lunedì 21 settembre 2015

Alien: riflessioni sul concetto di sequel


Non mi ritengo una spettatrice particolarmente severa, anzi, su alcune cose sono molto tollerante. Ho sufficiente fantasia per collegare in modo sensato i punti di una sceneggiatura un po’ lacunosa e accetto di buon grado qualche forzatura fantasiosa, se necessaria al proseguimento di una bella storia. Per esempio, trovo che la trilogia prequel di Star Wars, nonostante tutti i suoi grossi difetti, abbia anche dei grandi lati positivi, e credo di essere una dei pochissimi a cui la trilogia de Lo Hobbit è perlopiù piaciuta: forse ciò è dovuto alla mia abilità nell’importantissima arte del non farsi travolgere dall’hype. Non importa quanto magnificamente mi vendano un film, quanto sbalorditivo ed accattivante sia il trailer, io non entro mai in sala aspettandomi di vedere l’ascensione della Santa Vergine in 5K 3D Dolby ATMOS e diretta da infallibile mano divina. So bene che quelli dietro la macchina da presa, nonostante tutto, sono solo esseri umani con tutti i loro difetti e le loro convinzioni, in grado di sbagliare e liberi di avere un’idea diversa da quella che mi ero fatta io su come raccontare una vicenda. Trovo che sia più soddisfacente cercare di comprendere ed apprezzare la visione che c’è dietro al film, per quanto lontana dalla mia, piuttosto che sedermi sulla poltroncina del cinema con l’unico scopo di segnare i punti in cui il regista non fa quello che voglio io con la matita rossa. Non si impara mai niente di nuovo se non si esce fuori dai ristretti confini della propria mente, dopotutto. Messo in chiaro tutto questo, però, è ovvio come anche io abbia i miei limiti di accettazione, principalmente legati alla coerenza narrativa e di tono, che riassumo in modo semplice così: se in un film costruito e pubblicizzato facendo leva sul massimo realismo visivo come Il cavaliere oscuro – Il ritorno appare ad un certo punto una specie di sciamano che, letteralmente in un buco in mezzo al nulla, mette a posto una vertebra incrinata con un paio di pugni ben assestati, l'intera struttura del film si incrina perché si stanno facendo a pezzi le stesse regole narrative che si sono inizialmente stabilite. Allo stesso tempo se qualcosa di simile accadesse in un film sugli X-Men non lo troverei così fastidioso, perché quel mondo è verosimile, sì, e perlopiù realistico, ma non sta scritto da nessuna parte che sia esattamente uguale al nostro. Un'altra cosa che personalmente ricade nella categoria degli “assolutamente no” è il sequel distruttivo, ovvero quello che per esistere deve cancellare – con grado variabile di intensità – i capitoli precedenti, pur mantenendo la stessa continuity. Non ho niente in contrario al sequel in sé, so che le case di produzione non sono enti votati alla beneficenza e pertanto è chiaro che, se in possesso di una proprietà remunerativa, la sfruttino finché possono. L'unica cosa che spero è che lo facciano con un minimo di buon senso e soprattutto senza contraddirsi da un film all'altro. La saga di Alien in questo senso è emblematica.
Alien è un vero caposaldo insieme della fantascienza e del cinema horror, come il suo sequel, Aliens – Scontro finale, pur essendo due film estremamente diversi nel tono e nello stile. La stessa concezione dell'alieno protagonista da Scott a Cameron varia: concentrato delle qualità negative dell'umanità nel primo, animale letale nel secondo. Il creatore di Terminator, infatti, nel dare un seguito alla storia di Ripley sceglie una strada intelligente; rielabora infatti i temi di Alien adattandoli al suo stile, dandogli un'impronta personale, evitando, però, di entrare in contrasto con le regole stabilite dalla prima pellicola. Il risultato è un film di guerra ambientato nello spazio, in cui il gruppo dei protagonisti è tratteggiato con cura tale da non far rimpiangere il defunto equipaggio della Nostromo ed in cui l'atmosfera è satura di tensione sin quasi ai titoli di coda. Il problema si pone nel momento in cui da esso si voglia tirare fuori un ulteriore sequel: come per Terminator 2 – Il giorno del giudizio, l'impresa non è semplicissima, perché entrambi i film non presuppongono un seguito. James Cameron confeziona due finali chiusi e soddisfacenti: Skynet è definitivamente distrutto e gli xenomorfi sembrano definitivamente scomparsi sotto una nuvola di vapore delle dimensioni del Nebraska. Se si considera questo, si capisce perché entrambi i film sono stati seguiti da sequel tutt'altro che soddisfacenti, ma non per questo perdonabili. Il capro espiatorio, ovviamente, non può essere James Cameron: come si potrebbe incolpare qualcuno di aver fatto un film troppo bello, troppo completo? Dovrebbe essere un invito, una sfida a tentare altre strade, a provare altre soluzioni che abbiano un loro motivo di esistere all'interno dell'universo narrativo fin lì stabilito. Il problema, sia con Alien 3 che con Terminator 3 – Le macchine ribelli, è che entrambi coinvolgono lo spettatore in un giochino tutt'altro che piacevole, anzi, abbastanza frustrante: ti ricordi quel bel finale lì, quello che ti ha emozionato tanto, che ti ha spinto ad amare ancora di più questa saga? Ecco, fai finta che non sia mai esistito. Tutta la corsa a rotta di collo per fermare Skynet e la futura apocalisse nucleare non è servita a niente, perché tanto succederà tutto lo stesso. È irrilevante che Ripley abbia rischiato la vita in uno scontro all'ultimo sangue con la Regina per salvare Newt, Hicks e Bishop, personaggi che nel corso della vicenda avevi imparato ad amare: tanto moriranno tutti prima ancora della fine dei titoli di testa del terzo film. È un meccanismo che trovo insopportabile, perché non danneggia solo il film in cui compare, ma anche quello venuto prima, intaccandone la bellezza ed il significato, a meno che uno non decida, come faccio io, di fare finta che una simile idiozia non sia mai stata realizzata. Questo non vuol dire che mi dia meno fastidio, perché, accidenti, a differenza di Terminator, non era così tremendamente difficile dare un seguito decente alla saga di Alien. L'idea iniziale di Joss Whedon per Alien – La clonazione, poi non utilizzata, non era così terribile: il fatto di clonare Newt invece che Ripley l'avrebbe allontanato dai film precedenti e avrebbe evitato un brutto effetto James Bond. Inoltre, trattandosi di una serie di film ambientati nello spazio profondo del futuro, non sarebbe mancato un modo per giustificare una nuova comparsa degli xenomorfi: non sappiamo quanti alieni effettivamente esistano, e nemmeno se quella su LV-426 fosse l'unica colonia. Certo, il risultato probabilmente non sarebbe stato un altro caposaldo dello sci-fi come Alien o Aliens – Scontro finale, ma magari, pur restando qualcosa di derivativo, avrebbe avuto una sua dignità. Invece, su un sequel distruttivo (e tutt'altro che perfetto) si è sedimentato un altro sequel distruttivo: ve lo ricordate il sacrificio di Ripley, con le metafore cristologiche sparate in faccia allo spettatore? Non è servito a niente, perché tanto la riportiamo in vita. Uno dei grandi punti di forza del Marvel Cinematic Universe è che, essendo gli avvenimenti principali già stabiliti e pianificati, è difficile che si presenti una dinamica simile per cui a grandi pellicole seguono sequel che fanno finta che questi ultimi non siano mai esistiti. Questo ovviamente non vuole dire che tutti i film Marvel siano grandi capolavori della cinematografia: in una struttura simile il grande talento di Cameron forse non avrebbe potuto emergere, visto il forte controllo creativo dei produttori. Del resto, non si può avere tutto dalla vita, il franchise perfetto non esiste, quindi l'unica cosa che uno spettatore qualunque può fare è apprezzare i lati positivi di entrambe le formule: qualche film fenomenale seguito da altri tremendi (e possibilmente da evitare) in un caso, e una serie di buoni blockbuster senza troppi picchi di qualità verso l'alto o il basso nell'altro.

sabato 19 settembre 2015

Empire of Dreams, ovvero il miglior documentario su Star Wars


I making of e i filmati dal dietro le quinte dei film di Star Wars sono probabilmente nell'ordine delle centinaia. Empire of Dreams, prodotto per il cofanetto dell'esalogia uscito nel 2004 ed inspiegabilmente mai più incluso in nessuna raccolta successiva, è quasi certamente il più valido. Un montaggio di filmati d'epoca e di numerosissime interviste a cast, crew e alcuni illustri appassionati ci guida alla scoperta della creazione della trilogia originale, non lesinando sui dettagli e soffermandosi maggiormente, per ovvie ragioni, sulla genesi del primo capitolo, mostrando come e quanto l'uscita di Una nuova speranza abbia rivoluzionato il cinema della fine degli anni settanta, un'epoca in cui i grandi studios smantellavano i loro reparti di effetti speciali ed in cui la fantascienza non era considerata un genere remunerativo al di là dei B-Movie. Non è semplicissimo reperire il documentario nel 2015 e pertanto speriamo che lassù, nei piani alti della dirigenza Disney, si prenda in considerazione la possibilità di ripubblicarlo in qualche raccolta oppure online.

venerdì 18 settembre 2015

Inside Out (Pete Docter, Ronnie Del Carmen, 2015), recensione in pillole


Il grande successo di Inside Out in verità non ci stupisce particolarmente: i Pixar Animation Studios, infatti, ci hanno da tempo abituato all'eccellenza. La caratterizzazione e il design di ambienti e personaggi sono come sempre molto curate; il disegno a pastello delle emozioni risulta caratteristico e particolare, affrancandosi un po' dalla tendenza dell'animazione digitale ad assomigliarsi un po' tutta nel suo iperrealismo. La trama non è soltanto un pretesto per inanellare gag, come spesso succede nei film d'animazione prodotti da altri studi cinematografici: la psicologia e lo sviluppo della mente, materie che certamente paiono poco adatte ad un cartone animato rivolto (anche) ad un pubblico di bambini, sono trattate con piglio pop ed intelligentemente semplificate, senza snaturare, però, le discipline alla base. L'idea principale dietro al lungometraggio potrebbe addirittura rischiare di sembrare banale: quante volte abbiamo visto al cinema ed in televisione cervelli umani popolati da piccoli omini incaricati del nostro funzionamento? Tuttavia la simpatia delle cinque emozioni protagoniste – i loro dialoghi sono spassosissimi – e l'originalità con cui si è scelto di rappresentare la mente umana (quei grandi scaffali ricordano un po' la struttura di un server, e non crediamo che sia un caso) ci fanno scordare ogni caso precedente e ci invitano a seguire con partecipazione la storia, che scorre lungo due binari paralleli (il mondo esterno e quello interno alla mente della bambina) e strettamente collegati senza fastidiosi scossoni, concedendo anche qualche spazio alla pura spettacolarità che è parte imprescindibile dell'animazione (il parco di Immagilandia), ma senza che questa risulti del tutto gratuita. I luoghi della mente di Riley ed il personaggio di Bing Bong, il fantasioso amico immaginario, ricordano un po' il folle universo di Alice nel paese delle meraviglie (Clyde GeronimiHamilton LuskeWilfred Jackson, 1951), senza averne però il sarcasmo e l'inquietudine. La morale, infine, non è né banale né infantile, anzi, tutt'altro: le emozioni crescono con noi e si fanno via via sempre più complicate e variegate, e ci mettono in difficoltà fintantoché non impariamo a gestirle, scoprendo che anche quelle che meno desidereremmo provare, come la tristezza, ci sono in realtà necessarie, perché ci spingono a cercare aiuto negli altri, ad essere sinceri e a sfogare la tensione. Per apprezzare veramente la felicità, del resto, bisogna anche essere stati a contatto con la tristezza. L'unica nota meno positiva è forse il cortometraggio iniziale che nella traduzione italiana (che smarrisce il gioco di parole tra lava e love) perde un po' del suo significato, pur restando visivamente impressionante, con un livello di dettaglio maniacale per quanto riguarda rocce ed alberi.