Crimson Peak (Del Toro, 2015) è uno di
quei film di cui, più che la trama, si apprezza – per così dire –
l'artigianato. La vicenda di cui è protagonista Edith (Mia
Wasikowska) amalgama elementi e tòpoi tipici dei grandi romanzi di
epoca vittoriana, come Jane Eyre e Dracula, certamente avendo cura per il dettaglio e per le sfumature ma apparentemente senza
evolvere in un racconto più grande od affascinante come succedeva ne
Il labirinto del fauno (El laberinto del fauno, Del Toro, 2006).
Guillermo Del Toro si relaziona alle sue fonti nelle vesti di devoto
epigono, costruendo attorno alla sceneggiatura una messa in scena
sontuosa. Si è molto parlato dell'uso dei colori in Crimson Peak,
ispirato ai film in Technicolor di Mario Bava, ed in effetti, a meno
che non si sia daltonici, in un periodo in cui il cinema mainstream
ci ha assuefatto alla visione di mondi perennemente immersi in spenti
toni desaturati, i rossi sanguigni, i neri vellutati, i purissimi
bianchi, i blu profondi, le sfumature malaticce di verde e le calde
e confortevoli gradazioni di seppia sono un vero piacere per gli
occhi (oltre ad essere usati intelligentemente dal punto di vista
narrativo). Le prove attoriali ci paiono tutte molto buone e il
profilo affilato di Tom Hiddleston (chiamato a rimpiazzare Benedict
Cumberbatch) si adatta perfettamente al ruolo dell'affascinante e
cupo straniero. L'intricata scenografia di Allerdale Hall
(completamente costruita senza l'ausilio della computer grafica) ha
qualcosa di vivo e di pulsante che inquieta ed allo stesso tempo
attrae; aspettarsi del realismo da un tale edificio, i cui recessi
oscuri rimandano a quelli ben più spaventosi dell'animo umano, è
del tutto fuori luogo. Il suo lento sprofondare nell'argilla rossa
(ovviamente un segnale sinistro), che filtra in mezzo alle mattonelle e
invade le tubature, è forse una delle idee più accattivanti del
film. I fantasmi, in fondo, sono poco altro che ombre grottesche,
emanazioni di persone vittime di eventi luttuosi che sembrano
riemergere dal terreno, dai muri stessi.
L'unica nota davvero negativa è il montaggio dei trailer, che riesce nel non
facile compito di spoilerare quasi tutte le scene più importanti del
film; da parte nostra, speriamo che l'approccio scelto da J. J.
Abrams per i trailer di Star Wars: Il risveglio della Forza (Star
Wars: The Force Awakens, J. J. Abrams, 2015), ovvero un montaggio
atmosferico e non narrativo, sia seguito da sempre più registi,
produttori e specialisti di marketing.
venerdì 30 ottobre 2015
venerdì 16 ottobre 2015
Suburra (Stefano Sollima, 2015)
Suburra (Stefano Sollima, 2015) è un
lungo, rumoroso addensarsi di nuvole nere che promettono una tempesta
di dimensioni inenarrabili; alla fine, però, quello che cade dal
cielo è solo un acquazzone estivo. Le vicende rappresentate, pur
essendo del tutto fittizie, sono pesantemente ispirate a recenti
fatti di cronaca italiana ed in questo, in linea teorica, non ci
sarebbe nulla di male; ma la mano che descrive e gestisce gli
avvenimenti è pesante e poco accurata, ed alla rielaborazione
narrativa preferisce un collage di articoli di giornale che manca di
approfondimento. Si potrebbe argomentare dicendo che la realtà è in
sé irrappresentabile, in quanto composta da innumerevoli sfumature
che il solo occhio della macchina da presa, per quanto accurato, non
può supporre di cogliere; ed è chiaro quindi che, se ad un racconto
che, pur prendendo le mosse dalla realtà, la utilizza per tracciare
un suo disegno personale se ne preferisce uno che da questa è in
tutto e per tutto dipendente senza cercare l'affrancamento, il mondo
reale finisce per risultare molto più interessante ed imprevedibile
della sua pallida imitazione, condannata a ripetere pedissequamente
quanto già detto, già visto, già vissuto. I personaggi sono sagome
da poligono di tiro, immagini bidimensionali, così ricalcate su
persone realmente esistenti da sembrare dei sostituti – gli
originali saranno stati impegnati in una puntata di Porta a porta –
con delle capacità recitative più che buone; ci sarebbero le
potenzialità per sviluppare delle personalità interessanti – il
mondo criminale ha sempre il suo fascino, dopotutto – ma non si
rischia un'immersione in profondità, si naviga a pelo d'acqua e
senza usare il sonar. Ci sono molti modi con cui è possibile mettere
in scena un politico corrotto e con passioni pericolose, un
capofamiglia mafioso, un reuccio di città con le mani in pasta
ovunque, un uomo meschino senza arte né parte: Sollima, parandosi
dietro lo scudo dell'attualità, sceglie di farlo nel modo più
scarno e banale possibile, appiattendo i personaggi fino a farli
diventare maschere che non ci spaventano né ci interessano più. La
realtà, l'abbiamo già detto, ci ha abituato a mostri peggiori e più
affascinanti. L'idea di fondo sembrerebbe essere quella di
rappresentare un mondo senza più speranze, a pochi giorni dalla
fine: il risultato, invece di essere ipnotico e piacevolmente
velenoso, finisce per assomigliare ad un unico tasto ribattuto
impunemente per due ore e dieci minuti. Tutto è malvagio, nulla può essere
salvato, nulla può essere fatto se non aspettare che arrivi il
giorno del giudizio, lasciandosi trascinare dalla corrente di una
trama che non nasconde e non rivela ma che semplicemente si snoda
senza sorprese, navigazione lungo la costa. L'eliminazione delle
forze dell'ordine, che nel romanzo da cui Suburra è tratto
apparivano in forze – almeno, così si legge in giro – è, con
tutta la buona volontà dell'universo, ingiustificabile: si elimina
così il polo opposto dello schieramento, si annulla il conflitto nel
tentativo di rafforzare la rappresentazione di una dannazione eterna
che suona, proprio per questo, ancora più artificiale. Sommerge il
tutto una gran quantità di grigia pioggia torrenziale, che ci
verrebbe la tentazione di definire un cliché, e una colonna sonora
che, se in alcuni punti è accettabile, in altri finisce per
soffocare irragionevolmente il film sotto una patina falsamente
introspettiva. Se questo è un esempio del migliore cinema di
intrattenimento che l'industria italiana riesce a proporre, la strada
per arrivare a dei prodotti validi ed internazionalmente competitivi
ci pare ancora piuttosto lunga.
venerdì 9 ottobre 2015
The Martian – Sopravvissuto (Ridley Scott, 2015)
The Martian – Sopravvissuto (Ridley
Scott, 2015) ricorda un vestito di sartoria: le cuciture sono curate,
i tessuti pregiati, e gli si perdona volentieri qualche banalità nella sceneggiatura,
controbilanciata sul campo visivo da scelte tutt'altro che antiquate,
come il passaggio dalla diretta tv alla realtà della sala stampa in
un unico carrello, o le sovraimpressioni che informano gli spettatori dei nomi e
del ruolo di alcuni personaggi velocemente e conservando minutaggio e
battute per altri e più interessanti passaggi. L'occhio esperto di
Ridley Scott emerge nel contrasto tra i primi e primissimi piani dei
volti degli attori – Matt Damon, per ovvie ragioni, su tutti – e
i campi lunghissimi dedicati alla superficie di Marte, un deserto di
sabbia e rocce aranciate, memore forse di quella Monument Valley che
nei decenni passati ha costituito lo sfondo di innumerevoli altre avventure
di cavalieri solitari. Qualcuno, del resto, aveva già supposto da
tempo una possibile affinità tra il cinema fantascientifico moderno
ed il western:
[…] la profondità spaziale continua a non essere troppo distante dalle lande desolate del cinema western, un luogo talmente straniante da confinare con il mistico, l'ultimo rimasto in cui esista ancora la concreta sensazione che tutto possa accadere, in cui si avverte la presenza dell'ignoto e quindi in grado di mettere alla prova l'essenza stessa dell'essere umani.
http://www.mymovies.it/film/2013/gravity/
C'è qualcosa di rassicurante nei
disperati tentativi di sopravvivenza di Gravity (Alfonso Cuarón,
2013), Interstellar (Christopher Nolan, 2014) e The Martian –
Sopravvissuto; una purificazione catartica, una celebrazione
dell'umana capacità di adattamento e resistenza che pare richiamare,
in controluce, i grandi problemi – ecologici e sociali – della
Terra del ventunesimo secolo. Contro ogni possibilità e previsione,
anche di fronte ad ostacoli apparentemente insormontabili, sapremo
cavarcela come sempre abbiamo fatto perché, nonostante tutto, siamo
pieni di risorse, di intelligenza, di passione, di sentimento. Non
c'è da stupirsi, quindi, se nel film di Ridley Scott abbonda
l'ironia, lungi dall'essere presente soltanto in quanto ultima moda
cinematografica sulla scia dei cinecomic Marvel: non c'è sentimento
più umano del riso, scudo all'assurdità e alla violenza del mondo
(dell'universo, in questo caso) e ultimo baluardo della ragione.
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