mercoledì 2 ottobre 2013

The Bling Ring, ovvero volevo recensire un film ma poi mi sono fatta prendere un pochino la mano

Siamo i figli di mezzo della storia, non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo la Grande Guerra né la Grande Depressione. La nostra Grande Guerra è quella spirituale, la nostra Grande Depressione è la nostra vita. Siamo cresciuti con la televisione che ci ha convinto che un giorno saremmo diventati miliardari, miti del cinema, rock stars. Ma non è così. E lentamente lo stiamo imparando. E ne abbiamo veramente le palle piene!

Fight Club, 1999, David Fincher

Ogni bambina avrà provato almeno una volta, nel corso della propria infanzia, ad indossare le scarpe col tacco della mamma. I vestiti, le scarpe ed i gioielli hanno un potere che tutti istintivamente conosciamo: la capacità di trasformare, di mascherare, di trasfigurare. Sono il metodo più rapido e più facile per cambiare identità, per sentirsi una persona diversa dal nostro a volte noioso sé per un paio d'ore, un giorno od una settimana, oppure per esteriorizzare una rivoluzione dello spirito tutta interiore.
Il potere totemico dei vestiti è ben noto anche ad ogni teenager di questo pianeta. L'adolescenza è il momento di passaggio per eccellenza e mai come allora si sente chiaro e pungente il bisogno di costruirsi, a volte un po' artificiosamente, un'identità ben definita che semplifichi il rapporto con l'esterno e con i propri coetanei e questa costruzione passa necessariamente attraverso quello che si decide di indossare; i vestiti sono l'armatura con cui scegliamo di affrontare il mondo, quel professore che ci odia, quella ragazza veramente carina che ci piace un sacco ma con cui non abbiamo il coraggio di parlare, le prime uscite con gli amici. Proprio degli adolescenti sono i protagonisti principali di The Bling Ring, l'ultimo film di Sofia Coppola presente nel circuito cinematografico italiano dal 26 settembre 2013. Vista l'incredibile e martellante campagna di marketing è forse perfino superfluo accennare alla trama, ma per amor di completezza vi indugiamo giusto il tempo di dire che è un film che parla della vicenda realmente accaduta di una banda di teenagers delle Hollywood Hills che tra il 2008 ed il 2009 si rese responsabile di svariati furti ai danni di giovani divi dello star system americano, intrufolandosi nelle loro residenze e trafugando beni di lusso per un valore complessivo di circa tre milioni di dollari. La giornalista Nancy Jo Sales si è occupata della vicenda ed il suo articolo, The Suspects Wore Louboutins (I sospetti indossavano delle Louboutins), pubblicato da Vanity Fair, ha ispirato Sofia Coppola per la realizzazione del suo film.
La struttura portante del film è giocata lungo due piani temporali che si allineano soltanto nelle scene finali: da una parte i mesi dei furti e degli eccessi, dall'altra le interviste ai singoli componenti della banda svolte dalla giornalista. L'effetto ottenuto intersecando i due piani è quasi quello di assistere ad una lunghissima testimonianza in tribunale in cui il pubblico stesso è chiamato a trarre le proprie conclusioni sulla base di ciò che vede. L'evento da cui il film prende le mosse è l'arrivo di Marc (Israel Broussard) in una nuova scuola dopo essere stato espulso da quella precedente per le troppe assenze; ed è, questo, un evento traumatico per qualunque adolescente. Durante il colloquio con la giornalista il ragazzo parla della sua vita prima del Bling Ring descrivendosi con insoddisfazione come qualcuno non bellissimo, ma nemmeno brutto: in conclusione, una specie di lungo giro di parole per definirsi normale. Sappiamo tutti fin troppo bene che nella nostra società travolta dall'impatto dei nuovi media, del web 2.0 e degli apparecchi digitali diffusi in ogni dove il senso più importante è quello della vista. I social network ne sono l'incarnazione più evidente: un biglietto da visita digitale attraverso il quale chiunque sia ammesso nella cerchia allargata dei nostri amici virtuali può scrutare nelle nostre passioni, frequentazioni e idee. Le foto, come è evidente, hanno un ruolo fondamentale in tutto ciò, rendendo tangibile e credibile la persona dietro il profilo. Uno dei tanti slogan autonomamente prodotti dal web recita «pics or it didn't happen», «foto o non è successo», ovvero, citando l'Urban Dictionary, «A phrase used on Internet forums to counter the vast range of unverifiable claims made by users. Often these claims involve personal brag-worthy accomplishments, extraordinary or rare sights/occurrences, and tales relating to alcohol or drug use». Parlando di società basate sul senso della vista non si può fare a meno di pensare ad un particolare universo sociale che nasce e si sviluppa intorno all'arte della fotografia: quello dello spettacolo con tutti i suoi tappeti rossi e servizi fotografici che assurge quindi, in un modo o nell'altro, al ruolo di canone di perfezione fisica della nostra epoca, incorniciando un pantheon di semidivinità apparentemente perfette che modellano l'idea di bellezza che sviluppiamo, ed è un discorso tanto più vero se parliamo di adolescenti alla ricerca di un'identità che inevitabilmente si confronteranno con il modello mediatico che viene loro proposto. Per completare il quadro aggiungiamo ancora che viviamo anni confusi ed affollati, profondamente plasmati dalle meccaniche dello spettacolo e dello show business ad ogni livello; basti pensare a come sia ormai impossibile separare un politico di successo da una campagna mediatica e di marketing più che efficace. Sotto le luci della ribalta i contrasti e le ombre sono più profondi di quanto siano nella realtà, le passioni più violente, gli scontri più aspri, le gioie più grandi. Inutile dire che un adolescente che inizi a gettare qualche timida occhiata nel mondo degli adulti ne esca spaesato; non basta essere persone normali per risaltare (e in un mondo tutto basato sul visibile è fondamentale essere guardati, pena la non esistenza sociale) bisogna essere, come ogni protagonista di una qualche opera narrativa, speciali per qualcosa, e la cosa più evidente per cui si può essere eccezionali in una fotografia è l'aspetto, il modo di vestire, l'outfit, il look. Diventa quindi più comprensibile alla luce di questo l'insoddisfazione che prova Marc nel definirsi in quel modo contorto normale: non basta essere normali, bisogna essere bellissimi e fuori dalla norma. I valori morali, l'intelligenza, le abilità singole non possono essere catturate da un obbiettivo. Rebecca (Katie Chang), compagna di scuola di Marc e poi sua migliore amica nonché mente dietro al Bling Ring, è una ragazza che sente profondamente lo spirito del tempo: è patologicamente e devotamente ossessionata dallo stardom e dalla moda, caratteristica più che evidente fin dalla prima inquadratura che la ritrae nella sua camera, divisa tra lei ed il muro tappezzato di foto di star sul red carpet, e chiunque abbia seguito nella sua vita almeno una diretta dal tappeto rosso per un qualunque evento sa che l'argomento principale sono i vestiti firmati delle star, gli abbinamenti più o meno azzeccati di scarpe e borsetta, i gioielli. Come è evidente questi non sono soltanto oggetti ma compongono un outfit, qualcosa che, almeno per una sera, rappresenterà in toto la persona che li indossa; l'armatura di un guerriero, o, forse più propriamente, le vesti di una divinità, guardati con la stessa adorante devozione. È soltanto una naturale conseguenza di ciò che nasca in alcuni (e, come abbiamo visto, non a caso si tratta di adolescenti) il desiderio di possedere i vestiti della divinità, di sottrarre ad essa la sua magnetica energia a proprio beneficio, desiderio coadiuvato certamente da un enorme vuoto morale che la scuola e i genitori non sembrano in grado di colmare. Nel mosaico di Sofia Coppola i genitori sono presenti solo marginalmente nella vita dei propri figli, oppure se ci sono, come nel caso della madre (Leslie Mann) di Nicki e Sam (Emma Watson e Taissa Farmiga), non possono certo essere considerati validi modelli di riferimento; la madre in questione distribuisce con una certa frequenza psicofarmaci alle proprie figlie e le istruisce personalmente a casa seguendo gli insegnamenti di The Secret, e non dobbiamo peraltro dimenticare che anche lei è parte di quel micromondo hollywoodiano che ruota intorno alla fama senza mai arrivarci davvero. Alle rapine seguono lunghi mesi di eccessi e feste meticolosamente documentate da foto su Facebook («pics or it didn't happen», per l'appunto). Coppola utilizza più di una volta piani sequenza di campi lunghi per documentare le imprese della banda: la sensazione è che lo spettatore si trovi a seguire il punto di vista freddo ed acritico delle telecamere di sicurezza, rafforzando la sensazione che l'interpretazione sia lasciata allo spettatore che, per un'ora e mezza, impersona il giudice del sopracitato tribunale immaginario. La colonna sonora è estremamente curata e molto attenta a rappresentare efficacemente le ultime tendenze in voga nei locali; la fotografia è patinata ed estremamente colorata. Le battute finali del film ed in particolare la sequenza in cui Marc viene portato in prigione hanno il sapore amaro di un risveglio da un sogno bellissimo ma irreale, con annessa la realizzazione delle proprie azioni; una sensazione simile a quella già riscontrata nel finale di Marie Antoinette, in cui l'addio a Versailles coincideva con una desolante e tardiva presa di coscienza da parte della regina (un tempo) bambina che, come i ragazzi di The Bling Ring, si era ritrovata abbandonata a se stessa. La domanda su cui dovremmo interrogarci mentre i titoli di coda scorrono e le luci della sala si accendono è: chi sono i veri colpevoli? È possibile considerare tali degli adolescenti, irresponsabili per definizione? O forse, banale da dire ma forse almeno in questo caso vero, le colpe sono di una società che ha cresciuto e nutrito consumatori più che esseri umani?