martedì 17 febbraio 2015

Levin e Polanski, ovvero di chi è il bambino di Rosemary

L'opinione comune generalmente sostiene che «il libro è sempre meglio del film» ma, personalmente, trovo che sia un punto di vista un po' troppo rigido. Un'opera d'ingegno (non necessariamente d'arte) vive nel momento in cui viene rielaborata, analizzata, reinterpretata; altrimenti, come tutte le cose che rifiutano di evolvere, muore. La prima forma che essa assume è sempre ed indiscutibilmente la migliore? Prendiamo ad esempio Rosemary's Baby, romanzo di Ira Levin pubblicato nel 1966 e poi trasposto in lungometraggio sotto la direzione di Roman Polanski, appena giunto in territorio americano, nel 1968.
Secondo la mia modesta opinione, il romanzo ha il grande pregio di avere un'ottima idea di fondo (debitrice sicuramente dello zeitgeist) che tuttavia finisce per essere castrata dal fatto stesso di essere espressa in una forma letteraria. Tralasciando del tutto l'aspetto stilistico, impossibile da analizzare in una traduzione che (almeno per quanto riguarda l'edizione in mio possesso) sospetto non essere delle migliori, l'atmosfera di suspense del romanzo è soffocata dai pensieri riportati di Rosemary e dalla struttura analitica della prosa, che non lascia spazio all'indeterminatezza in cui i brividi prosperano. Le parole - perlomeno nell'utilizzo che ne fa Ira Levin - tendono a circoscrivere, a concludere, e così facendo illuminano spazi che piuttosto trarrebbero maggior vantaggio dal restare in ombra. Ciò non vuol dire che la storia non sia avvincente o che il romanzo sia una lettura noiosa (dopotutto, è anche molto breve), ma semplicemente che all'occhio del lettore che abbia visto precedentemente il film del cineasta polacco è chiaramente evidente come la vicenda di Rosemary e del suo neonato non sia pienamente valorizzata dalla forma romanzo. Polanski (sceneggiatore oltre che regista) non modifica né reinterpreta l'intreccio ma piuttosto con il suo stile essenziale, analitico e crudele corregge i difetti letterari con pregi del tutto cinematografici. L'ingombrante voce interiore di Rosemary è quasi del tutto eliminata, contribuendo a dotare la vicenda di una ambiguità che amplifica il senso claustrofobico di disagio e paranoia che, fino alla fine, resta sospeso nell'aria, ai margini dell'immagine: ciò è particolarmente riscontrabile nella sequenza dello stupro, memorabile ed inquietante, durante la quale lo spettatore vede con gli occhi e con i sensi della protagonista - ma non in soggettiva, mantenendo una certa distanza - piuttosto che leggere una descrizione della sua esperienza, trattenendo in misura molto maggiore il senso di spaesamento, o ancora nella magistrale scena finale che lavora per sottrazione a partire dalle pagine del romanzo, mostrando il minimo possibile (il neonato non entra mai direttamente in campo) e lasciando che il terrore si formi e si coaguli nella mente, piuttosto che nella retina, dello spettatore. Tutto ciò è reso possibile in larga misura dalla natura visiva del medium cinematografico, che può, spesso e volentieri, fare a meno delle parole. Anche accadimenti minimi del libro, come lo spuntino a base di cuore di pollo, assumono un'importanza molto maggiore ed esprimono in modo sensibilmente più forte la loro carica disturbante, aiutati da una fotografia e da una regia fredda e mai troppo calcata - anzi, estremamente calcolata. È indubbio che, se Rosemary's Baby è assurto a caposaldo di quel fecondo sottogenere dell'horror che preferisce suggerire invece di mostrare, gran parte del merito sia da attribuire all'occhio e alla mente di Roman Polanski.   

Nessun commento:

Posta un commento