The Bling Ring, ovvero volevo recensire un film ma poi mi sono fatta prendere un pochino la mano
Siamo i figli di mezzo della storia, non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo la Grande Guerra né la Grande Depressione. La nostra Grande Guerra è quella spirituale, la nostra Grande Depressione è la nostra vita. Siamo cresciuti con la televisione che ci ha convinto che un giorno saremmo diventati miliardari, miti del cinema, rock stars. Ma non è così. E lentamente lo stiamo imparando. E ne abbiamo veramente le palle piene!Fight Club, 1999, David Fincher
Ogni bambina avrà
provato almeno una volta, nel corso della propria infanzia, ad indossare le scarpe col tacco della mamma. I vestiti, le scarpe ed i
gioielli hanno un potere che tutti istintivamente conosciamo: la
capacità di trasformare, di mascherare, di trasfigurare. Sono il
metodo più rapido e più facile per cambiare identità, per sentirsi
una persona diversa dal nostro a volte noioso sé per un paio d'ore,
un giorno od una settimana, oppure per esteriorizzare una rivoluzione
dello spirito tutta interiore.
Il potere totemico
dei vestiti è ben noto anche ad ogni teenager di questo pianeta.
L'adolescenza è il momento di passaggio per eccellenza e mai come
allora si sente chiaro e pungente il bisogno di costruirsi, a volte
un po' artificiosamente, un'identità ben definita che semplifichi il
rapporto con l'esterno e con i propri coetanei e questa costruzione
passa necessariamente attraverso quello che si decide di indossare; i
vestiti sono l'armatura con cui scegliamo di affrontare il mondo,
quel professore che ci odia, quella ragazza veramente carina che ci
piace un sacco ma con cui non abbiamo il coraggio di parlare, le
prime uscite con gli amici. Proprio degli adolescenti sono i
protagonisti principali di The Bling Ring, l'ultimo film di Sofia
Coppola presente nel circuito cinematografico italiano dal 26
settembre 2013. Vista l'incredibile e martellante campagna di
marketing è forse perfino superfluo accennare alla trama, ma per
amor di completezza vi indugiamo giusto il tempo di dire che è un
film che parla della vicenda realmente accaduta di una banda di
teenagers delle Hollywood Hills che tra il 2008 ed il 2009 si rese
responsabile di svariati furti ai danni di giovani divi dello star
system americano, intrufolandosi nelle loro residenze e trafugando
beni di lusso per un valore complessivo di circa tre milioni di
dollari. La giornalista Nancy Jo Sales si è occupata della vicenda
ed il suo articolo, The Suspects Wore Louboutins (I sospetti
indossavano delle Louboutins), pubblicato da Vanity Fair, ha ispirato
Sofia Coppola per la realizzazione del suo film.
La struttura portante
del film è giocata lungo due piani temporali che si allineano
soltanto nelle scene finali: da una parte i mesi dei furti e degli
eccessi, dall'altra le interviste ai singoli componenti della banda
svolte dalla giornalista. L'effetto ottenuto
intersecando i due piani è quasi quello di assistere ad una
lunghissima testimonianza in tribunale in cui il pubblico stesso è
chiamato a trarre le proprie conclusioni sulla base di ciò che vede.
L'evento da cui il film prende le mosse è l'arrivo di Marc (Israel
Broussard) in una nuova scuola dopo essere stato espulso da quella
precedente per le troppe assenze; ed è, questo, un evento traumatico
per qualunque adolescente. Durante il colloquio con la giornalista
il ragazzo parla della sua vita prima del Bling Ring descrivendosi
con insoddisfazione come qualcuno non bellissimo, ma nemmeno brutto:
in conclusione, una specie di lungo giro di parole per definirsi
normale. Sappiamo tutti fin troppo bene che nella nostra società
travolta dall'impatto dei nuovi media, del web 2.0 e degli apparecchi
digitali diffusi in ogni dove il senso più importante è quello
della vista. I social network ne sono l'incarnazione più evidente:
un biglietto da visita digitale attraverso il quale chiunque sia
ammesso nella cerchia allargata dei nostri amici virtuali può
scrutare nelle nostre passioni, frequentazioni e idee. Le foto, come
è evidente, hanno un ruolo fondamentale in tutto ciò, rendendo
tangibile e credibile la persona dietro il profilo. Uno dei tanti
slogan autonomamente prodotti dal web recita «pics
or it didn't happen»,
«foto o non è successo»,
ovvero, citando l'Urban Dictionary, «A
phrase used on Internet forums to counter the vast range of
unverifiable claims made by users. Often these claims involve
personal brag-worthy accomplishments, extraordinary or rare
sights/occurrences, and tales relating to alcohol or drug use».
Parlando di società basate sul senso della vista non si può fare a
meno di pensare ad un particolare universo sociale che nasce e si
sviluppa intorno all'arte della fotografia: quello dello spettacolo
con tutti i suoi tappeti rossi e servizi fotografici che assurge
quindi, in un modo o nell'altro, al ruolo di canone di perfezione
fisica della nostra epoca, incorniciando un pantheon di semidivinità
apparentemente perfette che modellano l'idea di bellezza che
sviluppiamo, ed è un discorso tanto più vero se parliamo di
adolescenti alla ricerca di un'identità che inevitabilmente si
confronteranno con il modello mediatico che viene loro proposto. Per
completare il quadro aggiungiamo ancora che viviamo anni confusi ed
affollati, profondamente plasmati dalle meccaniche dello spettacolo e
dello show business ad ogni livello; basti pensare a come sia ormai
impossibile separare un politico di successo da una campagna
mediatica e di marketing più che efficace. Sotto le luci della
ribalta i contrasti e le ombre sono più profondi di quanto siano
nella realtà, le passioni più violente, gli scontri più aspri, le
gioie più grandi. Inutile dire che un adolescente che inizi a
gettare qualche timida occhiata nel mondo degli adulti ne esca
spaesato; non basta essere persone normali per risaltare (e in un
mondo tutto basato sul visibile è fondamentale essere guardati, pena
la non esistenza sociale) bisogna essere, come ogni protagonista di
una qualche opera narrativa, speciali per qualcosa, e la cosa più
evidente per cui si può essere eccezionali in una fotografia è
l'aspetto, il modo di vestire, l'outfit, il look. Diventa quindi più
comprensibile alla luce di questo l'insoddisfazione che prova Marc
nel definirsi in quel modo contorto normale: non basta essere
normali, bisogna essere bellissimi e fuori dalla norma. I valori morali,
l'intelligenza, le abilità singole non possono essere catturate da
un obbiettivo. Rebecca (Katie Chang), compagna di scuola di Marc e
poi sua migliore amica nonché mente dietro al Bling Ring, è una
ragazza che sente profondamente lo spirito del tempo: è
patologicamente e devotamente ossessionata dallo stardom e dalla
moda, caratteristica più che evidente fin dalla prima inquadratura
che la ritrae nella sua camera, divisa tra lei ed il muro tappezzato
di foto di star sul red carpet, e chiunque abbia seguito nella sua
vita almeno una diretta dal tappeto rosso per un qualunque evento sa
che l'argomento principale sono i vestiti firmati delle star, gli
abbinamenti più o meno azzeccati di scarpe e borsetta, i gioielli.
Come è evidente questi non sono soltanto oggetti ma compongono un
outfit, qualcosa che, almeno per una sera, rappresenterà in toto la
persona che li indossa; l'armatura di un guerriero, o, forse più
propriamente, le vesti di una divinità, guardati con la stessa
adorante devozione. È soltanto una naturale conseguenza di ciò che
nasca in alcuni (e, come abbiamo visto, non a caso si tratta di
adolescenti) il desiderio di possedere i vestiti della divinità, di
sottrarre ad essa la sua magnetica energia a proprio beneficio,
desiderio coadiuvato certamente da un enorme vuoto morale che la
scuola e i genitori non sembrano in grado di colmare. Nel mosaico di
Sofia Coppola i genitori sono presenti solo marginalmente nella vita
dei propri figli, oppure se ci sono, come nel caso della madre
(Leslie Mann) di Nicki e Sam (Emma Watson e Taissa Farmiga), non
possono certo essere considerati validi modelli di riferimento; la
madre in questione distribuisce con una certa frequenza psicofarmaci
alle proprie figlie e le istruisce personalmente a casa seguendo gli
insegnamenti di The Secret, e non dobbiamo peraltro dimenticare che anche lei
è parte di quel micromondo hollywoodiano che ruota intorno alla fama
senza mai arrivarci davvero. Alle rapine seguono lunghi mesi di
eccessi e feste meticolosamente documentate da foto su Facebook («pics or it didn't happen», per l'appunto).
Coppola utilizza più di una volta piani sequenza di campi lunghi per
documentare le imprese della banda: la sensazione è che lo
spettatore si trovi a seguire il punto di vista freddo ed acritico
delle telecamere di sicurezza, rafforzando la sensazione che l'interpretazione sia
lasciata allo spettatore che, per un'ora e mezza, impersona il
giudice del sopracitato tribunale immaginario. La colonna sonora è estremamente
curata e molto attenta a rappresentare efficacemente le ultime
tendenze in voga nei locali; la fotografia è patinata ed
estremamente colorata. Le battute finali del film ed in particolare
la sequenza in cui Marc viene portato in prigione hanno il sapore
amaro di un risveglio da un sogno bellissimo ma irreale, con annessa
la realizzazione delle proprie azioni; una sensazione simile a quella
già riscontrata nel finale di Marie Antoinette, in cui l'addio a
Versailles coincideva con una desolante e tardiva presa di coscienza
da parte della regina (un tempo) bambina che, come i ragazzi di The Bling
Ring, si era ritrovata abbandonata a se stessa. La domanda su cui
dovremmo interrogarci mentre i titoli di coda scorrono e le luci
della sala si accendono è: chi sono i veri colpevoli? È possibile
considerare tali degli adolescenti, irresponsabili per definizione? O
forse, banale da dire ma forse almeno in questo caso vero, le colpe
sono di una società che ha cresciuto e nutrito consumatori più che
esseri umani?
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