Stranger Things, la recensione
La storia di
Stranger Things inizia con un rifiuto, quello ricevuto dai fratelli
Duffer nel momento in cui si sono proposti come registi per il remake
di It che arriverà al cinema il prossimo anno; i due hanno deciso,
allora, di dedicarsi allo sviluppo e alla realizzazione di una serie
televisiva che rendesse omaggio alle atmosfere della fantascienza
anni ottanta, scolpita nelle menti di milioni di esseri umani
dall’abilità di maestri quali Steven Spielberg, Ridley Scott, John
Carpenter e, ovviamente, Stephen King. Il design del titolo chiama
subito in causa il celeberrimo e prolifico autore: sembra infatti che
l’ispirazione per esso sia venuto dalle copertine delle edizioni
originali di alcuni suoi romanzi, tra cui, per esempio, Cujo (1981),
La zona morta (The Dead Zone, 1979) e Cose preziose (Needful Things,
1991). I rimandi e le citazioni ad altre opere, in ogni caso, non si
fermano qui e non si limitano al cinema americano, ma si spingono
fino ad alcuni anime giapponesi, tra cui Elfen Lied (エルフェンリート, 2004). Questo
patrimonio narrativo ed iconografico arriva sullo schermo filtrato
dalla storia della misteriosa sparizione di un bambino nell’anonima
cittadina americana di Hawkins; amici e parenti si metteranno alla
sua ricerca, scoperchiando un vaso di Pandora che conduce a
destinazioni inaspettate.
La copertina originale di Needful Things. |
In un certo senso,
un po’ come la prima stagione di American Horror Story, Stranger
Things è un elaborato remix di temi, immagini e suggestioni tipiche
di un certo genere narrativo, anche se a differenza della serie
creata da Ryan Murphy il gioco è forse condotto con più attenzione
e raffinatezza cinefila. Non è di poca importanza notare che i
fratelli Duffer sono nati nel 1984: è chiaro, quindi, che gran parte
dei loro ricordi di quel decennio così importante per la cultura
popolare siano indiretti, legati più che altro a film, libri,
canzoni, show televisivi, e infatti la loro creatura non vuole in
nessun momento essere una rappresentazione eccessivamente realistica
degli Stati Uniti di allora, ma piuttosto un’operazione volta a
restituire sullo schermo ciò che è rimasto sedimentato nella
memoria collettiva – anche di chi allora non era ancora nato –
del periodo in cui Star Wars era soltanto una trilogia e nei cinema
scorreva la pellicola di Dark Crystal (The Dark Crystal, Jim Henson,
Frank Oz, 1982): gli anni ottanta non come erano realmente, ma come
li immaginiamo.
Gli effetti speciali
utilizzati sono di livello più che buono per una serie televisiva, e
il design degli elementi soprannaturali richiama molto spesso quello
ideato per Alien (Ridley Scott, 1979) da H.R. Giger, adeguatamente
ibridato con il terrificante aspetto del mostro de La cosa (The
Thing, John Carpenter, 1982) e infuso di una vaga suggestione
fiabesca che sembra provenire da Il labirinto del fauno (El laberinto
del fauno, Guillermo del Toro, 2006), senza dimenticare la cieca e
brutale animalità della bestia feroce al centro de Lo squalo (Jaws,
Steven Spielberg, 1979). Alcune sequenze, come l’inseguimento di un
gruppo di ragazzini in bici, richiamano evidentemente E.T.
l’extraterrestre (E.T. the Extra-Terrestrial, Steven Spielberg,
1982), certo all’interno di un contesto molto più cupo e
genuinamente inquietante, mentre alcuni snodi della trama riportano
chiaramente alla mente Poltergeist – Demoniache presenze
(Poltergeist, Tobe Hooper, 1982). Tutto questo,
tuttavia, non riuscirebbe a trovare una propria identità se non
fosse sorretto da una storia interessante ed avvincente, che
all’interno della stratificazione di riferimenti riesce a trovare
una propria anima, grazie anche ad interpretazioni sentite ed
efficaci, tra le quali vale senz’altro la pena citare quelle degli
attori più giovani (Millie Bobby Brown, Finn Wolfhard, Gaten
Matarazzo, Caleb McLaughlin). È degna di nota anche la prova
ispirata – ed appropriatamente sopra le righe – di Winona Ryder.
Stranger Things è uno show corale che frammenta le investigazioni su
più gruppi, spingendoli ognuno lungo strade diverse, anche
narrativamente: alla detective story in senso classico si aggiunge il
film adolescenziale e la storia di formazione, scoperta e crescita di
un gruppo di bambini. I personaggi, divisi in piccole compagnie, si
spostano continuamente come in un gioco di ruolo alla ricerca di
risposte, formando (o riaprendo) relazioni, conoscendosi e svelandosi
strada facendo, creando un’ampia rete di rapporti che riesce a dare
spazio ad ognuno. I tanti segreti e misteri confluiscono in un finale
che, com’è d’obbligo di questi tempi, contemporaneamente chiude
ed apre, in previsione di una seconda stagione che è già in corso
d’opera. Sarà interessante scoprire quale direzione prenderà –
e come si innoverà – la ragnatela di rimandi diretti ed indiretti
messa in piedi dai fratelli Duffer. Netflix ha già diffuso tramite YouTube un teaser che annuncia i titoli dei futuri episodi.
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