mercoledì 11 marzo 2020

Midsommar – Il villaggio dei dannati (Midsommar, Ari Aster, 2019)

 
In controtendenza rispetto al del resto del film, dalla fotografia luminosa e dai colori sgargianti, l’incipit di Midsommar è freddo e cupo: dopo una serie di inquadrature notturne su alberi quasi del tutto immobili, sommersi da una coltre di neve che nell’oscurità appare grigia e opaca, l’occhio della macchina da presa si sposta su una cittadina e poi su una villetta, senza comunque rintracciare alcun segno di vita. Un carrello si muove orizzontalmente attraverso una stanza, giungendo infine ad un letto dove un’attempata coppia dorme placidamente, almeno in apparenza, seppure in una rigida posizione supina che ricorda, complice l’atmosfera funerea, quella di due morti all’interno di una bara. L’assenza di vita è annunciata dalla composizione dell’immagine prima ancora di essere realizzata nella trama; la casa è in realtà un sepolcro in costruzione. Allo spettatore è concesso di sbirciare brevemente il teatro della tragedia che investe la vita della protagonista, Dani (Florence Pugh), mentre è in corso.

Il terribile evento giunge, peraltro, in un momento non particolarmente felice per la giovane studentessa di psicologia: la sua relazione con Christian (Jack Reynor) è ormai alle battute finali, e nella loro prima, breve conversazione telefonica non c’è che un’ombra sbiadita dell’affetto che doveva esserci stato un tempo tra i due. I rispettivi amici tentano di fare ragionare i due ex-innamorati sostenendo che la decisione migliore sia separarsi, tuttavia il piano fatale architettato dalla sorella di Dani arresta tutte le riflessioni sull’argomento e stringe nuovamente le maglie slabbrate del rapporto, ma in un’accezione tutto sommato piuttosto negativa. Christian, infatti, resta vicino alla protagonista più per senso del dovere e per pietà che per una sincera volontà, mentre la ragazza si aggrappa al giovane disperatamente in quanto, persa tutta la propria famiglia in una sola notte, egli è l’unico legame che la separa da una straziante solitudine che non riesce ad affrontare. La loro relazione quindi diventa, ancora più di prima, una gabbia che li soffoca e li condanna a una felicità mai davvero autentica. Ogni piccola gentilezza è, in fondo, il futile tentativo di rianimare un cadavere, mentre gli sgarbi, causati dalla disattenzione o intenzionalmente inflitti, sono il sintomo di una malattia inarrestabile. Proprio nel doloroso e sommesso smembrarsi di questo rapporto sta, in fondo, il cuore pulsante di Midsommar. Sono in un certo senso i punti deboli di entrambi a far precipitare gli eventi fin dall’inizio: quando l’amico Pelle (Vilhelm Blomgren) invita Christian, assieme ad altri due compagni di studi, a trascorrere alcune settimane nella comune in Svezia in cui è cresciuto in occasione della festa di mezza estate, quest’ultimo non ne fa parola con la fidanzata, che lo scopre per caso. Se Dani teme di essere lasciata a se stessa e ai suoi cupi pensieri, il ragazzo non è in grado di abbandonarla nonostante sia ciò che vuole, e ciò li porta quindi a decidere, con molti dubbi, di partecipare al viaggio in coppia.

Il villaggio di Hårga ai nuovi arrivati appare come un luogo idilliaco: i sorridenti abitanti, che indossano tutti abiti bianchi, sono sereni e dediti ad attività agresti. La connessione con la natura è profonda e intima e ogni fase della giornata è vissuta collettivamente, in una sorta di visione idealizzata della vita in campagna. Gli individualismi dei singoli sono superati e messi da parte in favore della perpetuazione e della sopravvivenza dell’intero gruppo; tale ideologia è esposta con brutalità e violenza dal primo rituale a cui i giovani americani assistono, in cui due anziani, che hanno raggiunto il termine del ciclo vitale stabilito dal credo degli autoctoni, si uccidono lanciandosi da una rupe. Il lutto nella comunità non è un fatto privato, ma è vissuto pubblicamente come parte di una filosofia di morte e rinascita che ammanta le sue caratteristiche traumatiche e scioccanti di una forma di nobiltà; per contrasto, la perdita di Dani è vissuta da chi le sta intorno e in un certo senso anche da lei stessa con grande difficoltà. La morte è, del resto, un argomento tabù all’interno della civiltà occidentale, allontanato dalle conversazioni, vissuto come un fatto scabroso e per quanto sia possibile nascosto; il singolo individuo è costretto quindi a tentare di elaborare in solitudine il proprio dolore, e ciò è tanto più vero se si tiene in considerazione il declino della religione e la minore importanza che di conseguenza assumono i rituali stabiliti da essa nel corso dei millenni per comprenderlo e superarlo.

Ben presto gli abitanti del villaggio iniziano ad adoperarsi per raggiungere i propri scopi, all’insaputa dei personaggi principali che, come già in Hereditary, sono intrappolati, anche visivamente, in una vicenda il cui esito pare già scritto fin dal principio, perfino a partire dall’illustrazione in apertura al film, e alla quale non possono che arrendersi; come nell’opera appena citata, peraltro, le ambientazioni sono case di bambola che la macchina da presa attraversa da ogni parte con la massima libertà, uno sguardo posto ad un livello superiore ai personaggi e che li osserva con un certo distacco, e l'inclinazione a compiere il male continua a trasmettersi attraverso i legami familiari, che siano di sangue, come nel caso di Dani, o acquisiti, per quello che riguarda Hårga. La tremenda decisione presa dalla protagonista durante l’ultimo atto in qualche modo non è poi così distante dalle azioni compiute dalla sorella: entrambe trascinano nella propria sofferenza le persone a loro vicine fino a distruggerle.

Nonostante all’inizio cerchi di ribellarsi, Dani alla fine cede e si lascia inglobare dalla comunità durante una danza sfrenata e sfiancante, che annulla i confini linguistici e culturali assimilandola in tutto e per tutto alle altre giovani partecipanti, nate e cresciute nel villaggio. Vinta la competizione per il titolo di Regina di Maggio, la fanciulla è ornata da una gran quantità di fiori che pulsano e reagiscono ai suoi movimenti; in precedenza, in almeno altre due occasioni i fili d’erba le trapassano le mani e i piedi, fondendosi con le sue carni. Al di là della spiegazione razionale fornita dal film, che attribuisce tali visioni al consumo di droghe allucinogene, ciò che tali immagini sottolineano è la perdita del sé, il suo fondersi con la comunità fino ad esserne completamente assorbito. L’abbandono della propria individualità comporta, dopotutto, anche l’allontanamento dalle proprie sofferenze private. La scoperta del tradimento di Christian – un atto che il ragazzo compie, come già molti altri nella sceneggiatura, non tanto per una sua reale volontà quanto per l’incapacità di opporsi alle pressioni esterne e contemporaneamente di superare le proprie debolezze interiori – è vissuta non in solitudine ma con la partecipazione intensa di un corteo di ancelle, che fa propria la tristezza di Dani e la esprime insieme a lei, condividendone il peso e allo stesso tempo impedendole di metabolizzare l’evento da sé. Lo stesso amplesso proibito, del resto, è un rituale pubblico e innaturale, in cui non è presente alcuna vera intimità. I protagonisti sono assorbiti da Hårga e spersonalizzati: assumono i ruoli che vengono loro attribuiti e smarriscono la loro identità.

La terribile scelta finale presa da Dani parrebbe, da un certo punto di vista, liberarla definitivamente dai suoi tormenti con un atto radicale; in realtà, tuttavia, non la risarcisce davvero delle sue perdite, né le permette di elaborarle, ma la allontana da se stessa e dalle sue emozioni profonde, rimuovendole e lasciandosi così inglobare dalla comune e dalle sue tradizioni, allo stesso modo in cui il pesante vestito cerimoniale che indossa la ricopre quasi completamente, soffocandola e impedendole i movimenti. Quella che mette in pratica è una distruzione che annienta ma non crea null’altro che ulteriore sofferenza, un elogio della morte più che della rinascita che dovrebbe venire. Il suo ultimo sorriso sullo schermo assomiglia molto alla risata folle di Thomasin (Anya Taylor-Joy) al termine di The VVitch (Robert Eggers, 2015). Entrambe, in effetti, si emancipano dalla sofferenza lasciandosi alle spalle la propria identità e accettando di immergersi in un culto. È una ribellione cupa, eversiva e violenta che non può che culminare nel fuoco; cosa risorgerà dalle ceneri, se il futuro sarà luminoso o ancora più oscuro, allo spettatore non è dato di saperlo con certezza.

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