La noia del sabato sera
Il
sentimento più diffuso del sabato sera è la noia. La ragazza seduta
sul divanetto più lontano dalla pista da ballo sorride di sottecchi,
tira fuori lo smartphone e twitta immediatamente l'aforisma appena
pensato: non finirà su Facebook perché lì lo leggerebbero anche
gli amici con cui è uscita questa sera.
Il
locale è semplicemente brutto: un quadrato di cemento nella
periferia della città, senza neppure una finestra. Gli arredamenti
kitsch cozzano tremendamente con le pareti spoglie, una mera
illusione di ricchezza ed esclusività. Se lei ed il suo gruppo
fossero entrati in un qualunque altro locale in qualunque altra
periferia del paese, nulla sarebbe stato sensibilmente diverso,
neppure il terrificante ed assordante impianto audio che le sta
massacrando i timpani. Per quanto le è possibile, considerato il
volume, non sta più prestando attenzione alla musica: sempre le
stesse dieci canzoni di stagione che ha sentito milioni di volte in
altri locali, remixate senza fantasia dal DJ di turno con l'unico
scopo di offrire agli avventori un ritmo sul quale regolare il
proprio ciondolare sulla pista, boom boom boom. I resti del suo
cocktail annacquato giacciono sul fondo di un bicchiere di plastica
opaca, abbandonato su un tavolino basso in mezzo ad altri dodici
bicchieri vuoti e tre mezzi pieni (li ha contati). Si rimprovera il
toast mangiato un'ora prima di uscire, forse se fosse stata digiuna
l'alcol avrebbe fatto effetto e sarebbe riuscita a divertirsi; invece
il rum è passato nelle sue vene come acqua.
Accende
lo schermo luminoso del suo cellulare: sono passati solo dieci minuti
dall'ultima volta che ha controllato l'ora. È troppo presto perché
sia educato essere così tanto annoiati. Il suo vestito, comprato in
un negozio del centro e cucito frettolosamente da qualche sarta
sottopagata, le sembra terribilmente inutile, così come perse le
sembrano le ore passate a stirare accuratamente i capelli ed a
truccarsi il viso. Domani il sole sorgerà illuminando spietato le
sue doppie punte, le sue occhiaie e le smagliature delle sue calze.
Bisogna che trovi qualcosa da fare.
Ha
perso di vista i suoi amici da un bel po', inghiottiti dal gorgo
della folla sulla pista da ballo, e non le dispiace particolarmente:
una volta scattata l'obbligatoria trentina di foto buie e sfocate con
cui colonizzare il sonnolento pomeriggio domenicale dei social
network non rimane molto altro da fare, tranne guardarsi attorno con
aria imbarazzata. Alle undici di sera, dopo una giornata di stati,
condivisioni, mi piace, foto, selfie, commenti, video, chi ha più
effettivamente qualcosa da dire? Anche le domande più ovvie (come
stai, dove hai comprato quel vestito, dicono che stasera faccia
brutto) diventano superflue.
Nella
penombra soffocante del locale piccole luci azzurrine spuntano qua e
là, come piccoli fuochi fatui. Gli smartphone sono perennemente in
funzione, ribollenti di parole, pixel, emoji, tarme fameliche capaci
di divorare il mondo fisico in tempo reale. Le dita della sua mano
destra si sono addormentate intorno alle superfici lisce del suo
cellulare. Osservare il flusso incessante di aggiornamenti dei suoi
contatti è allo stesso tempo estremamente piacevole e vagamente
inquietante.
Qualcuno
le sfiora un braccio: un ragazzo si è seduto accanto a lei e la
guarda in modo interessato. Gli sorride stirando le labbra, lui le
prende la mano e la fa alzare. Vuole ballare con lei: e sia.
Strisciano in mezzo alla folla alla ricerca di un pezzo di pavimento
da conquistare.
Incastrata
insieme al suo cavaliere tra un gruppo di quindicenni in equilibrio
sui tacchi a spillo e una coppia troppo occupata in una sequenza
metodica di preliminari per far caso alla musica, ha modo di
osservarlo meglio nella tenue luce rosata. Porta una camicia chiara,
proveniente con ogni probabilità dal falsamente originale negozio di
una multinazionale spagnola dell'abbigliamento. Il tessuto è troppo
sottile ed è pieno di pieghe, le cuciture non sembrano migliori di
quelle – estremamente economiche – del suo vestito. Porta una
collana di perline di legno, certamente il residuo di una qualche
vacanza in una località balneare con gli amici. Le sembra quasi di
poter scorgere il volto dell'uomo di colore che gliel'ha venduta, le
contrattazioni sul prezzo sotto il sole cocente. Ricambia con un
mezzo sorriso lo sguardo languido di lui, impegnato in un
corteggiamento stereotipo da film muto. Rodolfo Valentino precipitato
in mezzo ad un tumulto di corpi sudaticci. Gli pesta un piede per
sbaglio ed alza una mano in segno di scusa: lui non se n'è neppure
accorto, troppo preso dall'interpretazione del suo copione. Si
avvicina al suo orecchio destro e gli chiede, urlando, il suo nome.
Dopo aver ascoltato la sua risposta le grida all'orecchio qualcosa
che lei non riesce ad afferrare. Le mani sui suoi fianchi le
accarezzano la schiena, strisciando contro le paillette del suo
vestito. Stanno entrambi ballando fuori tempo.
Improvvisamente
la tasca destra dei pantaloni di lui si illumina: con perizia ne
estrae uno smartphone della dimensione di un piccolo libro tascabile.
Il suo account Whatsapp è pieno di messaggi. Inizia a rispondere a
tutti, una mano sulla sua schiena e l'altra sullo schermo. Lei
osserva i suoi capelli, la sua fronte, il viso rivolto verso il basso
illuminato dalla luce fredda del cellulare, le occhiaie ben in vista,
un graffio da rasatura su una guancia. Sposta delicatamente la mano
di lui e gli comunica, a gesti, che deve andare, la scusa più
generica che riesce a trovare. All'inizio l'ingannato resiste, scuote
la testa, cerca di riafferrarla, alla fine si arrende e la saluta con
un cenno, avanzando faticosamente tra la folla. Lei inciampa su piedi
sconosciuti nella direzione opposta.
Attraversa
l'intera sala, scende qualche scivoloso gradino ed entra in una
stanza più piccola e meno affollata. La musica è ancora meno
invitante ma i divanetti sono sufficientemente liberi. Non ha proprio
idea di dove siano i suoi amici, dovrà mandargli un messaggio. Tira
fuori il cellulare dalla borsetta e digita velocemente un “dove
siete” telegrafico che invia a più persone con la speranza che
almeno una lo legga. Attendendo la risposta apre Twitter, quasi senza
pensarci. Qualcuno ha retwittato il suo pensiero e lei sorride
compiaciuta tra sé e sé; però i profili di chi ha trovato
interessante la sua considerazione riguardo al sabato sera non sono
granché, non abbastanza da renderli davvero interessanti. Migra
allora su Facebook ma la sensazione di noia perdura. Una sua
ex-compagna di liceo ha pubblicato le foto della sua serata e sembra
che si stia divertendo, anche se lei in quel locale è già stata e
sa che non ha nulla di diverso da quello in cui si trova ora.
Tap-tap: due colpi sullo schermo e la foto si ingrandisce, come
pronta su un metaforico tavolo operatorio governato dalle sue dita.
La palpa con attenzione e con abilità. Purtroppo la risoluzione non
è molto alta, ma, osservando bene, le sembra che il sorriso della
sua conoscente sia un po' tirato.
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