domenica 5 agosto 2018

I figli degli uomini (Children of Men, Alfonso Cuarón, 2006)


Il futuro inizia e finisce con i bambini: in Interceptor (Mad Max, George Miller, 1979) ciò che segna la fine delle speranze del protagonista è l'uccisione della moglie e del figlio, mentre nel terzo film della saga, Mad Max – Oltre la sfera del tuono (Mad Max Beyond Thunderdome, George Miller e George Ogilvie, 1985), la rinascita dell'umanità dopo la catastrofe è nelle mani di uno sparuto gruppetto di fanciulli. In Interstellar (Christopher Nolan, 2014) una delle missioni affidate al gruppo di esploratori spaziali è quella di trovare una base dove stabilire la prima colonia umana oltre il sistema solare, presente sull'astronave come un carico di embrioni congelati. Infine, è proprio l'immagine di un feto fluttuante sopra la terra a chiudere – facendo presagire un nuovo inizio – 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968). I figli degli uomini tratta questo tema in maniera molto più diretta: al centro della trama, infatti, c'è una piaga biblica abbattutasi su tutta la popolazione terrestre, da diciotto anni non più in grado di generare prole.


Il film si apre nel momento in cui viene diffusa la notizia della morte in circostanze violente del più giovane abitante del pianeta. Lo sconforto e la disperazione si abbattono su tutta Londra, una delle pochissime città che ancora resistono contro il caos e la guerriglia dilagante, anche se il suo volto è certamente molto diverso da quello che conosciamo; il protagonista, Theo (Clive Owen), un uomo cinico e disilluso, si aggira in una città sporca e violenta, disseminata di schermi su cui passano a ciclo continuo le pubblicità governative, che invitano al suicidio consapevole e ai test per il controllo della fertilità. È facile ripensare alla Los Angeles di Blade Runner (Ridley Scott, 1982), soltanto, in questo caso, meno fumosa e stilizzata. Ad opporsi ad un governo sempre più conservatore e reazionario, che ha serrato ormai tutte le frontiere e rinchiude gli immigrati illegali in campi di concentramento, sono organizzazioni terroristiche e bande armate, tra cui spiccano i Pesci, capitanati da Julian (Julianne Moore), ex-moglie di Theo, che ha un favore da chiedere a quest'ultimo: ha urgente bisogno, infatti, che una persona di fiducia le procuri un lasciapassare per una giovane immigrata, Kee (Claire-Hope Ashitey), le cui sorti sembrano stare particolarmente a cuore a lei ed alla sua cellula, che annovera tra i suoi membri il risoluto Luke (Chiwetel Ejiofor). Seppure riluttante, Theo deciderà di partecipare alla missione, e scoprirà che in gioco c'è molto più di quello che appare.

Cuarón procede con calma attraverso la narrazione, prendendosi tutto il tempo necessario per tratteggiare l'ambientazione ed i caratteri. I riferimenti al cristianesimo sono tantissimi e sparsi lungo tutto l'arco della storia, anche se emergono con più forza nel suo atto finale; in ogni caso, non diventano mai inopportuni. Lo stile di regia del regista messicano è improntato ad un iperrealismo coreografico e crudo: la macchina da presa segue i movimenti degli attori senza lasciar loro un attimo di respiro, assistendo impotente a morti, incidenti, catastrofi e nascite. Oltre a quello di Cuarón c'è un altro nome da ricordare quando si parla dell'aspetto visivo de I figli degli uomini, ed è quello di Emmanuel Lubezki, pluripremiato direttore della fotografia vincitore di ben tre Oscar, l'ultimo per Revenant – Redivivo (The Revenant, Alejandro González Iñárritu, 2015), che ha messo al centro della propria ricerca artistica un'estrema e rigorosa resa della realtà, perseguita con toni cupi e l'impiego di meno luci possibili. Tutto il cast offre una prova recitativa più che solida, stando al gioco di Cuarón nella complicata danza di filmico e profilmico, strettamente intrecciati.

I figli degli uomini è un film severo e metodico che nonostante questo riesce a non perdere il suo respiro vitale, senza precipitare nel puro esercizio di stile: la sceneggiatura è articolata con cura ed in grado di mantenere alta l'attenzione anche ben prima che la vicenda principale salga in scena; i tanti echi religiosi e sociopolitici gli danno una ulteriore profondità ed ancorano al terreno un racconto a metà tra misticismo e fantascienza. Non sorprende di certo, quindi, che il premio Oscar al miglior regista non abbia tardato ad arrivare nelle mani di Cuarón grazie a Gravity, uscito nel 2013 ed espressione ulteriore e più azzardata di quanto già mostrato anni prima con l'affascinante parabola distopica de I figli degli uomini.

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