martedì 23 febbraio 2021

Velvet Goldmine (Todd Haynes, 1998)

«Anche se il film che state per vedere è un'invenzione, dovrebbe essere proiettato al massimo del volume.» Con questa didascalia, ripresa in parte da una frase presente sull'album The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars (1972) di David Bowie, inizia Velvet Goldmine. Lo schermo si riempie di stelle e un disco volante solca il firmamento con l'obiettivo di lasciare sulla Terra un curioso dono: un neonato che si chiamerà Oscar Wilde, il progenitore, secondo la pellicola, dell'effimero fenomeno del glam rock, al cui centro si trova la grande star Brian Slade (Jonathan Rhys Meyers), scomparsa nel nulla dopo un finto omicidio durante un concerto nel 1974. Dieci anni dopo il giornalista inglese Arthur Stuart (Christian Bale), trapiantato in una New York grigia e orwelliana, è incaricato di scrivere un articolo sulla vicenda: mettendosi sulle tracce delle persone che hanno accompagnato l'ascesa e la caduta della rockstar dovrà fare i conti il proprio passato. 

Pur trattando, in realtà, di personaggi inventati, i riferimenti alla reale scena musicale dell'epoca sono pressoché infiniti, sovrapposti come strati di glitter su un costume di scena: Brian Eno e Lou Reed, entrambi passati in un modo o nell'altro per il glam rock, appaiono all'interno della ricchissima colonna sonora. Gran parte degli accadimenti della pellicola sono mutuati dalle cronache di quegli anni e dalle vite dei suoi protagonisti, primo fra tutti David Bowie. Il richiamo più consistente, tuttavia, è cinematografico: lo scheletro di Velvet Goldmine si ispira infatti ad una delle opere più influenti della storia del cinema, Quarto potere (Citizen Kane, Orson Welles, 1941), tanto da riportarne in scena situazioni ed immagini ben precise. Al rigore quasi matematico delle inquadrature profondissime di Gregg Toland, però, si sostituisce un'aerea creatività, che utilizza spesso e volentieri la camera a mano e lo zoom, non disdegnando di prendere in considerazione qualunque stratagemma, financo le Barbie, per raccontare la propria storia. Se ad essere oggetto della ricerca è sempre la verità, mancano, in questo caso, criptiche parole di cui decifrare il significato: al di là della vicenda di Brian Slade e del suo alter ego Maxwell Demon, ricalcati entrambi, essere umano e maschera, sulla figura di Ziggy Stardust e del suo creatore, David Bowie (che per una serie di ragioni rifiutò di essere direttamente coinvolto nella pellicola), ciò che si trova davvero al centro dell'indagine è il tentativo di afferrare il senso di un'epoca nata e morta tra la scoperta della pillola e quella dell'Aids, immersa in una sperimentazione artistica e sessuale apparentemente senza alcun limite. Il rapporto attorno al quale il film s'incardina è quello tra Brian Slade e il musicista americano Curt Wild (Ewan McGregor), unione dei tratti salienti di Iggy Pop e Lou Reed, il cui carattere animalesco e sensuale si pone in contrasto con quello algido e calcolatore della rockstar britannica, un modo per simboleggiare anche, secondo il regista, la complicata relazione tra la musica statunitense e quella del Regno Unito. La performance con cui il personaggio di Curt Wild si presenta agli spettatori è un chiarissimo manifesto di poetica affidato a benzina, sesso, urla sguaiate e fiamme. A fare da testimone a tutto questo è chiamato Arthur, che osserva da sotto il palco le immagini titaniche proiettate da tali personalità, se ne innamora, le venera come la promessa di una possibile liberazione da una vita vissuta di nascosto. La chiusura della vicenda porta con sé un tentativo di risposta agli interrogativi della trama dal sapore amaro e dolce insieme, una riappacificazione con i lasciti di eventi ormai irrimediabilmente appartenenti ad un passato sempre più lontano nella memoria. 

Velvet Goldmine è un film dalla struttura complessa e dai molteplici rimandi, ma sceglie di rapportarsi allo spettatore facendo appello ai suoi sensi, tratteggiando il proprio messaggio sulla superficie degli elaborati costumi (nominati agli Academy Awards), facendo di essi non elemento di sostegno ma struttura portante. È attraverso il trucco e i vestiti che Jack Fairy (Micko Westmoreland), capostipite ideale del movimento, definisce se stesso, ed è tramite il cambiare delle fogge, dei colori e dei tessuti che si struttura la duplice identità di Brian Slade e del suo alter ego. La pellicola stessa è una fitta trama poco naturalistica di momenti narrativi, riflessivi e di puro spettacolo dipinti a colori intensi e carichi, senza paura di esagerare. I pesanti ricami barocchi non sono qui un puro elemento decorativo, sono piuttosto l'espressione materiale dell'essenza stessa del racconto. 

Non è poi così difficile rimanere perplessi di fronte a Velvet Goldmine, al suo accumulo compulsivo di suggestioni, impulsi, lampi creativi ed innocente lascivia; se ci si lascia coinvolgere, però, si scopre un film intelligente e appassionato, le cui mura riccamente stuccate sono sostenute da salde fondamenta.   


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