martedì 12 aprile 2016

Lo chiamavano Jeeg Robot (Gabriele Mainetti, 2015)


Una recensione ha sempre molto di soggettivo; nel giudizio rientrano inevitabilmente la particolare sensibilità, gli interessi specifici ed i punti di vista sul mondo di chi scrive. Quando vediamo un film tendiamo ad assorbirlo tramite le nostre precedenti esperienze e le idee che portiamo con noi dalla realtà. Questo ovviamente non significa che non sia possibile avere alcuna base oggettiva: una conoscenza, preferibilmente un po' approfondita e sempre aggiornata, dell'argomento può aiutare a trovare una prospettiva abbastanza equilibrata. Pensare, tuttavia, di poter liberare il proprio sguardo da sé stessi e dal proprio posto – economico, sociale, psicologico – nel mondo è, per quanto mi riguarda, pura utopia. Leggendo una recensione cerco sempre di farmi un'idea delle posizioni, più o meno generali, del recensore, per capire come rapportare il suo giudizio al mio. È chiaro che se un appassionato di film indipendenti francesi vede un blockbuster americano il suo parere sarà molto diverso da quello che potrò formarmi io, che sono cresciuta a pane e videocassetta di Jurassic Park. Oppure, una persona con tratti caratteriali opposti ai miei difficilmente noterà le stesse cose che cattureranno la mia attenzione in una pellicola. Quello che dovrebbe fare una recensione, in fondo, non è solo valutare se un film è o meno meritevole di essere visto (se mi interessa davvero andrò comunque al cinema), ma soprattutto fornire un punto di vista diverso e capace di arricchire quello del lettore – certo, un'impresa non sempre facile.
L'interesse attorno a Lo chiamavano Jeeg Robot è sempre stato alto, sin da molto prima che uscisse effettivamente nei cinema: un film di supereroi ambientato a Roma e prodotto da italiani non poteva che far parlare di sé.
Ho notato una certa tendenza nei pareri sulle opere molto attese: tendono ad essere estremamente positivi o estremamente negativi, senza vie di mezzo. Non so dire esattamente quali siano le ragioni di questo fenomeno: di certo c'è solo che ciò inevitabilmente falsa le opinioni, allontanandole dall'oggetto della discussione e avvicinandole, forse, alle aspettative, soddisfatte o deluse, del soggetto che ne fa esperienza. Nel caso di Lo chiamavano Jeeg Robot il motivo dell'ondata quasi unanime di recensioni totalmente positive può essere probabilmente cercato nella voglia, comprensibilmente spasmodica, di credere che in Italia sia possibile realizzare film di puro intrattenimento che non siano commedie romantiche o simili.


Dunque, fatta questa lunghissima premessa, com'è Lo chiamavano Jeeg Robot una volta liberato dai desideri che il suo pubblico tende a sovrimporgli come un filtro di Instagram? Diciamolo subito: non è affatto un film perfetto. La regia di Mainetti, al suo primo lungometraggio, è ancora piuttosto acerba, spesso inquadra le azioni senza dar loro un senso ulteriore, e il ritmo narrativo è piuttosto altalenante: la sceneggiatura avrebbe avuto bisogno ancora di qualche riscrittura e una durata di novanta minuti invece che di quasi due ore avrebbe reso la vicenda più coesa e strutturata. Quello che riesce meglio a questo piccolo film, e non è poca cosa, è creare dei personaggi: su tutti spicca lo Zingaro del bravissimo Luca Marinelli che pur essendo, in fondo, un coacervo di tipiche caratteristiche da antagonista, è ben definito, il che non è per nulla scontato nel panorama italiano dove generalmente si tende ad adagiarsi su stereotipi da Commedia dell'Arte (come era il caso, purtroppo, anche di Suburra). Claudio Santamaria sfoggia un'unica espressione per quasi tutto il film e, contro ogni aspettativa, riesce così a comunicare chiaramente l'apatia e l'indifferenza del protagonista Enzo, che vive alla giornata in una stamberga, nutrendosi di yogurt e sostentandosi con piccoli furti. Anche Alessia, la ragazza mentalmente disturbata ed ossessionata da Jeeg robot d'acciaio interpretata da Ilenia Pastorelli, pur rischiando di apparire fin troppo sopra le righe è dopotutto un buon personaggio di cui viene suggerito un passato traumatico. La trama, seppure un po' sfilacciata, dopotutto funziona. Gli effetti speciali digitali inseriti qua e là nel film non sono, ovviamente, della stessa qualità di quelli di un blockbuster hollywoodiano, e si vede: bisogna pur riconoscere, del resto, che certamente il budget era infinitamente inferiore, e perciò non si può essere poi troppo severi. Quelli realizzati sul set, invece, pur essendo estremamente semplici (in alcuni casi, come il buco di proiettile sulla spalla di Enzo, fin troppo), svolgono il loro lavoro anche grazie al tono tra lo splatter e l'ironico delle scene in cui appaiono: certe gag regalano una risata sincera


In fondo, si potrebbe supporre che quello che manca a Lo chiamavano Jeeg Robot è il peso e la guida di una produzione più industriale sul modello americano che in Italia, pare di capire, non è né particolarmente apprezzata né diffusa; e se è vero che c'è il rischio che si riveli un freno per l'estro artistico dei talenti coinvolti, messa in campo con l'ottica giusta potrebbe essere il motore che spinge una storia con del potenziale a dare il meglio di sé artisticamente e commercialmente. Per quanto a queste latitudini non ci piaccia ricordarlo, del resto, il cinema è forse, più che un'arte, soprattutto una grande industria a metà tra tecnologia e creatività


Personalmente voglio guardare a Lo chiamavano Jeeg Robot come a un punto di partenza; molto può essere migliorato ed affinato, siamo solo all'inizio di una ripida salita, ma ci sono le premesse per un buon futuro, che è quanto di più ottimista abbia mai detto sul cinema italiano. L'opera prima di Mainetti ha dimostrato che si può pensare e realizzare un buon film per il pubblico con dei personaggi costruiti più alla maniera statunitense che italiana, esulando dagli schemi tipici della commedia e del dramma sentimentale senza che per questo la pellicola si riveli un'operazione economicamente fallimentare: ora tocca agli operatori del settore dimostrare di aver recepito il messaggio


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