mercoledì 1 agosto 2018

Hereditary: Le radici del male (Hereditary, Ari Aster, 2018)


Nonostante mostri, spiriti malevoli e morti che risorgono dalle tombe abbondino all’interno dei racconti dell’orrore, non è da essi che scaturisce il forte sentimento di inquietudine che colpisce occasionalmente chi ne fa esperienza; non sono altro che maschere, infatti, poste al di sopra di situazioni e sensazioni ben più umane e realistiche. L’horror è, al suo meglio, uno specchio deformante della realtà, un linguaggio per immagini atto ad esplorare tramite la creazione artistica i recessi più bui e abietti dell’animo umano, per saggiarne in ambiente controllato la meschinità, la crudeltà, l’indifferenza, spesso la follia. Non si tratta di un risultato facile da ottenere, e in effetti i fallimenti superano di gran lunga i successi; non è affatto difficile imbattersi in spettacoli pirotecnici di smembramenti o possessione che restano in superficie, senza riuscire ad addentrarsi in profondità nelle emozioni che mettono in scena. L’esordiente Ari Aster, alla regia di Hereditary, sembra avere una qualche comprensione di questo meccanismo fondamentale del cinema del terrore, ma non ripone in esso sufficiente fiducia, distaccandosene proprio nel momento in cui dovrebbe più strettamente aderirvi.
Il fulcro del primo tempo di Hereditary sono i rapporti disfunzionali all’interno di una famiglia; nonostante una forse eccessiva dilatazione dei tempi e qualche ingenuità di sceneggiatura e di regia, la forza del dramma psicologico sostiene la pellicola, tanto da far apparire gli occasionali richiami a manifestazioni soprannaturali addirittura come superflui. Al centro dei violenti contrasti si trova il personaggio interpretato da Toni Collette, Annie, tormentata dall’oscura ombra della recentemente defunta madre, donna ricca di segreti e dal comportamento manipolatorio ed abusivo, che nonostante l’ormai avvenuto trapasso avvelena ancora la sua vita e la relazione con i suoi due figli. Aster sceglie di portare alla luce le pressioni alle quali è sottoposta la protagonista (o perlomeno, presunta tale) a metà del film, ben lontano dal finale, affidando poi la seconda parte ad un vasto e ben conosciuto repertorio di eventi paranormali, che banalizzano quanto proposto fino a quel momento invece di esaltarlo, soffocando una tragica storia di madri e figlie degeneri sotto una spessa coltre di spiritismo che nulla aggiunge e molto confonde. I paragoni a Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York (Rosemary’s Baby, Roman Polanski, 1968), probabilmente sollecitati da qualche richiamo visivo nell'ultimo atto, paiono piuttosto ingiustificati: Hereditary è del tutto privo della virulenta vena satirica presente nella pellicola del cineasta polacco. La regia di Aster, inoltre, manca dell’ossessiva attenzione al dettaglio polanskiana; lavora piuttosto a larghe pennellate, riponendo eccessiva fiducia nella metafora della casa di bambola che, seppure inizialmente molto interessante, finisce per essere sfruttata fino a perdere significato. Le molte inquadrature fisse, spesso piuttosto lunghe, mancano forse del necessario interesse compositivo per mantenere alta l’attenzione dello spettatore, e i movimenti presenti risultano a volte un po’ gratuiti, non legati tra di loro da un progetto estetico comune. La focalizzazione altalenante del racconto, che salta in pochi minuti dai traumi di un personaggio a quelli di un altro, rende difficile una vera e propria immedesimazione e, se Annie e i suoi due figli sono sufficientemente approfonditi da suscitare un qualche interesse, i personaggi secondari, seppure fondamentali per lo svolgimento della storia, risultano appena abbozzati. La colonna sonora, seppure suggestiva, si trova spesso a generare la tensione in immagini che ne sono per lo più prive visivamente e narrativamente. La presenza di qualche inquadratura evocativa e un utilizzo del colore a tratti interessante suggeriscono, tuttavia, la possibilità di un futuro miglioramento.
Hereditary è un caso particolare all’interno del cinema horror, certamente meno frequente di altri: perde mordente proprio nel momento in cui si immerge più pienamente negli stilemi del genere, mettendo involontariamente in mostra la propria natura un po’ zoppicante di opera prima.

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