Lo chiamavano Jeeg Robot (Gabriele Mainetti, 2015)
Una recensione ha sempre molto di
soggettivo; nel giudizio rientrano inevitabilmente la particolare
sensibilità, gli interessi specifici ed i punti di vista sul mondo
di chi scrive. Quando vediamo un film tendiamo ad assorbirlo tramite
le nostre precedenti esperienze e le idee che portiamo con noi dalla
realtà. Questo ovviamente non significa che non sia possibile avere
alcuna base oggettiva: una conoscenza, preferibilmente un po'
approfondita e sempre aggiornata, dell'argomento può aiutare a
trovare una prospettiva abbastanza equilibrata. Pensare, tuttavia, di
poter liberare il proprio sguardo da sé stessi e dal proprio posto –
economico, sociale, psicologico – nel mondo è, per quanto mi
riguarda, pura utopia. Leggendo una recensione cerco sempre di farmi
un'idea delle posizioni, più o meno generali, del recensore, per
capire come rapportare il suo giudizio al mio. È chiaro che se un
appassionato di film indipendenti francesi vede un blockbuster
americano il suo parere sarà molto diverso da quello che potrò
formarmi io, che sono cresciuta a pane e videocassetta di Jurassic
Park. Oppure, una persona con tratti caratteriali opposti ai miei
difficilmente noterà le stesse cose che cattureranno la mia
attenzione in una pellicola. Quello che dovrebbe fare una recensione,
in fondo, non è solo valutare se un film è o meno meritevole di
essere visto (se mi interessa davvero andrò comunque al cinema), ma
soprattutto fornire un punto di vista diverso e capace di arricchire
quello del lettore – certo, un'impresa non sempre facile.
L'interesse attorno a Lo chiamavano
Jeeg Robot è sempre stato alto, sin da molto prima che uscisse
effettivamente nei cinema: un film di supereroi ambientato a Roma e
prodotto da italiani non poteva che far parlare di sé.
Ho notato una
certa tendenza nei pareri sulle opere molto attese: tendono ad essere
estremamente positivi o estremamente negativi, senza vie di mezzo.
Non so dire esattamente quali siano le ragioni di questo fenomeno: di
certo c'è solo che ciò inevitabilmente falsa le opinioni,
allontanandole dall'oggetto della discussione e avvicinandole, forse,
alle aspettative, soddisfatte o deluse, del soggetto che ne fa
esperienza. Nel caso di Lo chiamavano Jeeg Robot il motivo
dell'ondata quasi unanime di recensioni totalmente positive può
essere probabilmente cercato nella voglia, comprensibilmente
spasmodica, di credere che in Italia sia possibile realizzare film di
puro intrattenimento che non siano commedie romantiche o simili.
Dunque, fatta questa lunghissima
premessa, com'è Lo chiamavano Jeeg Robot una volta liberato dai
desideri che il suo pubblico tende a sovrimporgli come un filtro di
Instagram? Diciamolo subito: non è affatto un film perfetto. La
regia di Mainetti, al suo primo lungometraggio, è ancora piuttosto
acerba, spesso inquadra le azioni senza dar loro un senso ulteriore,
e il ritmo narrativo è piuttosto altalenante: la sceneggiatura
avrebbe avuto bisogno ancora di qualche riscrittura e una durata di
novanta minuti invece che di quasi due ore avrebbe reso la vicenda
più coesa e strutturata. Quello che riesce meglio a questo piccolo
film, e non è poca cosa, è creare dei personaggi: su tutti spicca
lo Zingaro del bravissimo Luca Marinelli che pur essendo, in fondo,
un coacervo di tipiche caratteristiche da antagonista, è ben
definito, il che non è per nulla scontato nel panorama italiano dove
generalmente si tende ad adagiarsi su stereotipi da Commedia
dell'Arte (come era il caso, purtroppo, anche di Suburra). Claudio
Santamaria sfoggia un'unica espressione per quasi tutto il film e,
contro ogni aspettativa, riesce così a comunicare chiaramente
l'apatia e l'indifferenza del protagonista Enzo, che vive alla
giornata in una stamberga, nutrendosi di yogurt e sostentandosi con
piccoli furti. Anche Alessia, la ragazza mentalmente disturbata ed
ossessionata da Jeeg robot d'acciaio interpretata da Ilenia
Pastorelli, pur rischiando di apparire fin troppo sopra le righe è
dopotutto un buon personaggio di cui viene suggerito un passato traumatico. La trama, seppure un po' sfilacciata,
dopotutto funziona. Gli effetti speciali digitali inseriti qua e là
nel film non sono, ovviamente, della stessa qualità di quelli di un
blockbuster hollywoodiano, e si vede: bisogna pur riconoscere, del
resto, che certamente il budget era infinitamente inferiore, e perciò
non si può essere poi troppo severi. Quelli realizzati sul set,
invece, pur essendo estremamente semplici (in alcuni casi, come il
buco di proiettile sulla spalla di Enzo, fin troppo), svolgono il
loro lavoro anche grazie al tono tra lo splatter e l'ironico delle
scene in cui appaiono: certe gag regalano una risata sincera.
In fondo, si potrebbe supporre che
quello che manca a Lo chiamavano Jeeg Robot è il peso e la guida di
una produzione più industriale sul modello americano che in Italia,
pare di capire, non è né particolarmente apprezzata né diffusa; e
se è vero che c'è il rischio che si riveli un freno per l'estro
artistico dei talenti coinvolti, messa in campo con l'ottica giusta
potrebbe essere il motore che spinge una storia con del potenziale a
dare il meglio di sé artisticamente e commercialmente. Per quanto a
queste latitudini non ci piaccia ricordarlo, del resto, il cinema è
forse, più che un'arte, soprattutto una grande industria a metà tra
tecnologia e creatività.
Personalmente voglio guardare a Lo
chiamavano Jeeg Robot come a un punto di partenza; molto può essere
migliorato ed affinato, siamo solo all'inizio di una ripida salita,
ma ci sono le premesse per un buon futuro, che è quanto di più
ottimista abbia mai detto sul cinema italiano. L'opera prima di
Mainetti ha dimostrato che si può pensare e realizzare un buon film
per il pubblico con dei personaggi costruiti più alla maniera statunitense che italiana, esulando dagli schemi tipici della commedia e
del dramma sentimentale senza che per questo la pellicola si riveli
un'operazione economicamente fallimentare: ora tocca agli operatori
del settore dimostrare di aver recepito il messaggio.
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