Prisoners (Denis Villeneuve, 2013), la recensione
In un tipico sobborgo americano due bambine scompaiono nel nulla, come inghiottite dal terreno; mentre il detective Loki (Jake Gyllenhaal) porta avanti le indagini ufficiali, Keller Dover (Hugh Jackman), il padre della bionda Anna, intraprende un pericoloso e immorale percorso di ricerca della verità.
È difficile
stabilire chi sia davvero in gabbia all’interno di Prisoners, primo
film americano del canadese Denis Villeneuve (regista in seguito di
Sicario e Arrival): tutti i personaggi, ad un certo punto, si muovono
lungo le stradine ghiacciate che si fanno largo tra ampie distese di
villette a schiera come incatenati, condannati a portare avanti
un’indagine che sembra continuamente sfuggire dalle mani, in cui la
soluzione appare sempre così vicina da poterla percepire, ma non
abbastanza da poterla afferrare. Anche quando delle prove vengono
raccolte, esse rimangono enigmatiche: più interpretazioni sono
possibili, ma nessuna è inconfutabile. Il freddo e l’umido della
pioggia scrosciante entrano nelle ossa insieme alla frustrazione.
Alla base della
sceneggiatura di Prisoners – scritta da Aaron Guzikowski – non
c’è una storia particolarmente originale: di vicende simili il
panorama del genere thriller è pieno. Ciò che è encomiabile in
questo caso è la capacità di confondere le acque abbastanza da
continuare ad insinuare dubbi ed aprire percorsi, tendendo l’elastico
della tensione fino ai titoli di coda. Villeneuve costruisce
l’impalcatura del film su inquadrature lunghe e ben studiate,
dentro le quali i personaggi vagano alla ricerca dell’indizio che
scioglierà il mistero. Richiamando i celebri versi che Sofocle mette
in bocca a Tiresia ne L’Edipo re, essi vedono, ma sono ciechi e,
seppure non lo diventeranno mai letteralmente come lo sfortunato
sovrano di Tebe, la strada su cui dovranno incamminarsi per sperare
di trovare una qualche risposta è tetra ed ingannevole, sommersa nei
toni freddi e spenti di cui la ammanta il direttore della fotografia
Roger Deakins. Sulle vecchie e sporche casette prefabbricate che
scorrono accanto ai protagonisti non splende mai il sole; esse paiono
abbandonate in una landa desolata dove persino la voce dello speaker
di un notiziario sembra quella di uno straniero chiaramente fuori
posto, l’emissario di un’America lontana anni luce in ogni senso
possibile.
Un cuore disperato e
rabbioso batte dentro i fotogrammi di Prisoners. Esso è latente
dietro lo sguardo distaccato del detective Loki di Gyllenhaal, i cui trascorsi violenti sono suggeriti dai numerosi tatuaggi che spuntano dai
polsini e dal colletto della camicia intonsa, come le macerie di un
passato che non è dato sapere quanto sia lontano; è invece
dichiarato apertamente nei muscoli sempre contratti del Keller di
Hugh Jackman, divorato da una furia continuamente sul punto di
esplodere che da preda lo rende cacciatore. I pugni, le torture e i
colpi di pistola sono l’ineluttabile conseguenza dell’estrema,
ossessiva determinazione con cui si percorrono le piste d’indagine,
aggrappandosi ad ogni particolare, cercando di zittire più o meno
efficacemente la legge morale che secondo le teorie di Kant risiede
in ogni essere umano. Il microscopico, squallido universo di
Prisoners trasforma i carnefici in vittime e le vittime in carnefici,
le maschere passano da un proprietario all’altro mentre il tempo
passa, inesorabile, rendendo sempre più certa una possibile e temuta
tragedia. Ai margini di questo scavo nell’oscurità interiore di
una cittadina di provincia rimane il padre dell’altra bambina
scomparsa, Franklin Birch (Terrence Howard), divorato dal dolore ed
incapace, anche di fronte alla più grande disgrazia, di allontanare
da sé il proprio senso etico. Più volte nel film ritornano preghiere ed immagini religiose, in particolare il simbolo della croce, come se
ogni personaggio fosse impegnato in un proprio percorso di penitenza,
forse a causa di un peccato che ci è permesso soltanto intuire, o
magari perché, come ad un certo punto la voce della radio declama
all’interno dell’abitacolo di una macchina, la vita è
sofferenza. Anche un cervo libero in una foresta, come nella prima
inquadratura della pellicola, è in realtà intrappolato in una
gabbia di alberi, pronto ad essere colpito da un proiettile.
Molti thriller
cercano invano di suscitare un brivido mettendo in pratica tutte le
convenzioni del genere; Prisoners, nonostante la lunga durata che
dovrebbe giocare a suo sfavore, mantiene l’attenzione grazie a una
regia impeccabile e ad una storia che rivela sempre meno di quanto
noi ed i personaggi desidereremmo, lasciandoci sulle spine quasi
oltre i limiti del sopportabile, e poco importa che gli snodi
centrali della trama non siano, in fondo, particolarmente originali, quando la
potente ed atmosferica suspence creata da Villeneuve ci avvolge nelle
sue spire come una serpe spietata.
Commenti
Posta un commento