venerdì 16 ottobre 2015

Suburra (Stefano Sollima, 2015)


Suburra (Stefano Sollima, 2015) è un lungo, rumoroso addensarsi di nuvole nere che promettono una tempesta di dimensioni inenarrabili; alla fine, però, quello che cade dal cielo è solo un acquazzone estivo. Le vicende rappresentate, pur essendo del tutto fittizie, sono pesantemente ispirate a recenti fatti di cronaca italiana ed in questo, in linea teorica, non ci sarebbe nulla di male; ma la mano che descrive e gestisce gli avvenimenti è pesante e poco accurata, ed alla rielaborazione narrativa preferisce un collage di articoli di giornale che manca di approfondimento. Si potrebbe argomentare dicendo che la realtà è in sé irrappresentabile, in quanto composta da innumerevoli sfumature che il solo occhio della macchina da presa, per quanto accurato, non può supporre di cogliere; ed è chiaro quindi che, se ad un racconto che, pur prendendo le mosse dalla realtà, la utilizza per tracciare un suo disegno personale se ne preferisce uno che da questa è in tutto e per tutto dipendente senza cercare l'affrancamento, il mondo reale finisce per risultare molto più interessante ed imprevedibile della sua pallida imitazione, condannata a ripetere pedissequamente quanto già detto, già visto, già vissuto. I personaggi sono sagome da poligono di tiro, immagini bidimensionali, così ricalcate su persone realmente esistenti da sembrare dei sostituti – gli originali saranno stati impegnati in una puntata di Porta a porta – con delle capacità recitative più che buone; ci sarebbero le potenzialità per sviluppare delle personalità interessanti – il mondo criminale ha sempre il suo fascino, dopotutto – ma non si rischia un'immersione in profondità, si naviga a pelo d'acqua e senza usare il sonar. Ci sono molti modi con cui è possibile mettere in scena un politico corrotto e con passioni pericolose, un capofamiglia mafioso, un reuccio di città con le mani in pasta ovunque, un uomo meschino senza arte né parte: Sollima, parandosi dietro lo scudo dell'attualità, sceglie di farlo nel modo più scarno e banale possibile, appiattendo i personaggi fino a farli diventare maschere che non ci spaventano né ci interessano più. La realtà, l'abbiamo già detto, ci ha abituato a mostri peggiori e più affascinanti. L'idea di fondo sembrerebbe essere quella di rappresentare un mondo senza più speranze, a pochi giorni dalla fine: il risultato, invece di essere ipnotico e piacevolmente velenoso, finisce per assomigliare ad un unico tasto ribattuto impunemente per due ore e dieci minuti. Tutto è malvagio, nulla può essere salvato, nulla può essere fatto se non aspettare che arrivi il giorno del giudizio, lasciandosi trascinare dalla corrente di una trama che non nasconde e non rivela ma che semplicemente si snoda senza sorprese, navigazione lungo la costa. L'eliminazione delle forze dell'ordine, che nel romanzo da cui Suburra è tratto apparivano in forze – almeno, così si legge in giro – è, con tutta la buona volontà dell'universo, ingiustificabile: si elimina così il polo opposto dello schieramento, si annulla il conflitto nel tentativo di rafforzare la rappresentazione di una dannazione eterna che suona, proprio per questo, ancora più artificiale. Sommerge il tutto una gran quantità di grigia pioggia torrenziale, che ci verrebbe la tentazione di definire un cliché, e una colonna sonora che, se in alcuni punti è accettabile, in altri finisce per soffocare irragionevolmente il film sotto una patina falsamente introspettiva. Se questo è un esempio del migliore cinema di intrattenimento che l'industria italiana riesce a proporre, la strada per arrivare a dei prodotti validi ed internazionalmente competitivi ci pare ancora piuttosto lunga.

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