domenica 8 gennaio 2017

Sherlock 4x01, “The Six Thatchers”, la recensione


Attenzione:  nel seguente articolo sono presenti spoiler sul finale di The Six Thatchers. Se non avete ancora visto l'episodio e non desiderate ricevere alcuna rivelazione, non procedete con la lettura.

Alle prime tre stagioni di Sherlock ho dedicato un post qualche mese fa: mi sembra che ciò che ho scritto allora valga, in gran parte, anche per la prima puntata della quarta stagione, The Six Thatchers, trasmessa dalla BBC una settimana fa e approdata subito dopo su Netflix Italia. In questa recensione, quindi, mi focalizzerò più che altro su alcuni elementi in particolare, tralasciando (almeno per ora) il quadro generale.



Il più evidente punto di forza della serie resta sempre lo stesso, ovvero il suo cast che, dagli interpreti principali ai secondari (in The Six Thatchers piuttosto marginali), non si risparmia. Benedict Cumberbatch interpreta il detective più famoso al mondo con l’usuale energia, sicurezza e precisione; il dottor Watson di Martin Freeman, pur lasciato lontano dall’azione e confinato, per la gran parte del tempo, solo all’interno di alcune scene cardine dell’episodio, è l’ennesima dimostrazione di come l’attore britannico sappia lavorare i più minimi dettagli del volto con la delicatezza di un orefice, caricando di gran significato anche un’espressione appena percettibile. A sostituirlo nel ruolo di spalla del protagonista è la Mary Morstan di Amanda Abbington, che lungo le scene ha molto materiale con cui tenersi impegnata: è proprio sul suo personaggio, infatti, che l’episodio finisce per imperniarsi dopo una piuttosto lunga – ma non inusuale, all’interno della serie – introduzione.


È opinione piuttosto diffusa che le narrazioni seriali, per funzionare, debbano incentrarsi su personaggi interessanti, piuttosto che su intrecci accattivanti. Ciò che ci spinge a seguire Tex, Spider-Man o Batman è la caratterizzazione dei protagonisti, più che le singole vicende in cui essi si trovano di volta in volta coinvolti. È del tutto possibile applicare tale logica a Sherlock, e perciò tralasciare la verosimiglianza delle vicende che vi vengono rappresentate, purché però chi vi si trovi coinvolto sia sufficientemente caratterizzato agli occhi dello spettatore da oscurare tali incrinature con il proprio personale fascino. È proprio qui, secondo il mio umile e contestabilissimo parere, che gli sceneggiatori Steven Moffat e Mark Gatiss più spesso mancano il bersaglio, soprattutto a partire dalla terza serie, che ha deciso di allontanarsi dalle deduzioni per concentrarsi maggiormente sui personaggi e sulla loro evoluzione.


The Six Thatchers ruota attorno al pericoloso passato di Mary come agente segreto freelance, emerso nell’ultimo episodio della scorsa stagione, His Last Vow, che però non entrava particolarmente nel dettaglio a riguardo. Il ritorno di un rabbioso e vendicativo compagno di squadra, convinto di essere stato tradito da lei durante un’operazione con esito infausto, mette in pericolo la sua vita al fianco di John Watson e della loro neonata figlioletta. La scoperta della verità porterà con sé risvolti luttuosi. Il finale dell’episodio dovrebbe suscitare, si suppone, un qualche tipo di emozione nello spettatore, eppure nonostante l’ampio utilizzo di stratagemmi piuttosto melodrammatici finisce per risultare piatto. Il problema è che le due personalità di Mary, la moglie amorevole e la guerriera dal sangue freddo, non riescono davvero a collidere nel personaggio fino a formarne una sola.


La scioccante rivelazione avvenuta alla fine della terza serie era piovuta dal cielo come un fulmine, senza essere introdotta o preannunciata da alcuna caratteristica peculiare di Mary, se si escludono le rapide deduzioni di Sherlock durante il primo incontro con la donna (che, in ogni caso, erano alquanto vaghe). I flashback e i dialoghi di The Six Thatchers, allo stesso modo, non riescono ad avere il peso adeguato, non trasmettono quell’insieme di piccoli particolari in grado di rendere credibile un personaggio composto da due aspetti così radicalmente differenti. Nulla impedisce che 007 decida, un giorno, di cambiare vita, per esempio: però una scelta simile non può non essere approfondita e dettagliata con le parole e con le azioni, perché piuttosto in contraddizione con le caratteristiche tipiche del personaggio, e ciò è ancora più valido per la bionda e sorridente Mary, che non ha l’aria severa del combattente su commissione. Ad ogni modo, qualcuno che ha vissuto simili esperienze estreme non può reinserirsi nel tessuto sociale in completa pace con se stesso, come dimostra chiaramente lo stesso dottor Watson di Freeman. Non sappiamo perché Mary abbia scelto quella professione, e neppure se le piacesse o se fosse stata una scelta dettata da un qualche tipo di necessità: essere il braccio armato di chiunque sia disposto a pagare non è esattamente come guidare un autobus in centro, e ha delle implicazioni decisamente più pesanti. La mancanza tali sottigliezze all’interno della sceneggiatura, che preferisce piuttosto concentrare l’attenzione sull’effetto sorpresa privandoci della possibilità di conoscere davvero Mary, rende la sua morte un momento molto meno efficace di quello che avrebbe potuto essere, anche in considerazione all’effetto devastante che sortisce nel rapporto tra Sherlock e John.


Si è spesso letto nelle interviste che la quarta stagione di Sherlock sarà quella delle conseguenze, dei nodi che vengono al pettine: la situazione messa in campo dalla fine di The Six Thatchers sembra andare in quella direzione. Si spera che il deus ex machina Mycroft (Mark Gatiss) non intervenga, come già successo troppo spesso in passato (e anche all’inizio di quest’ultima puntata), per spazzare via con un colpo di mano ogni difficoltà.

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