con <b>l’apparenza giocherellona ed affabile dell’immaginario Hitler</b> (interpretato dallo stesso regista), prodotto degli effetti della propaganda sulla mente di un bambino; il modo di fare bonario, tuttavia, è soltanto <b>un velo posto sopra ai messaggi della dittatura</b> e al suo sempre più insistente e disperato appello ai suoi seguaci perché rimangano fedeli ad essa nell’ora della resa dei conti. <br />
<br />
Le <b>drammatiche conseguenze</b> di un simile e prolungato indottrinamento emergono a piena potenza in alcune sequenze della parte finale di <i>Jojo Rabbit</i>; la furia dei molti bambini e adolescenti che lottano contro l’inevitabile sconfitta è <b>l’espressione massima del sistema di valori che è stato loro imposto fin dalla più tenera età</b>, e che li ha plasmati in irriducibili sostenitori del nazismo, l’unico sistema sociale che abbiano mai conosciuto. La scrittura e la regia di Waititi affrontano un tema così complesso con grande <b>delicatezza e leggerezza</b>, e pur mantenendo un tono per lo più allegro per la maggior parte della vicenda, l’intento morale della storia raccontata emerge chiaramente, senza perdere forza ma anzi acquistandone, in quanto è proprio il punto di vista infantile a far risaltare la violenza e la pervasività della persuasione operata dal totalitarismo su una mente innocente. Nel fare ciò dimostra di essere in possesso di un dono non comune: <b>far riflettere con il sorriso</b>. </div>
Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-20826709229259164082020-01-28T00:55:00.000+01:002020-01-28T01:03:19.525+01:001917 (Sam Mendes, 2019) <div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiTGFHmF_etz7HPsPl4IOc8PpTGPkspNQCgDS1_ZVRUGWNlc4ECE2NdjrSCftxSOqTGYyYL__ORcngSfdI5khmnOjZPn0SycRxglxQbHuG4vJQ8ajHy44IosQAZqq4xvOXWNB3SCKOkLiQ/s1600/19172.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="622" data-original-width="420" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiTGFHmF_etz7HPsPl4IOc8PpTGPkspNQCgDS1_ZVRUGWNlc4ECE2NdjrSCftxSOqTGYyYL__ORcngSfdI5khmnOjZPn0SycRxglxQbHuG4vJQ8ajHy44IosQAZqq4xvOXWNB3SCKOkLiQ/s400/19172.jpg" width="270" /></a></div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<b><i>1917</i> inizia e si chiude allo stesso modo</b>: sotto un albero nel mezzo di un verde prato, in un'atmosfera amena. Tra queste due immagini simili si snoda <b>una discesa tortuosa e sofferente in un Inferno in Terra</b>. Ai due giovani soldati <b>Blake</b> (Dean-Charles Chapman) e <b>Schofield</b> (George MacKay) viene affidato l’arduo incarico di <b>attraversare le linee nemiche</b> per consegnare un dispaccio al colonnello di un battaglione inglese, pronto ad attaccare i tedeschi in ritirata con i suoi 1600 uomini, senza sapere, però, che il nemico lo sta in realtà attirando in una terribile trappola; a differenza di <b>Dante</b>, che nella sua esplorazione dell’aldilà si era avvalso di sapienti guide in grado di dirigere i suoi passi nella giusta direzione, nessun Virgilio è presente a consigliarli nel loro pericoloso viaggio. Per affrontare coraggiosamente l’orrore del fronte occidentale non potranno che fare affidamento su una bussola e soprattutto <b>l’uno sull’altro</b>. </div>
<a name='more'></a><br />
<div style="text-align: justify;">
<b>Il flusso ininterrotto del pianosequenza esplora i luoghi desolati e inospitali straziati dal conflitto</b>, come un campo di battaglia abbandonato, dove non c’è traccia di erba ma solo terreno smosso infinite volte dalle granate, dal quale non emergono piante ma filo spinato, e interrotto ogni pochi metri dai grandi crateri spalancati dalle mine e dalle bombe. Parrebbe quasi <b>un panorama alieno, lunare</b>, non fosse per i <b>cadaveri</b> di uomini e animali ammassati disordinatamente in ogni dove, abbandonati al loro destino e privati di una degna sepoltura dalla brutalità della guerra. Tuttavia, ciò non è che un preludio; il portale degli inferi è <b>il corridoio buio di una trincea tedesca</b>, e al di là di esso non c’è pace, neppure tra le mura di una vecchia fattoria in mezzo alla natura. La violenza dell’uomo sull’uomo giunge perfino dal cielo, distrugge e uccide senza pietà. Dietro di sé non lascia che morte e montagne di munizioni usate e armi distrutte, cataste di carne putrefatta e metallo contorto, oggetti ormai privi di funzione, ciò che resta di un’apocalisse che non è terminata ma si è soltanto allontanata di qualche chilometro. Si combatte fino all’ultima goccia di sangue per ogni singolo metro di una landa che la guerra stessa devasta e rende inabitabile. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br />
<b>Il culmine è raggiunto tra le mura di una città spettrale</b>, che Sam Mendes e Roger Deakins dipingono sullo schermo con i colori di un’allucinazione affascinante e mostruosa al tempo stesso, un cumulo di macerie immerse nell’oscurità e illuminate dal riverbero caldo delle fiamme e a tratti dal bagliore dei bengala, con luci e ombre fortemente espressioniste, surreali come quelle di un incubo di una mente disturbata. <b>Écoust-Saint-Mein è una Dite dantesca sorta in territorio francese</b>, un luogo desolato e senza speranza, popolato – almeno in superficie – soltanto da esseri ostili e folli, che sarebbe forse più confortante credere diavoli invece che esseri umani. <b>L’acqua del fiume purifica dalla terribile esperienza</b>, almeno finché non ci si avvicina di nuovo alla terraferma e al suo carico di sofferenza; dopo la risalita, tuttavia, <b>un canto religioso</b> tra le fronde di una rigogliosa foresta rinfranca per un attimo lo spirito, invocando l’immagine di un <b>Paradiso</b> etereo, lontano dai patimenti terreni. È purtroppo <b>un sollievo di breve durata</b>, soltanto un sogno fugace che dona un po’ di necessario e meritato conforto poco prima dell'ultima prova prima del termine del percorso. <br />
<br />
<b>La Prima guerra mondiale raccontata in <i>1917</i> è un rigoroso massacro che non ha altro obiettivo che una distruzione dell’avversario che finisce per diventare quasi fine a se stessa</b>; è una contesa politica lontana dalla vita delle persone comuni che incide i suoi passaggi più rilevanti a fondo nella carne di esseri vivi, di padri, figli e fratelli, sciagurate pedine poste dai potenti sul grande scacchiere della partita tra gli stati nazionali. <b>È una lotta testimone di atti eroici ma che non ha nulla di nobile</b>, dove le medaglie non sono che pezzi di latta e nastrini colorati da consegnare ad una vedova in lacrime. <br />
<br />
<b>Non c’è ombra di idealismo nelle battute degli ufficiali nelle prime linee, ma piuttosto frustrazione e sfinimento portate da una massacrante e atroce guerra di logoramento.</b> Dopo anni di campagne infruttuose e di sostanziale stallo l’unico, concreto esito dello sforzo bellico è un mostruoso sviluppo tecnologico degli armamenti, sempre più fatali, e soprattutto una conta dei morti astronomica e in continua crescita. È un orizzonte cupo e buio, dove l’unica possibilità di vittoria non sta tanto nella scaltrezza tattica in sé e per sé quanto nel resistere più a lungo del nemico, nello spremere meglio dell'avversario le proprie risorse umane ed economiche, in uno sforzo tutto concentrato sul presente. Gli ordini superiori diventano privi di senso, direttive continue e spesso contrastanti tratte da un copione che nessuno degli attori realmente sul palco può leggere, e che tuttavia ha conseguenze pesantissime. La guerra totale è un’esperienza così estrema, dalle circostanze talmente disperate, che <b>spinge gli uomini ad mostrarsi nella loro essenza più pura</b>, spazzando via dalla narrazione tutto ciò che non è fondamentale: il racconto della missione di Blake e Schofield è, al netto dei tanti ostacoli, una linea retta che ha come unico scopo la loro sopravvivenza e quella dei loro commilitoni; i personaggi sono resi sullo schermo soltanto nei loro tratti principali, gli unici necessari. <br />
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<b><i>1917</i> è un viaggio attraverso un teatro di guerra che è anche un’esplorazione dell’interno di una ferita, aperta simultaneamente nei corpi e nel terreno.</b> All’inizio del suo percorso Schofield si ferisce il palmo di una mano sul filo spinato tedesco, e poco più tardi la infila, per una casualità, nel cadavere straziato di un soldato nemico, in un certo senso rigurgitato dalla terra stessa, incapace di inghiottire altri morti.<b> Il contatto con l’orrore è inevitabile e viscerale.</b> La pace futura si trova soltanto negli occhi di Blake, che guardando dei ciliegi abbattuti vede gli alberi che ricresceranno ancora più numerosi di prima; anche se prima che succeda, la sofferenza, le fiamme e il metallo spadroneggeranno. <br />
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La trama che fa da scheletro alla rappresentazione è piuttosto semplice e lineare sotto un certo punto di vista; Sam Mendes, tuttavia, cuce insieme i vari passaggi della storia raccontata con <b>l’abilità e fluidità di un sarto esperto</b>, plasmando <b>un’opera solida e curata in tutti i suoi aspetti</b>, pensata per essere spettacolare e allo stesso tempo profondamente commovente, con <b>un nucleo intimo</b> che resiste e trapela tra le maglie fitte degli eventi sconvolgenti e dei movimenti attentamente studiati. </div>
Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-51781741569192425902020-01-22T00:24:00.000+01:002020-01-22T00:24:50.641+01:00Un sogno chiamato Florida (The Florida Project, Sean Baker, 2017) <div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgQjlK7S4cxqO0tCON_rP7yLElTbN5u_k5BbcrHBwvNL56RewvRFcQTzYjJ1LZulNqTZ4_DSMxvBVSob6dzXtYuk7l8mDdIjDiLN3GfnQEYulBHfqdCIkHUa9FlLsRf9-FuDIdjo4rnA6w/s1600/florida.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="777" data-original-width="550" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgQjlK7S4cxqO0tCON_rP7yLElTbN5u_k5BbcrHBwvNL56RewvRFcQTzYjJ1LZulNqTZ4_DSMxvBVSob6dzXtYuk7l8mDdIjDiLN3GfnQEYulBHfqdCIkHUa9FlLsRf9-FuDIdjo4rnA6w/s400/florida.jpg" width="282" /></a></div>
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<b>Un colore in particolare domina i fotogrammi di <i>Un sogno chiamato Florida</i>:</b> è il lilla delle pareti del Magic Castle, uno dei tanti motel sparsi lungo le strade che portano a Disney World a Orlando. La tinta sgargiante e il nome evocativo (che richiama spudoratamente il <a href="https://disneyworld.disney.go.com/en-eu/destinations/magic-kingdom/" target="_blank">Magic Kingdom</a>) sono meri mezzi per sfruttare la popolarità del parco e fare presa nella mente di quei turisti alla ricerca di una sistemazione più economica rispetto ai costosi e rinomati alberghi presenti nei dintorni del complesso. In realtà, tuttavia, al di là della mano di vernice fresca, si tratta di <b>una struttura vecchia e piuttosto squallida</b>, popolata da un variegato insieme di persone che risiedono in maniera più o meno stabile al suo interno poiché troppo povere per permettersi l’affitto di una casa vera, disoccupate o, più di frequente, impegnate in lavori saltuari o attività criminose. Il panorama è abbastanza <b>desolante</b>, dominato dalle strade, lunghe e piatte strisce di cemento grigie. Una moltitudine di insegne affastellate freneticamente l’una sull’altra promette la soddisfazione dei propri desideri, qualunque essi siano, velocemente e a buon prezzo – l’apoteosi dell’urbanistica capitalista. I negozi, al di là dell’estetica appariscente, sono dimessi, banali. Eppure gli occhi di <b>Moonee</b> (Brooklynn Prince), la bambina protagonista, che vive con la madre in una delle stanze del Magic Castle, riescono a scovare bellezza, magia e promesse di avventura anche in un luogo così poco adatto a stimolare l’immaginazione infantile. <a name='more'></a><br /><br /><b>Il fiabesco universo architettato dal colosso dell’intrattenimento californiano appare per lo più di sfuggita, ai margini, spesso solo suggerito;</b> tra esso e i miseri abitanti dei motel c’è un muro invisibile ma molto concreto, composto dal denaro necessario a comprarsi il biglietto e, soprattutto, gli agi e la tranquillità di una vita normale all’interno della società. Appena oltre le porte del luogo concepito specificatamente per essere un paradiso terreno in cui esprimere o ritrovare appieno la spensieratezza dell’infanzia (purché se ne possa pagare il prezzo) stanno <b>i perdenti del grande sogno americano</b>, tutti coloro che non riescono ad elevarsi dalla propria condizione di indigenza, resa ancora più evidente, a livello figurativo e narrativo, dalla prossimità ad un luogo così fortemente associato a sensazioni di meraviglia e felicità. Tutto quello che possono permettersi è una sbirciata da lontano allo spettacolo pirotecnico, ai fuochi d’artificio che si alzano sopra le recinzioni e le cime degli alberi. <br /><br /><b>Halley</b> (Bria Vinaite), la giovanissima madre di Moonee, un passato recente come spogliarellista, vive alla giornata, racimolando attraverso piccole truffe quanto basta per saldare il conto settimanale al motel; il suo passatempo principale è fumare una canna dopo l’altra sdraiata sul letto, lo sguardo perso nelle televendite e nei programmi di un qualche oscuro canale televisivo. Alla radice del suo comportamento distaccato, arrogante e disinteressato sembra di scorgere <b>la rassegnazione di chi è convinto di essere stato sconfitto dalla vita e ha perso ogni intenzione di combattere</b>. Al contrario della sua amica Ashley (Mela Murder), infatti, non cerca davvero di migliorare la propria condizione economica per garantire un’esistenza più agevole e meno precaria alla figlia, che pure ama intensamente, nonostante si comporti come una poco affidabile sorella maggiore. Halley è in fondo una ragazza che ha vissuto in fretta senza avere avuto il tempo di crescere e non è in grado di guidare ed educare Moonee, che spesso e volentieri è lasciata a se stessa insieme ai suoi amici, tra i quali, essendo la più intraprendente ed esperta, ricopre il ruolo di capobranco, guidando le scorribande del manipolo durante le lunghe giornate estive e combinando una marachella dietro l’altra con un variabile livello di gravità. La protagonista, in realtà, mette ingenuamente in pratica le poche e spesso diseducative lezioni ricevute osservando il comportamento della madre. Ad assumere il ruolo di surrogato paterno sia per Halley che per Moonee è <b>Bobby</b> (Willem Dafoe), il supervisore del motel, sul quale regna bonariamente, occupandosi appassionatamente dello stabile e di tutti i suoi inquilini nonostante le frustrazioni e le difficoltà di ogni giorno, ingiuriato quando si verifica un guasto e acclamato come una star subito dopo la riparazione. Si intuisce, durante una sequenza, quali siano le motivazioni che lo portano a sentire questo forte istinto di cura nei confronti dei suoi ospiti, un sentimento che probabilmente in un altro contesto, più personale, non può più esprimere. <br /><br />Durante una gita in mezzo al verde Moonee spiega all’amica Jancey (Valeria Cotto) perché ama particolarmente l’albero su cui si sono inerpicate per divorare pane e marmellata: <b>pur essendo così obliquo rispetto al terreno da essere praticamente capovolto, infatti, continua a crescere</b>. Lo stesso fanno, in un certo senso, la bambina e i suoi coetanei: nonostante le condizioni difficili delle loro famiglie vivono giornate felici, continuando ad esprimere l’entusiasmo e la gioia del loro animo infantile nonostante le circostanze. Sean Baker mette in scena la vicenda attraverso i loro occhi, lascia piena libertà ai piccoli attori e ne cattura la <b>dirompente e irriverente spontaneità</b>. <br /><br /><b>L’estate raccontata attraverso una miriade di brevi episodi in <i>Un sogno chiamato Florida</i> inizia come una festa chiassosa e colorata sulle note di <i>Celebrate</i> dei Kool & The Gang e rimane tale per gran parte della sua durata</b>, grazie soprattutto alla vivace fantasia di Moonee, che le permette di trovare un rifugio dalle crescenti complicazioni che minacciano la sua serenità; la sua salvezza sta proprio nella sua immaginazione, un <b>filtro</b> che la rende in grado di trovare il bello in ciò che ha attorno a sé, per quanto ordinario o brutto possa essere. Il suo punto di vista aleggia lungo tutta la pellicola ammantando di leggerezza una storia altrimenti piuttosto cupa, almeno nei suoi snodi più significativi. Nonostante l’impossibilità di accedere agli opulenti divertimenti di Disney World, la protagonista è in grado di costruirsi <b>il proprio parco dei divertimenti personale</b> inventandosi attività nei luoghi che conosce, sfruttandone le caratteristiche; una villa abbandonata diventa una casa infestata, delle mucche al pascolo si tramutano in un safari. Il maggior pregio del film è del resto proprio la sua capacità di mettersi allo stesso livello di Moonee e dei suoi amici, cogliendone i comportamenti con grande realismo, senza sporcarli con una sensibilità troppo matura. <b>La pressione della drammatica realtà in cui abita</b>, tuttavia, si fa via via più opprimente ed infine impossibile da ignorare, ed è proprio allora che la necessità di rifugiarsi nei propri sogni ad occhi aperti diventa più forte. La frenetica sequenza finale è, sotto un certo punto di vista, <b>la manifestazione del disperato desiderio di non perdere la propria innocenza</b> nonostante gli sconvolgimenti che le decisioni degli adulti comportano; nell’ultimo sguardo è dichiarata silenziosamente la volontà di mantenere i propri occhi di bambino, una supplica giusta ma irrimediabilmente vana e per questo profondamente struggente. </div>
Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-62328898460401945372020-01-12T18:42:00.001+01:002020-01-12T18:42:49.115+01:00Under the Skin (Jonathan Glazer, 2013)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgkCv6Dvp-ocIsGkbhnWAhT4nYIfAzWwpztgWUgFoZMFZW54HcBwcs9QOSfyjrtNpPDLXQ9IKCH4WlVmMK7YGOSdbrkDqoiZKovXTCiv7MkW0z51DXoXsoc4cHyo84Lrh-aNWEHMmwNre8/s1600/undertheskin.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="714" data-original-width="500" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgkCv6Dvp-ocIsGkbhnWAhT4nYIfAzWwpztgWUgFoZMFZW54HcBwcs9QOSfyjrtNpPDLXQ9IKCH4WlVmMK7YGOSdbrkDqoiZKovXTCiv7MkW0z51DXoXsoc4cHyo84Lrh-aNWEHMmwNre8/s400/undertheskin.jpg" width="280" /></a></div>
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Il primo atto che la protagonista di <i>Under the Skin</i> compie sullo schermo è <b>spogliare un cadavere per indossarne i vestiti</b>. Non sappiamo nulla di lei: è introdotta completamente nuda accanto alla donna morta in un ambiente bianco, irreale, asettico. L’apparenza che ruba non nasconde un’identità determinata, ma al contrario colma uno spazio vuoto, <b>maschera un corpo e un volto misteriosi</b>, che esistono in quanto tali senza comunicare nulla di sé e della propria storia. Il film fornisce una labile spiegazione a questa presentazione lasciando supporre che si tratti di una <b>forma di vita aliena</b> giunta sulla Terra per compiere una missione che non viene mai chiaramente esplicitata. Per tale ragione, quindi, <b>lo sguardo della protagonista sull’umanità sarebbe distaccato e apatico</b>; gli abitanti del pianeta non sembrerebbero, per lei, nient’altro che prede da irretire con il proprio fascino e consumare. Le sue vittime sono principalmente di <b>sesso maschile</b>: la creatura, infatti, passa meticolosamente in rassegna le strade scozzesi a bordo del suo furgone, fermando i passanti fingendo di essersi persa e di aver bisogno di indicazioni, cercando di convincerli ad accettare un passaggio, così da poterli sedurre. Quando essi accettano di seguirla in un posto tranquillo, ammaliati dalla promessa di un <b>rapporto sessuale</b>, si condannano a finire <b>invischiati in una trappola mortale</b>. <a name='more'></a> </div>
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<b>La caccia è condotta con assoluta freddezza</b>: la protagonista, almeno inizialmente, non mostra apertamente né gioia né orrore per le sue azioni, che sono portate a termine con estrema determinazione e grande pragmatismo. I muscoli del volto di <b>Scarlett Johansson</b> si muovono in maniera quasi impercettibile attorno alle sue labbra carnose e ai suoi occhi spalancati, su cui le palpebre calano raramente. Quando è alla ricerca di una preda nel suo sguardo impassibile e calcolatore c’è una <b>frenesia</b> appena celata, una fame insaziabile. La sequenza ambientata su una spiaggia incuneata tra ripide scogliere è, sotto questo punto di vista, esemplare: la creatura osserva una terribile tragedia che si svolge silenziosamente sotto i suoi occhi senza cercare altro che il modo per trarne vantaggio, intervenendo violentemente, ma in maniera minimale, solo per ottenere ciò di cui ha bisogno. Non è poi così dissimile da un <b>avvoltoio</b>, che rimane in disparte ad attendere che le crudeli leggi della natura gli presentino un pasto senza richiedergli uno sforzo eccessivo. <b>Il terribile destino delle vittime è messo in scena tramite uno stratagemma visivo di particolare potenza ed efficacia</b>: in uno spazio completamente nero, apparentemente al di fuori delle coordinate spaziali del reale, gli sventurati seguono la protagonista che procede in avanti lanciando loro sguardi allusivi, spogliandosi e spingendo loro a fare lo stesso. Mentre cercano di raggiungerla, però, a differenza di lei gli uomini vengono <b>inghiottiti</b> dalla superficie su cui camminano. La colonna sonora di <b>Mica Levi</b> distorce una melodia sensuale fino a trasformarla in un suono freddo e inquietante; il ritmo dei colpi regolari ricorda un tamburo rituale durante un sacrificio. Come <b>un ragno nella sua tela</b>, in quell’ambiente la creatura ha l’assoluto controllo sulla situazione, esercita un dominio incontrastato. Nonostante tutto questo, però, durante il suo incessante vagare emerge a tratti un’<b>irrequietezza</b> data forse dall’<b>impossibilità di raggiungere una definitiva soddisfazione</b>. Ad ogni uccisione ne segue un’altra, in una ripetizione continua e quasi forzata. In una delle sequenze più affascinanti viene mostrato <b>il processo attraverso il quale le vittime vengono assimilate</b>: abbandonando ogni apparenza di realismo per tornare all’astrattismo del segmento introduttivo, Glazer lo rappresenta come <b>una catena di montaggio</b>, dipinta a tinte rosso sangue, che trasforma la materia umana in nutrimento per una misteriosa energia. <br /><br /><b>Si potrebbe pensare, a questo punto, che nella protagonista non ci sia nulla di umano</b>: la si potrebbe vedere come un predatore che non ha nulla in comune con le sue vittime. Tuttavia ciò non corrisponde necessariamente alla verità. Dopo aver indossato i vestiti sottratti al cadavere, probabilmente necessari solamente a permetterle di uscire all’aperto mescolandosi alla folla, la creatura si reca in un centro commerciale per acquistarne altri, che sceglie con cura. Lungo la sequenza la protagonista <b>compone il travestimento che indosserà per il resto del film</b> e che le permetterà di mandare il messaggio desiderato alle sue prede. Non è, dopotutto, completamente ingannevole: il cappotto di pelliccia marrone richiama in fondo il suo comportamento selvaggio e predatorio. Entra poi in una profumeria per acquistare matita per gli occhi e rossetto, e la scena si chiude su una serie di inquadrature incentrate su altre clienti che si fanno truccare dalle commesse. <b>A ben guardare è suggerito un certo parallelismo tra le sue azioni e quelle delle altre donne presenti nel negozio</b>; sia lei che loro costruiscono <b>un’apparenza artificiale</b> che le rende migliori e più belle e che serve ad attrarre e sedurre, comunicando al prossimo una certa idea di sé non del tutto corrispondente al reale. Non è forse, vero, dopotutto, che <b>la manipolazione e lo sfruttamento del prossimo</b> per trarne vantaggi personali sono comportamenti molto comuni tra gli esseri umani? Il plautino «homo homini lupus» è in ogni tempo rilevante. La caccia della protagonista si articola attorno alla continua ricerca di <b>rapporti occasionali</b>, in cui alla base non c’è né affetto né tanto meno amore per chi si sceglie, ma puramente l’egoistica volontà di prendere dall’altro ciò che è necessario alla soddisfazione dei propri bisogni; ciò vale tanto per lei che per i suoi accompagnatori che, seppur meno letali, non sono più altruisticamente orientati. La loro sconfitta è da imputarsi, alla fine, soltanto al minore controllo che hanno sulla situazione in cui finiscono per trovarsi. <br /><br />Il meccanismo di sfruttamento appena descritto <b>s’incrina fatalmente</b> nel momento in cui la protagonista incontra <b>un ragazzo deforme ma dall’animo puro e innocente</b> che, a differenza degli uomini precedenti, non si lascia attirare nella trappola convinto di poterne ricavare un qualche vantaggio personale, ma accetta lo strano dono di una sconosciuta con incredulità e, addirittura, una certa riluttanza, nonostante per tutta la vita non abbia desiderato altro che il contatto con un altro essere umano e in particolare con una donna. All’interno della casa diroccata che utilizza come base, in cui ha condotto il giovane, <b>la creatura si riflette in uno specchio</b>, costretta ad osservare il proprio volto e forse a vedervi impressa l’ombra del male perpetrato e del proprio profondo egoismo, reso tanto più evidente dalla delicata ingenuità dell’ultima vittima. Non si può essere il carnefice di qualcuno verso cui si prova compassione; concede al malcapitato di fuggire e, sommersa dai dubbi, <b>interrompe la propria caccia</b>. Durante il successivo rapporto che instaura, con <b>un uomo generoso e gentile</b>, attratto da lei ma non volto soltanto alla soddisfazione dei propri istinti, non è più lei a condurre il gioco; al contrario di quanto accadeva in precedenza <b>si lascia timorosamente guidare</b> da lui fino ad un momento di grandissima vulnerabilità. A quel punto, presa dal terrore, si tira indietro e ricomincia a fuggire, inoltrandosi in un bosco e facendo un ultimo incontro che avrà <b>tragiche conseguenze</b>. <br /><br />È possibile trovare una chiave di lettura di quanto accade in <i>Under the Skin</i> pensando <b>a cosa significhi provare empatia verso il prossimo</b>. Essere in grado di entrare in contatto emotivamente con l’altro passa attraverso l’abbattimento dei muri invisibili che si ergono per difendersi dal mondo, essere cioè <b>più vulnerabili</b>, termine che deriva dal verbo latino «vulnero» che significa «ferire»; aprire uno spiraglio nell’armatura che ci ricopre e ci protegge per darsi la possibilità di guardare al di sotto, più in profondità dentro se stessi, ponendo le basi per instaurare con l’altro un dialogo onesto, aperto e sincero, privo di inganni. Il comportamento del giovane sfigurato spinge la creatura al cambiamento; <b>la protagonista scopre gradualmente la propria capacità di provare sentimenti</b>. All’interno della stanza che l’uomo innamorato di lei le offre <b>la protagonista si specchia una seconda volta</b> e il modo in cui guarda a se stessa, una volta iniziato a sbloccare il suo universo emotivo, è sintomatico di come si attribuisca un nuovo significato; se prima infatti il suo corpo non era nulla più che uno strumento al servizio di uno scopo (la sopravvivenza e la sopraffazione), il cui travestimento o la cui nudità era unicamente funzionale al raggiungimento dello stesso, ora è qualcosa da scrutare con meraviglia, <b>un oggetto non soltanto sessuale ma una parte del sé</b>, un’espressione personale, in grado di provare sensazioni autentiche, di cui prendere possesso e a cui voler bene. È una scoperta, quasi <b>una seconda nascita</b>. <br /><br /><b>Essere vulnerabili, tuttavia, è spesso pericoloso</b>; passa attraverso emozioni intense e difficili da sopportare e soprattutto porta, naturalmente, a correre il rischio di essere feriti terribilmente da chi invece si pone nei confronti del prossimo pensando solo a cosa ricavarne, come sottolinea il cupo finale. Essere privi di difese può essere fatale, a maggior ragione per una donna. Il trauma subito distrugge definitivamente l’identità della protagonista così come appariva; l’abbattimento delle difese diventa <b>una ferita reale nella sua pelle</b>, che rivela ciò che era nascosto al di sotto, invisibile e sconosciuto (forse anche a lei stessa) ma sempre presente. È<b> una verità ardua da comprendere</b>, che viene rifiutata e data alle fiamme dall’uomo che si trova ad assistere al suo disvelamento. Nelle volute di fumo che salgono verso il cielo si può vedere sia la dimostrazione di <b>un pessimismo cosmico</b> che punisce chi non aggredisce per primo, sia <b>una rinascita</b>. Per quanto terribile sia, l’esperienza dolorosa, se superata, permette infatti di ascendere ad una dimensione più pura, ad una maggiore comprensione del mondo e di sé. Come il fuoco ardendo trasforma la materia, <b>così la sofferenza porta al cambiamento</b>, e in questo, l’esperienza della protagonista di <i>Under the Skin</i> è profondamente umana. </div>
Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-68286563913136929722020-01-02T23:29:00.000+01:002020-01-02T23:52:25.498+01:00Ritratto della giovane in fiamme (Portrait de la jeune fille en feu, Céline Sciamma, 2019)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgqK7WOwh568hyphenhyphenOeJF88X5punGFiFqDDeJvk-Y56zPFM3POcz5swyJM-mPny-P02ubW45G9YTIZsLJEEZ2X0L_5jkJL1vZhvE8ss3qQLEmb9dCFjZ54Ngh6xmnqS3oBzYBeKKa9c5AuEnE/s1600/pjff.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="655" data-original-width="464" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgqK7WOwh568hyphenhyphenOeJF88X5punGFiFqDDeJvk-Y56zPFM3POcz5swyJM-mPny-P02ubW45G9YTIZsLJEEZ2X0L_5jkJL1vZhvE8ss3qQLEmb9dCFjZ54Ngh6xmnqS3oBzYBeKKa9c5AuEnE/s400/pjff.jpg" width="282" /></a></div>
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L’evento che mette in movimento la trama di <i>Ritratto della giovane in fiamme</i> è <b>l’ostinato rifiuto di Héloïse (Adèle Haenel), giovane figlia della contessa (Valeria Golino), di farsi ritrarre in un dipinto</b>, da inviare come presentazione al nobile milanese con cui la madre, vedova, desidererebbe maritarla. <b>La protagonista, Marianne (Noémie Merlant), pittrice come suo padre prima di lei</b>, viene convocata nel <b>palazzo della nobildonna</b>, un tempo appartenuto al coniuge, situato su <b>un’isola bretone</b>, a poca distanza dalla frastagliata costa dell’Atlantico e immerso in una natura aspra, primordiale e selvaggia, apparentemente come compagna di passeggiate per Héloïse, che la madre tiene segregata in casa senza permetterle di uscire autonomamente per paura che segua le orme della <b>sorella maggiore</b>, l’originario oggetto delle contrattazioni matrimoniali, che ha preferito <b>suicidarsi</b> lanciandosi da una scogliera piuttosto che accettare di porre il proprio destino nelle mani di un uomo sconosciuto, senza la possibilità di autodeterminarsi. La sua morte ha costretto la contessa a far uscire Héloïse, la figlia minore, dal convento in cui si era ritirata per non abbandonare il proprio progetto, che è <b>ben lungi dall’essere del tutto altruista e disinteressato</b>; la donna infatti soffre la lontananza dai piaceri e dalle attrazioni di Milano, città in cui ha passato la propria gioventù e in cui vorrebbe ritornare attraverso la scelta del genero. <b>Affida a Marianne il compito di ritrarre Héloïse</b>, che non accettando di posare ha già spinto alla resa un altro abile pittore, <b>senza però che lei se ne accorga</b>: dovrà lavorare di notte, alla luce delle candele, sfruttando le giornate spese insieme alla giovane per osservarla e memorizzarne i tratti. La vicinanza tra le due ragazze, tuttavia, porta al nascere di un <b>forte sentimento</b>. <br />
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<b><i>Ritratto della giovane in fiamme</i> ruota attorno al tema della ridefinizione della propria identità di donna tramite l’abbandono delle regole della società patriarcale.</b> Héloïse, rifiutando di essere oggetto del quadro, si oppone alla rielaborazione e all’idealizzazione della propria immagine attraverso i canoni stabiliti nel corso del tempo dagli artisti e dai committenti di sesso maschile; <b>negandosi reclama il controllo su di sé e sul proprio destino</b>, non si rende complice di un’arte che non ha come obiettivo la verità o l’onestà, ma intende soltanto <b>compiacere lo sguardo dell’uomo</b>, rendendo il soggetto femminile niente di più che un oggetto da abbellire e non un individuo di cui esaltare le specifiche caratteristiche. <b>La reinterpretazione del mito di Orfeo ed Euridice</b> che viene proposta più avanti nella vicenda è da vedersi nello stesso modo: Euridice, nella lettura che ne dà Héloïse, non è più vittima di una decisione – sciagurata o deliberata che sia – del suo amato, ma è indipendente artefice del proprio destino. La ribellione di Héloïse è testarda ed assoluta: il convento è, dal suo punto di vista, un’enclave femminile in cui poter essere libere dalle leggi non scritte che regolano il ruolo pubblico della donna, una dimensione altra dove è possibile cantare e suonare senza vergogna. A partire dal titolo e a seguire in più momenti lungo la vicenda <b>Sciamma associa la giovane appassionata all’ardore della fiamma</b>, soprattutto nello sguardo di Marianne, che fin dal loro primo incontro resta profondamente colpita dal suo animo indomabile e orgoglioso. <br />
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<b>Anche Marianne è sotto molti aspetti una ribelle</b>, anche se forse, grazie ai meno nobili natali,<b> più integrata nel tessuto della società</b>: prende su di sé gli affari del padre, ne segue le orme e <b>assume un ruolo di artista</b> (di creatrice di immagini, e quindi di messaggi e di significati) storicamente appannaggio quasi esclusivo del sesso maschile, senza farsi intimidire dalle limitazioni che le vengono imposte dall’esterno, cercando modi per aggirarle. Inizialmente alla base del suo rapporto con Héloïse è ancora presente <b>la tradizionale distanza tra l’artista (maschile) e il suo soggetto (femminile)</b>, che porta al primo dipinto fallimentare, che seguendo le convezioni classiche non riesce a catturare davvero l’essenza profonda di Héloïse. Il breve viaggio della contessa <b>allontana dal palazzo l’unico personaggio che accetta davvero le norme patriarcali</b> cercando di sfruttarle a proprio vantaggio, e nel vuoto che si viene a creare l’affetto tra le due ragazze ha modo di sbocciare e svilupparsi, dando vita ad <b>un assetto familiare privo di gerarchie e profondamente paritario</b>, che coinvolge anche <b>la giovane serva Sophie (Luàna Bajrami)</b>. È una società <b>femminile e femminista</b>, che si esprime artisticamente in modo più collaborativo e attraverso soggetti che nessun pittore di sesso maschile sceglierebbe spontaneamente, come <b>un aborto</b>. L’avvocatessa Nora (Laura Dern) sottolinea del resto in <a href="https://shesoverbored.blogspot.com/2019/12/storia-di-un-matrimonio-marriage-story.html" target="_blank"><i>Storia di un matrimonio</i> (<i>Marriage Story</i>, Noah Baumbach, 2019)</a> che alla base della nostra società cristiana sta l’icona sacra di <b>Maria</b>, la perfetta madre di Dio, sempre amorevole e sottomessa al volere di un dio maschile, una purissima, asessuata ed estremamente idealizzata vergine che accetta silenziosamente una maternità che le viene imposta dall’alto senza opporsi. Il rifiuto della gravidanza porta le tre ragazze a venire a contatto con <b>un mondo sommerso esclusivamente femminile</b>, abitato dalle donne di un paese vicino che si ritrovano attorno al fuoco come <b>streghe</b>, ma l’immagine del sabba perde le sue comuni accezioni sessuali e peccaminose per trasformarsi in <b>un momento di serena condivisione e vicinanza</b> in uno spazio libero da uomini e da imposizioni, ruoli e regole sociali che soffocano e costringono e che essi reiterano e rafforzano. <br />
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L’equilibrio instaurato dalle tre ragazze è bellissimo ma purtroppo <b>effimero</b>: il ritorno della contessa si annuncia (non casualmente) tramite l’apparizione di un servo e <b>ristabilisce i rapporti tradizionali</b>, riportando Sophie al suo ruolo subordinato e separando Marianne e Héloïse. Ciò che è stato, però, non è dimenticato, ma solo <b>nascosto</b>, trasmesso tramite messaggi in codice che le altre persone – in maggioranza uomini – non possono comprendere. <i>Ritratto della giovane in fiamme</i> è un racconto <b>profondamente calato nel contesto storico</b> che fa da sfondo alla vicenda ma allo stesso tempo <b>acutamente moderno</b> nella scelta del discorso da portare avanti attraverso le immagini e le azioni dei personaggi. La storia d’amore tra Marianne ed Héloïse permette a Sciamma di descrivere le dinamiche di <b>una società femminile ideale</b>, dove i valori di riferimento sono l’uguaglianza, la collaborazione e l’empatia, e di ridefinire i rapporti tra amante e amata e tra artista e soggetto al di fuori dello strapotere dello sguardo maschile. </div>
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Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-54708220982322517522019-12-28T00:17:00.001+01:002020-02-16T16:40:41.225+01:00Storia di un matrimonio (Marriage Story, Noah Baumbach, 2019)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg-EmOMQPCKBTg0pxkzdMfaD7BKEAS36qY4zSC8Gm1lozsvdFFiqR7ZlppAWxgxQ5qj5OhZ8lRMIZMXNHm_QA-m9zXdjpUTde8R8vnX8KCAskUrMIY7Xg58b9YQvmlNXVzCJNydBzkVZC0/s1600/immagini.quotidiano.net.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="424" data-original-width="300" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg-EmOMQPCKBTg0pxkzdMfaD7BKEAS36qY4zSC8Gm1lozsvdFFiqR7ZlppAWxgxQ5qj5OhZ8lRMIZMXNHm_QA-m9zXdjpUTde8R8vnX8KCAskUrMIY7Xg58b9YQvmlNXVzCJNydBzkVZC0/s400/immagini.quotidiano.net.jpg" width="282" /></a></div>
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Nonostante quello che a volte ci piacerebbe pensare nei momenti difficili, <b>i sentimenti non sono figure geometriche</b> dagli angoli ben definiti, ma <b>una materia viva</b> e in continua trasformazione, che non segue nessun percorso prestabilito; al mutare di un amore non corrisponde necessariamente e naturalmente l’odio, la fine e l’inizio di una relazione non sono determinabili con assoluta e inequivocabile certezza. Come una retta è composta di infiniti punti uno accanto all’altro, così un rapporto è costituito da <b>una stratificazione di sensazioni</b> che influiscono l’una sull’altra, mescolate in modo tale che sia impossibile scinderle, e che pur toccate dal cambiamento, <b>non scompaiono mai completamente</b>. È una chimica comune e invisibile, che si ripete ogni giorno a differenti gradi di intensità, ma estremamente complessa da portare alla luce con chiarezza. Parlando per metafore, per tracciarne un ritratto affidabile è necessario un pennino delicato e sottilissimo in grado di cogliere la minima variazione con la grande precisione del sismografo, come quello utilizzato da <b>Noah Baumbach</b> nel portare sullo schermo il suo <b><i>Storia di un matrimonio</i></b>. <br />
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Ad un primo sguardo la scelta di un simile titolo, che utilizza la parola «Marriage» per identificare un racconto incentrato su <b>un divorzio</b>, appare contraddittoria, ma in realtà non lo è affatto; il dramma della separazione di Charlie e Nicole è, in effetti, <b>la storia del loro amore raccontata a partire dalla sua fine</b>, dal momento in cui l’equilibrio tra i due si rompe piuttosto che da quello in cui si era originariamente creato. La <b>causa scatenante</b> della frattura è la decisione della donna, attrice, di tornare nella sua nativa <b>Los Angeles</b>, accettando un ruolo di primo piano in una nuova serie televisiva, portandosi dietro il figlio, dopo aver vissuto per dieci anni a <b>New York</b> recitando nella compagnia teatrale d’avanguardia diretta dal marito, che non ha nessuna reale intenzione di allontanarsi dalla East Coast e dalle possibilità lavorative e creative che Broadway gli offre. È la fine di un <b>progetto di vita condivisa</b> in cui la sfera sentimentale e quella della realizzazione professionale sono apparentemente inscindibili e profondamente connesse e per questo, forse, ancora più dolorosa. Uno dei legali interpellati durante la pellicola afferma che gli avvocati penalisti assistono le persone cattive al loro meglio, mentre i divorzisti si occupano delle persone buone al loro peggio; è una frase che ha indubbiamente un fondo di verità. Nonostante l’iniziale (e in fondo utopistico) desiderio comune di <b>separarsi nel modo più pacifico ed indolore possibile</b>, anche e soprattutto per il bene del figlio, una volta coinvolti gli studi legali e iniziata la trattativa, che scava nelle mancanze e gira il coltello nella piaga delle speranze disattese di entrambi, gli animi progressivamente si scaldano e le conversazioni si fanno <b>più amare</b>, fino a raggiungere <b>il culmine</b> in una rancorosa gara a chi riesce a ferire di più l’altro: in un momento di furia – e di bravura attoriale memorabile – vengono urlate parole terribili e subito rimpiante. Esaurita la rabbia, emerge la tristezza che essa nascondeva. Tuttavia, <b>sarebbe profondamente ingiusto e falso descrivere <i>Storia di un matrimonio</i> come un violento scontro</b>; in nessun momento è possibile ridurlo soltanto a questo. Come detto nel primo paragrafo, i sentimenti non hanno confini rigidamente stabiliti; <b>gli spazi tra un confronto e l’altro sono punteggiati da piccoli atti d’affetto</b>, premure quasi impercettibili all’interno di un rapporto ben oliato ma che assumono un significato tanto più commovente nel bel mezzo di una crisi. L’amore che c’è stato lascia tracce, non scompare mai del tutto; non finisce, non soccombe alla delusione e alle accuse, ma <b>cambia forma</b>. La rottura di un equilibrio, una volta elaborato il trauma, ne genera un altro. <br />
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Tutte le scene sono pervase da un <b>calore di fondo</b> che non viene mai meno, neppure nei momenti più emotivamente difficili. <b>La descrizione della rottura è piena di umanità, comprensiva verso entrambe le parti in causa</b>; attraverso le sequenze Charlie e Nicole sono spinti dalla circostanza in atto a riflettere su se stessi e sull’altro, portando alla luce i punti di forza e le fragilità reciproche con l’onestà (a volte anche impietosa) che solo chi si è conosciuto a lungo e nel profondo sa impiegare. In nessun momento emerge la volontà di assegnare il torto o la ragione solo ad uno dei due; i meriti e le colpe sono vari e distribuiti, <b>entrambi i punti di vista sono validi e sinceri</b>. Come nella realtà, la verità non è mai una divisione netta tra bianco e nero ma un’elaborata scala di grigi. Pur ponendosi al di sopra dei personaggi senza prendere le parti di nessuno, <b>l’occhio della macchina da presa guarda entrambi con lo stesso affetto</b>, come due parti di un insieme che non esiste più, ma legate per sempre dalla presenza dell’amatissimo figlio e dal ricordo di quello che è stato. L’unione persiste in controluce, <b>emerge nella sua assenza</b>; in ogni momento della quotidianità dei due coniugi separati si intuiscono le dinamiche di una vita familiare che ci è dato osservare nei suoi momenti più sereni soltanto nel <b>montaggio iniziale</b> in cui entrambi elencano ciò che amano dell’altro – una sequenza che potrebbe, dalla descrizione data, apparire leziosa quando invece è composta di <b>attimi di tenerissima e disarmante sincerità</b>, un catalogo di abitudini e caratteristiche che qualunque innamorato compila nel corso del tempo e nasconde tra i propri pensieri. <br />
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<i>Storia di un matrimonio</i> nasce dall’esperienza vissuta dal regista durante <b>il divorzio da Jennifer Jason Leigh nel 2013</b>, anche se la sceneggiatura è stata <b>integrata e completata con i suggerimenti del cast</b>, in particolare per quanto riguarda lo sviluppo dei personaggi. E, in effetti, l’impressione è di assistere ad una rappresentazione coesa, fluida, dove ognuno non è soltanto esecutore, ma <b>apporta qualcosa di unico e fondamentale</b> per la riuscita dell’insieme. Ovviamente, l’intera impalcatura non reggerebbe assolutamente se non fosse sostenuta dall’inizio alla fine dalle <b>solidissime interpretazioni di Adam Driver e Scarlett Johansson</b>, profuse di una naturalezza che è propria solo dei grandi attori, sia nei momenti più lievi che in quelli sofferti. Charlie e Nicole sono personaggi ai quali si crede, le cui emozioni e i cui pensieri sullo schermo sono concreti, reali. <b>È una finzione che non ha nulla di menzognero</b>; è uno specchio che riflette e illumina la vita, che sa far emergere quanto c’è di straordinario (e nascosto) dietro ciò che ci appare banale. Si tratta di un risultato ottenuto nel suo insieme attraverso una regia, una scrittura e una recitazione accurate e precise ma sempre <b>delicate</b>, dal tocco leggero di piuma, paragonabili, forse, all’apparente disinvoltura, in realtà accuratamente e lungamente studiata, con cui un maestro di pittura delinea con pochi tratti decisi di una semplice matita un volto, rivelando un’espressione ben riconoscibile. <i>Storia di un matrimonio</i> è, alla base, <b>il racconto di un sentimento e del suo evolvere attraverso le sue tante piccole e diverse sfaccettature</b>; ed è probabilmente proprio in questo intimo e personalissimo punto di vista che trova la sua <b>universalità</b>. </div>
Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-32029213456254994342019-12-25T23:48:00.002+01:002019-12-26T00:16:11.555+01:00Madre! (Mother!, Darren Aronofsky, 2017)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjJFLtBoN3RMjcOui25uSldzDCgn91WtafWuzw1eQP7Op9x1F6hjfbjeflIzRYiZUrmNnmPgELCewTgILfF_sN2xDW6k8wWhkIjq85OX81XiY3sL0sEsj9Mtvk3r4y6_rBFyarvjsmm4TA/s1600/mother-de.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="326" data-original-width="228" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjJFLtBoN3RMjcOui25uSldzDCgn91WtafWuzw1eQP7Op9x1F6hjfbjeflIzRYiZUrmNnmPgELCewTgILfF_sN2xDW6k8wWhkIjq85OX81XiY3sL0sEsj9Mtvk3r4y6_rBFyarvjsmm4TA/s400/mother-de.JPG" width="277" /></a></div>
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<b>La struttura circolare di <i>Madre!</i> si apre e si chiude con la stessa parola: «baby»</b>, pronunciata con intonazione interrogativa dalla donna protagonista, che si sveglia nel proprio letto, allunga un braccio e scopre accanto a sé un inaspettato spazio vuoto. Di primo acchito, considerata anche l’ambientazione della scena, si sarebbe portati a ritenerla riferita al marito; ma una volta arrivati al termine del film ci si chiede se non le si debba attribuire <b>un altro senso</b>. Del resto, l’uomo della coppia è di almeno una ventina d’anni più grande della protagonista (un dettaglio che viene sottolineato in più occasioni lungo la pellicola): la scelta di un simile vezzeggiativo, per quanto di uso estremamente comune, potrebbe suonare in effetti un po’ strana. Il significato letterale, «bambino», alla luce di quanto accade nell’ultimo atto, non appare così fuori luogo. <b><i>Madre!</i> è, in un certo senso, la storia di una prole ciclicamente ed inesorabilmente perduta. </b><br />
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<b>L’intreccio sceneggiato da Aronofsky al suo livello di lettura più superficiale appare fin dall’inizio piuttosto assurdo</b>: una coppia si è da poco trasferita in una grande villa immersa nel verde, la casa di famiglia del marito, distrutta completamente da un incendio tempo prima e ricostruita grazie agli amorevoli sforzi della moglie. Intorno ad essa non c’è né una strada, né un qualunque segno di civilizzazione, soltanto alberi e silenzio. L’uomo è un famoso <b>poeta</b> impegnato nella scrittura della sua nuova composizione, mentre la ragazza si occupa di lui e delle <b>riparazioni</b> della casa, ancora in corso ed eseguite personalmente da lei. Sebbene l’occhio della macchina da presa osservi i personaggi con un taglio piuttosto realistico, <b>l’assoluto isolamento in cui essi vivono sembra fin da subito così estremo da apparire innaturale</b>. Inoltre, la protagonista toccando le mura visualizza un cuore pulsante, che rappresenta lo stato dell’edificio e di lei stessa; ella è infatti profondamente collegata ad esso in una sorta di <b>rapporto simbiotico</b>, come se fossero uniti da un invisibile cordone ombelicale. Per quasi tutta la durata della pellicola cammina a piedi nudi, la propria pelle a diretto contatto con il pavimento. Tra le assi di legno si aprono ferite, esse sono organiche e vive come i muri in <i>Repulsione</i> (<i>Repulsion</i>, Roman Polanski, 1966), ma a differenza di quanto mostrato in quest’ultima pellicola non è possibile ricondurre definitivamente il fenomeno ad un dichiarato squilibrio mentale della persona che lo osserva. La forma che più spesso ritorna, associata a lei e alla villa, è quella del <b>cerchio</b>, che rimanda all’immagine del mondo, e forse anche all’utero materno e alla protezione che fornisce. <br />
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La vicenda raccontata sembrerebbe la storia dal taglio onirico di un <b>amore distruttivo</b>, in cui un uomo cannibalizza la donna che ama per trarne il nutrimento per la propria arte. Aronofsky ha dichiarato in un <b>comunicato</b> rilasciato poco prima della presentazione del film l’ispirazione all’origine della sua creazione: il grande e nefasto impatto del genere umano sullo stato del pianeta, la violenza e l’odio che continuamente vengono riversati sugli uni, sugli altri e più in generale sull’ambiente. Tutto ciò è rappresentato visivamente tramite <b>chiarissimi richiami al racconto biblico della creazione</b>: i personaggi che appaiono nel film e gli avvenimenti hanno un corrispettivo piuttosto evidente e per nulla celato. <b>Il poeta è Dio</b>; se non bastasse il divieto di toccare il cristallo nello studio – un rimando al frutto proibito nel giardino dell’Eden – la stessa <b>scelta del mestiere</b> attribuitogli rende inequivocabile l’identificazione. L’origine della parola «poeta», infatti, è da ricercarsi nel corrispettivo in greco antico «ποιητής », che deriva a sua volta dal verbo «ποιέω», ovvero «fare», «fabbricare», oppure, con accezione più cristiana che pagana, «creare»; Dio è del resto <b>il creatore per antonomasia</b> e, nel libro della Genesi, separa la tenebra dalla luce e poi procede immediatamente ad attribuire ad esse un nome, notte e giorno. L’atto della creazione passa perciò anche attraverso l’uso delle parole. <b>La moglie, invece, è la personificazione della Terra</b>: una forza fertile e vivificante che si pone al servizio del dio e rigenera ciò che era andato distrutto. La coppia di estranei che viene accolta in casa richiama <b>Adamo ed Eva</b> (l’uomo mostra addirittura in una scena una ferita sul costato, un rimando alla nascita della prima donna), e i figli litigiosi che vengono introdotti successivamente sono <b>Caino e Abele</b>; le seguenti irruzioni della folla via via sempre più incontrollabile rimanderebbero al fiorire dell’umanità e la rottura del lavandino al diluvio universale. Il volere e il benessere della protagonista sono continuamente <b>inascoltati ed ignorati</b>, portando a conseguenze sempre più gravi per la casa e per lei stessa, fino a giungere ai <b>terribili estremi</b> delle sequenze finali del film, che sfociano nell’orrore mettendo in scena una rappresentazione letterale del rituale cristiano dell’<b>eucarestia</b>, che passa attraverso il sacrificio di un innocente. La macchina da presa rimane incollata al volto e al corpo della madre al centro del film, ne segue le sofferenze psicologiche ma soprattutto <b>corporee</b>. Nella sua carne ferita, picchiata e portata allo stremo della propria resistenza è concentrato <b>il dolore di un pianeta intero</b> di fronte ad un umanità egoista e dannosa. Il dio di <i>Madre!</i> è, in fondo, <b>fragile e vanesio</b>, incapace di accettare i pesanti difetti della sua creazione e di porre un freno alla sua distruzione, bisognoso di approvazione e venerazione, pronto ad ignorare e addirittura sacrificare la propria compagna per giungere al risultato desiderato. <br />
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L’allegoria è tracciata sullo schermo con <b>pennellate pesanti e sanguinose</b>, senza prestare particolare attenzione alla verosimiglianza e neppure all’eleganza, che infatti è spesso tralasciata per inseguire con una determinazione addirittura eccessiva il messaggio da trasmettere. <i>Madre!</i> pare <b>un cupo e violento incubo prodotto da una mente febbrile</b>, poco equilibrato e addirittura fastidioso a tratti nel suo mettere in scena <b>un ciclo di morte, risurrezione e morte</b> a cui sembra impossibile sottrarsi, ma morbosamente affascinante nella sua inquietudine, <b>sgraziato ma proprio per questo potente</b> in un modo che richiama in certi momenti il <i>Saturno che divora i suoi figli</i> di Goya, il suo buio e la sua assoluta mancanza di speranza. </div>
Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-849684266031570334.post-35278732381529181002019-12-25T01:45:00.000+01:002019-12-25T01:54:16.722+01:00Star Wars: L’ascesa di Skywalker (Star Wars: The Rise of Skywalker, J.J. Abrams, 2019) <div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjlrnlsWh1IhC3kGzFl7srKYXaVjX9lt2B88F1rcZc8bVDXzGEeTPvj3jGclVqInvMeWcy9Fy4oykRo2Vszk9ygrPTaLrYeH26AInfhOY7KO4I7dZtGMMXtEYr0AUDi6hBa-9M6_Ih9PMc/s1600/star-wars-the-rise-of-skywalker-theatrical-poster-1000_ebc74357.jpeg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1372" data-original-width="892" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjlrnlsWh1IhC3kGzFl7srKYXaVjX9lt2B88F1rcZc8bVDXzGEeTPvj3jGclVqInvMeWcy9Fy4oykRo2Vszk9ygrPTaLrYeH26AInfhOY7KO4I7dZtGMMXtEYr0AUDi6hBa-9M6_Ih9PMc/s400/star-wars-the-rise-of-skywalker-theatrical-poster-1000_ebc74357.jpeg" width="258" /></a></div>
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<b>Attenzione:</b> nell'articolo sono presenti <b><u>spoiler</u></b>. </div>
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Così nella narrativa come in molti altri ambiti della vita, giungere ad un dato risultato – in questo caso, il <b>finale</b> della storia narrata – <b>è tanto più semplice quanto più si è lavorato bene in precedenza</b>, introducendo e svolgendo con la dovuta cura i punti cardine, prestando attenzione alla graduale evoluzione dei personaggi e facendo in modo che l’arrivo del loro viaggio risulti significativo sia per loro che per gli spettatori che ne hanno seguito fedelmente le gesta. Naturalmente, più la vicenda messa in campo è grande e complessa, maggiori saranno le difficoltà da affrontare e i dilemmi da svolgere e se la saga da concludere, apparentemente in maniera definitiva, è quella di <b><i>Star Wars</i></b>, <b>l’impresa che ci si trova davanti è quasi impossibile</b>.<br />
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In un certo senso <b>è la stessa natura della creatura di George Lucas a respingere una conclusione assoluta</b>; uno degli elementi più caratterizzanti ed innovativi della struttura del primo film del 1977 è infatti il suo aprirsi <b>in medias res</b> come quarto episodio di un serial cinematografico alla stregua di <i>Buck Rogers</i> o <i>Flash Gordon</i>, dove il testo iniziale riassume le puntate precedenti e l’inizio e la fine sono in fondo relative rispetto al susseguirsi delle avventure dei personaggi. A riprova di ciò, <b>non è bastato neppure il finale de <i>Il ritorno dello Jedi</i> nel 1983, che pure sembrava abbastanza definitivo, a saziare definitivamente la fame degli appassionati</b>: le vite dei personaggi principali sono continuate per decenni all’interno di romanzi e fumetti. L’uscita della trilogia prequel, pur con tutte le diatribe e le critiche che ha generato, ha aperto uno spiraglio su un altro momento storico della galassia, ancora più vasto e popolato, generando serie animate e innumerevoli altre storie, successive, precedenti o parallele. <b><i>Una nuova speranza</i> è stato il big bang di un universo in continua espansione da quarantadue anni.</b> <br />
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Prendendo in considerazione tutto ciò, l’incarico che <b>J.J. Abrams</b> si è trovato a sorpresa ad ereditare da Colin Trevorrow dopo il suo allontanamento dal progetto era <b>tutt’altro che semplice</b>. Il metodo scelto per affrontarlo è quello dell’<b>accumulo</b>: a livello di scrittura e di montaggio si predilige la quantità sulla qualità, focalizzandosi più sulla spettacolarità visiva e sonora che sulla cura del dettaglio. Gli eventi, i ritrovamenti, le rivelazioni e gli spostamenti da un pianeta all’altro si susseguono velocissimi, tanto che c’è pochissimo tempo – sia per gli spettatori che per gli stessi personaggi – di processare emotivamente quanto accade. La sceneggiatura sembra puramente <b>funzionale</b>, un mero strumento per mettere in ordine un susseguirsi di situazioni e scontri più che il fondamentale scheletro su cui ogni momento dovrebbe reggersi e trovare il proprio significato. <b>Ciò che appare sullo schermo è un grande e roboante spettacolo pirotecnico che finisce per perdere di vista, in mezzo al bagliore e al fracasso, i propri personaggi e lo stesso sviluppo della sua storia</b>, troppo impegnato ad ingrandire le dimensioni del conflitto e le possibilità dei poteri dei propri protagonisti fino ad arrivare all’eccesso. <br />
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Pur essendo stato percepito da molti spettatori come in netto contrasto con <a href="https://shesoverbored.blogspot.com/2017/12/star-wars-episodio-viii-gli-ultimi-jedi.html" target="_blank">l’episodio precedente</a>, in realtà condivide con esso, e in un certo senso addirittura esaspera, un elemento che chi scrive aveva identificato come un difetto piuttosto pesante: <b>la mancanza di ricadute emotive di quanto accade sullo schermo</b>, non in tutte ma in parecchie occasioni. Nel nono episodio due comprimari sembrano incontrare la propria fine, ma l’addio viene smentito dopo pochi minuti, vanificando quanto avvenuto poco prima. Non si tratta di per sé di un meccanismo particolarmente scandaloso, se non altro perché ampiamente e da lunghissimo tempo utilizzato nella cultura popolare; ciò che disturba è <b>la velocità vertiginosa</b> con cui viene rivelata la sopravvivenza del personaggio, che non permette di creare una qualche minima suspence, o almeno un po’ di curiosità per le svolte della trama. <br />
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Anche se la complessità drammatica non è mai stata una delle caratteristiche principali di <i>Star Wars</i>, ne <i>L’ascesa di Skywalker</i> la si evita in ogni modo possibile, <b>semplificando e scansando ogni difficoltà narrativa</b> senza prendersi la briga di affrontarla, affidandosi spesso e volentieri a risoluzioni che sembrano precipitare dal cielo senza una vera spiegazione. <b>Il ritorno dell’Imperatore</b> è dato per assodato fin dai primi minuti della pellicola e mai veramente giustificato; i combattenti della Resistenza, pur essendone stati informati indirettamente, lo accettano senza farsi troppe domande e senza mettere in dubbio la veridicità di una possibilità tanto assurda, che <b>modifica profondamente</b> l’accadimento più importante messo in scena in precedenza. <br />
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<b>L’arco dei personaggi principali, introdotto in modo tutto sommato soddisfacente nel <a href="https://shesoverbored.blogspot.com/2015/12/star-wars-il-risveglio-della-forza-la.html" target="_blank">settimo episodio</a>, non arriva davvero a compiersi per la maggior parte di essi</b>: Finn nel complesso rimane uguale a se stesso, dal finale de <i>Il risveglio della Forza</i> non mostra di essere cambiato significativamente. Le relazioni con Rey, Rose e Jannah non approdano a nessuno sviluppo di per sé pregnante. Poe mostra in alcuni momenti di riconoscere i propri limiti al di là dell’arroganza che altrimenti lo contraddistingue nella maggioranza delle circostanze, ma non si tratta di una vera e completa evoluzione e, esattamente come per Finn, la sua relazione (passata e presente) con Zorii Bliss è esposta frettolosamente e senza particolare cura; quest’ultima è, peraltro, un personaggio che sembra esistere puramente per traghettare i personaggi da un punto all’altro del loro percorso senza comportare nessun nuovo sviluppo. Alla fine dei conti e al netto delle numerose scene umoristiche di cui sono protagonisti, <b>sia l’ex assaltatore che il miglior pilota della Resistenza risultano personaggi poco memorabili, quasi anonimi</b>, che non compiono o dicono nulla di unico (cioè, che non poteva essere associato a nessun altro personaggio) e che sia di per sé memorabile. <br />
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<b>Rey affronta una volta per tutte il grande dilemma che la caratterizza fin dalla sua comparsa, ma il suo svolgimento non è, per chi scrive, particolarmente soddisfacente</b>: per quanto l’influenza malefica dell’Imperatore sia sentita da tutti e in ogni luogo dell’universo narrativo, con Rey nello specifico non ha alcun legame al di là della parentela. Potrebbe sembrare una sottigliezza, ma si tratta di una questione che ha un certo peso nello svolgimento del conflitto tra i due, che <b>finisce per avere una scarsa eco emotiva</b>, mancando altri elementi che potrebbero creare un rapporto più personale ed interessante da dipanare. Si pensi alla <b>sconvolgente rivelazione del finale de <i>L’Impero colpisce ancora</i></b>: Darth Vader, per Luke, non è soltanto il capo delle forze del male, ma è anche l’uomo che ha ucciso il suo maestro, Obi-Wan Kenobi, e che ha cercato di ucciderlo durante la battaglia sulla Morte Nera. Scoprire che la sua nefanda figura coincide con quella di suo padre, ammirato da molti e da lui stesso, è profondamente disturbante per il personaggio e per gli spettatori. Inoltre la scoperta avviene durante un dialogo diretto tra i due personaggi, alla fine di un difficile duello. Ne <i>L’ascesa di Skywalker</i>, invece, è <b>un terzo personaggio estraneo al legame di sangue</b>, Kylo Ren, a rivelare la parentela della protagonista, in una scena tra l’altro gestita in maniera piuttosto <b>fredda</b> per quanto riguarda la regia, rendendo perciò piuttosto difficile sentirsi davvero emotivamente coinvolti nella contesa. <b>La simpatia per Rey rimane, in fondo, ad un livello piuttosto superficiale</b>; tutta la sua storia, alla fine dei conti, si lega a questa parentela e al suo affrancarsi da essa, senza però permettere di guardare davvero ai suoi sentimenti, anche negativi o spiacevoli, se non in uno scambio di battute con Finn di per sé piuttosto blando e poco integrato all’interno dell’insieme. A differenza di Luke, che ne <i>L’Impero colpisce ancora</i> tralasciava i consigli dei propri maestri, peccava di arroganza e pagava il prezzo della sua avventatezza, <b>la ragazza rimane una granitica paladina del bene in grado di cavarsela miracolosamente in ogni occasione</b>, senza commettere veri errori, senza subire reali conseguenze e senza cedere alla paura se non per un breve momento, e questa incapacità di sbagliare o tentennare le impedisce di svilupparsi realmente come personaggio. <br />
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<b>È Kylo Ren, in realtà, a presentare l’evoluzione più importante</b> – si trattava, del resto, del più complesso e meglio descritto dei nuovi personaggi introdotti in quest’ultima trilogia, fin dall’inizio quello più ricco di spunti interessanti. Lo sviluppo del suo conflitto interiore trae in fondo più giovamento dall’<b>ottima e accurata interpretazione di Adam Driver</b> che dalla sceneggiatura, che non fa nessuna eccezione e tratta sbrigativamente il suo arco esattamente come quello degli altri, senza dargli un grande spazio e subordinandolo spesso alle scene di azione e combattimento, e che per portare sulla scena lo snodo centrale si risolve a <b>riproporre e rielaborare lo stesso identico dialogo che ne <i>Il risveglio della Forza</i> sanciva l’adesione all’oscurità del figlio di Han Solo e Leia Organa</b>. Non è di per sé la peggiore delle soluzioni possibili, ma non si tratta di certo della più originale. Per buona parte del film, inoltre, Kylo Ren svolge sostanzialmente il ruolo dell’<b>emissario di Palpatine</b>, nonostante egli stesso lo neghi, minando così l’importanza dell’uccisione di Snoke nell’ottavo episodio, con la quale aveva apertamente dichiarato di non voler più sottomettersi a nessun altro anziano signore oscuro ma di perseguire soltanto i propri scopi. Più che dalla scrittura, la grande umanità e vulnerabilità del personaggio emerge dalla recitazione, mai sopra le righe, sensibile e intelligente nel cogliere gli stati d’animo profondi e nel trovare il modo più adatto per portarli sulla scena. <br />
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Arrivati al termine di quest’ultima trilogia, infine, è forse giunto il momento di prendere in considerazione <b>un ulteriore, fondamentale argomento</b>, che non è possibile tralasciare se si ha intenzione di tirare le somme: <b>la natura intimamente metacinematografica di <i>Star Wars</i></b>. La saga creata da George Lucas è infatti composta da <b>un fitto gioco cinefilo di rimandi</b> ai serial cinematografici di cui si parlava nel primo paragrafo, ibridati con alcuni elementi del genere western e molti altri ispirati da <i>La fortezza nascosta</i> di Akira Kurosawa. L’eclettico insieme di riferimenti viene tenuto insieme da un soggetto che, ispirandosi al saggio <i>L’eroe dai mille volti</i> di Joseph Campbell, si articola attorno <b>alle situazioni e alle figure tipiche del viaggio dell’eroe</b>, che si ripresenta nelle sue tappe fondamentali in numerosissimi miti e fiabe in tutto il mondo. Lo svolgimento della vicenda è, perciò, <b>volutamente formulare e arcaico</b>. <i>Una nuova speranza</i> è un film che riflette e rielabora i classici e finisce per diventarlo esso stesso, che gioca con il concetto di serialità e si tramuta nel suo più fulgido esempio. È lo spericolato esperimento di un giovane e promettente laureato della University of Southern California che si rivela a sorpresa il perfetto blockbuster che centinaia di produttori non avrebbero saputo ideare. <br />
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I film prodotti negli ultimi anni hanno tentato apparentemente di <b>fare a meno di questo substrato tradizionale</b>, forse perseguendo l’obiettivo di porsi maggiormente in comunicazione con la cultura popolare moderna, ma ne soffrono e finiscono per risultare spesso banali e ripetitivi perché non affondano più le proprie radici nel brodo primordiale da cui traevano il proprio nutrimento e la propria vitalità, risultando alla fine <b>riproposizioni svuotate del significato originario e incapaci di trovarne uno autonomo</b>. Se un approccio modernizzante in certi casi può rivelarsi <b>congeniale agli spin-off</b> (come per esempio <i><a href="https://shesoverbored.blogspot.com/2016/12/rogue-one-star-wars-story-la-recensione.html" target="_blank">Rogue One</a></i>), che sono effettivamente racconti a sé stanti che possono non adeguarsi alle regole generali proprio in virtù della loro <b>maggiore indipendenza dal quadro generale</b>, non lo è affatto per quanto riguarda la saga principale, che deve collegarsi al corpus già presente in maniera organica. L’unico riferimento che J.J. Abrams sembra prendere davvero in considerazione è <b>la trilogia originale</b>, finendo così per rendere spesso e volentieri sia <i>Il risveglio della Forza</i> che <i>L’ascesa di Skywalker</i> <b>eccessivamente autoreferenziali e privi di un respiro innovativo</b>. Alla fine dei conti, pur avendo portato ad un film tutt’altro che perfetto e di difficile gestione all’interno di una serie, <b>l’approccio anarchico adottato da Rian Johnson ne <i>L’ultimo Jedi</i> </b>aveva almeno il pregio di mettersi in relazione con quanto venuto prima provando a proporre <b>riflessioni inedite e qualche punto di vista inusuale</b>. Al di là degli inciampi, aveva un suo messaggio da comunicare e si poneva come obiettivo <b>un radicale allontanamento dal passato per gettarsi nel futuro</b>. <i>L’ascesa di Skywalker</i>, invece, pare ambientato in un <b>mausoleo</b>: fin dal crawl iniziale si presenta come <b>una storia di morti che ritornano</b>, e verrebbe da chiedersi se non sia anche ed involontariamente un commentario sullo <b>stato attuale della settima arte</b>, almeno di quella pensata per la fruizione all’interno della sala cinematografica, che in un momento di profonda crisi si aggrappa alle glorie del suo passato senza avere il coraggio di lasciarle andare per creare qualcosa di veramente nuovo. </div>
Danielahttp://www.blogger.com/profile/03123573098742488122noreply@blogger.com0