mercoledì 6 aprile 2016

Ex Machina (Alex Garland, 2015)


Infondere la vita nella materia inanimata è, nei racconti del fantastico e dell'orrore, sempre una faccenda rischiosa. Ex Machina, opera prima scritta e diretta da Alex Garland, si pone nel solco di una lunga tradizione che va avanti almeno dall'epoca della rivoluzione scientifica, quando ai progressi apparentemente inarrestabili della scienza si accostò un'inquietudine più o meno manifesta sulle conseguenze di tante e tali incredibili scoperte, qualora non sfruttate con saggezza.
Un giovane programmatore, Caleb Smith (Domhnall Gleeson), vince il primo premio della lotteria aziendale, che consiste nel passare una settimana con il suo capo, Nathan Bateman (Oscar Isaac), uno sregolato genio dell'informatica, creatore del motore di ricerca più utilizzato al mondo, Blue Book, il cui nome è ripreso da una raccolta di lezioni del filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein sul linguaggio. I riferimenti a Google ed al suo sistema operativo, Android, sono palesi. Caleb scopre ben presto il vero motivo del suo arrivo nella remota tenuta di Nathan, immersa nel verde di una foresta tra le montagne: il secondo è infatti riuscito a creare una intelligenza artificiale, chiamata Ava (Alicia Wikander), e vuole che il primo la saggi tramite la conversazione in una specie di test di Turing, per determinare se il suo tentativo sia effettivamente stato un successo e la macchina sia dotata di una coscienza propria. Accettando di partecipare all'esperimento, Caleb si ritroverà inserito nei meccanismi di un ingranaggio il cui funzionamento non è quello che sembra, e cercherà di scoprire cosa si cela dietro le misteriose parole di Ava, che gli intima di non fidarsi del ricco magnate alcolizzato.


Nella struttura di Ex Machina possono essere ritrovati, guardando in controluce, molteplici richiami ad opere del passato più o meno recente: tanto per cominciare, Frankenstein, o il moderno Prometeo («È prometeico, fratello» biascica Nathan stordito dai fumi dell'alcol) di Mary Shelley, poi La tempesta di Shakespeare, il mito della caverna di Platone, la favola di Barbablù, forse anche L'uomo della sabbia di E.T.A. Hoffman. La figura dell'automa o del robot femminile presenta, peraltro, una certa ricorrenza sullo schermo cinematografico, a partire dalla falsa Maria di Metropolis (Fritz Lang, 1927), ideale capostipite di tanti altri uomini di latta, anche del molto meno inquietante C-3PO nella saga di Star Wars, non a caso, forse, di genere maschile. L'immagine della donna robotica è infatti, almeno ai miei occhi, l'espressione visiva di una irriducibile differenza, un'altra da sé che gli uomini protagonisti osservano affascinati e spaventati, più spesso vittime che carnefici. Il fatto che il tema iniziale di Ava, tenero e leggero, ricordi, all'insaputa o meno dei suoi stessi compositori, quello utilizzato dagli alieni per comunicare con gli umani in Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, Steven Spielberg, 1977) appare del tutto appropriato. La macchina femminile si aggira dietro le pareti di vetro della sua stanza come una tigre in gabbia, soltanto apparentemente priva di armi a suo favore. In effetti, ad essere confinato in uno spazio ristretto è piuttosto Caleb, infilato in un piccolo cubicolo separato dalla spaziosa stanza di Ava: un sottile indizio che ci spinge discretamente a chiederci chi dei due sia, in realtà, il prigioniero.


Non pare facile mantenere sempre alta la tensione in un thriller sci-fi popolato da tre soli personaggi parlanti (più uno muto) e composto quasi interamente da scene di dialogo piuttosto statiche: Ex Machina ci riesce. Le battute sono costruite con acume e recitate con capacità, espongono ipotesi e problemi scientifici senza diventare mai pesanti ma, anzi, riuscendo sempre a donare allo spettatore ulteriore conoscenza sui personaggi e sulle loro idee. Le descrizioni, infatti, sono ridotte al minimo: tutto quello che apprendiamo sulla situazione ci arriva dalla voce dei personaggi, evitando qualunque tipo di esposizione che potrebbe far calare l'attenzione sulle scene successive. Ci muoviamo all'interno di un puzzle i cui pezzi ci sono rivelati uno ad uno, senza alcuna fretta. La regia è pulita ed essenziale come il design di un prodotto Apple, e la fotografia esalta spesso, tra l'imperante grigio, bianco e nero della villa di Nathan, il blu, il verde ed il rosso, non certo un caso, visto che sono i tre colori che danno il nome al modello RGB (Red Green Blue), uno di quelli più usati globalmente per gestire e utilizzare le tinte su computer.


Gli effetti speciali per cui il film ha ottenuto il premio Oscar questo febbraio sfruttano al meglio un budget infinitamente più piccolo rispetto a quello dei suoi avversari (Star Wars: Il risveglio della Forza e Mad Max: Fury Road, per citarne solo due), volgendosi al minimalismo e inserendosi così bene all'interno del film da non essere percepiti come elementi estranei. Se per caso vi venisse la curiosità di cercare un making of di Ex Machina, inoltre, rimarrete stupiti dall'apprendere come sul set non siano mai stati usati chroma key o tutine verdi. Gli unici punti usati come riferimento dagli animatori per inserire le parti robotiche nel corpo di Alicia Vikander, ricreandone i movimenti, sono le piccole borchie poste sulle caviglie e i polsi di Ava. La colonna sonora accompagna la visione in equilibrio tra rumore e melodia, sbilanciandosi spesso in favore del primo, senza diventare spiacevole ma aggiungendo l'ultimo strato all'opera.


Concludendo, Ex Machina è un film dalla struttura in superficie semplice, profondamente ricamato di richiami ed allusioni, pieno di lunghi dialoghi e avvolto nell'inquietudine, in grado di mantenere la tensione e l'equilibrio narrativo; i pochi strumenti messi sul tavolo, che avrebbero potuto facilmente ritorcersi contro lo stesso Alex Garland sfiorando la monotonia, vengono sfruttati al meglio non permettendo mai che cali la suspense, e l'unione di tutte le parti ci offre un'ottima storia di mistero e fantascienza che certamente merita almeno una visione.

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