PRESENTE, ovvero: American Horror Story, svariate migliaia di anni dopo
Una necessaria premessa: non possiedo i diritti di American Horror Story ed ho scritto questa storia soltanto per esercizio e per diletto.
PRESENTE
PRESENTE
Violet osservava corrucciata il cielo innaturalmente pallido: era sicura che quel bianco accecante le avrebbe fatto lacrimare gli occhi se i suoi dotti lacrimali non fossero stati soltanto l'ombra di quelli che un tempo possedeva. Dalle finestre frantumate non passava nemmeno un filo d'aria; tutto era immobile, come in attesa. La temperatura, per quel che poteva dedurne una pallida immagine di essere umano come lei, sembrava leggermente più alta della media. Desiderò allora più che in ogni altro momento che il suo computer non avesse smesso di funzionare: avrebbe potuto cercare di capire qualcosa su quell'atmosfera così strana. Ormai tutto all'interno della casa, compresi i suoi abitanti, era distrutto e abbandonato.
Era un processo
iniziato molto tempo prima. Moira aveva avuto perfettamente ragione
quando le aveva detto che all'interno della casa degli omicidi era
difficile tener conto dello scorrere del tempo. Nessuno consegnava i
giornali, nessuno passava a prendere il latte, nessuno bussava alla
porta. Tutti loro potevano uscire soltanto un giorno all'anno.
All'inizio, tuttavia, l'isolamento a cui erano stati condannati era
stato meno duro: dopo la dipartita della sua famiglia la casa era
rimasta in vendita per circa un decennio e il metodo ideato da sua
madre e dalla ex cameriera per salvare altri dal destino che li aveva
colti aveva funzionato perfettamente; i possibili acquirenti avevano
iniziato a diradarsi sempre di più, spaventati dai resoconti delle
terribili nottate passate dagli aspiranti inquilini. Naturalmente i
media avevano nutrito un rinnovato interesse nei confronti della casa
e, oltre ai numerosi curiosi che avevano continuato ad affollare il
bus che narrava, tra gli altri orrori, anche le vicissitudini dello
stabile, molte troupe televisive avevano chiesto all'agenzia
immobiliare il permesso di effettuare delle riprese, la quale era
stata ovviamente più che soddisfatta di poter ricavare qualcosa da
uno stabile così infruttuoso.
L'arrivo dei tecnici
per la sistemazione di luci e telecamere della prima emittente ad
essersi aggiudicata il permesso aveva innescato una vivace
discussione tra gli abitanti in grado di sostenerla: alcuni avrebbero
voluto terrorizzare gli intrusi per divertirsi un po', altri
ritenevano più ragionevole non lasciare che filmassero nulla di
soprannaturale, onde evitare che la casa ricevesse un'eccessiva
attenzione e che i suoi segreti finissero per essere scoperti. Fu la
prudenza, infine, a vincere, e tutti gli spiriti si erano impegnati a
non mostrare nulla di paranormale ad occhio umano o meccanico,
controllando inoltre che la decisione fosse rispettata anche da tutti
coloro che, come la creatura del seminterrato, non erano in grado di
intenderla né tanto meno rispettarla. Il mattino seguente
un'annoiata compagnia di tecnici e presentatori si era dileguata alle
prime luci dell'alba e, per diverso tempo, non fu l'unica.
L'impossibilità di riprendere qualcosa di effettivamente spaventoso
aveva scoraggiato i produttori e nello stesso tempo le storie
terribili che circolavano sul luogo avevano allontanato i possibili
compratori; la conseguenza di due premesse tanto differenti fu che in
un arco di tempo relativamente breve la casa era rimasta del tutto
isolata e con lei i suoi abitanti.
Violet si rimproverò
di non essere stata in grado di prevedere per tempo il risultato di
quelle azioni. All'epoca sua madre l'aveva convinta che la via
migliore che potessero imboccare fosse quella della discrezione,
profondamente persuasa che non fosse possibile per loro un'esistenza
che esulasse dall'occultamento volontario. Cambiando posizione delle
gambe sul davanzale su cui stava seduta (non certo perché i suoi
inesistenti muscoli si fossero indolenziti, ma piuttosto per variare,
seppur di poco, un panorama altrimenti desolatamente immobile) si
ritrovò a ripensare a quelle decisioni ormai così lontane nel
tempo. Viste le conseguenze, era stata la scelta sbagliata? Sarebbe
stato meglio lasciare che il mondo guardasse nell'oscurità e nel
male che si annidavano tra quelle mura? Non avrebbe saputo dirlo.
Fare una scelta diversa avrebbe significato rischiare altre vite,
sperare di venire a contatto con qualcuno che sapesse come porre fine
alla loro sventura, esporsi al pericolo che la casa venisse rasa al
suolo senza sapere cosa questo avrebbe comportato sulle loro
esistenze. In quell'attimo remoto in cui si trovò costretta a
scegliere sembrava che quella fosse una direzione davvero troppo
rischiosa su cui spingersi. Certamente così avrebbero soffocato sul
nascere quasi ogni speranza di redenzione, ma valeva la pena di
barattare potenzialmente delle vite umane per un lumicino così
fioco? Non avrebbe avuto cuore di farlo nemmeno oggi, dopo tutto
quello che era successo nei decenni passati.
Dapprima nessuno capì
che effetti avrebbe avuto il distacco totale dal mondo su di loro, a
nessuno davvero importava non avere acqua, luce o riscaldamento: gli
spiriti non hanno bisogno di queste comodità. Presto, tuttavia,
Violet e molti altri iniziarono a rendersi conto di quali fossero le
necessità primarie per un fantasma e vennero colti da profonda
inquietudine nel realizzare che mancavano del tutto di ognuna di
esse.
È difficile definire
cosa sia esattamente un fantasma, anche per chi lo è; nessuno studio
ha mai ottenuto larga fama o è stato verificato (del resto ottenere
una prova empirica potrebbe essere del tutto impossibile). Si possono
formulare soltanto delle ipotesi, sperando che possano essere il più
possibile vicine alla realtà dei fatti. L'unico dato che pare certo
è che un fantasma è un'apparizione soprannaturale che necessita,
per poter essere riconosciuta come tale, di essere testimoniata da un
essere umano vivente.
Non avevano avuto
contatti con esseri umani da quello che a Violet sembrava almeno un
millennio; il vuoto che questa situazione aveva posto loro intorno li
aveva ingoiati tutti. Anche il parlarsi era diventato un atto del
tutto superfluo: non avevano altro da dirsi che cose dette spesso già
più d'una volta. Condannati ad una solitudine senza scampo, avevano
tutti cominciato a dimenticare. All'inizio si era trattato di cose
banali, ricordi lontani ed in fondo futili; ma presto erano cadute
nell'oblio anche le cose più importanti. Hayden aveva presto
scordato la vicenda che l'aveva portata ad essere intrappolata nella
casa, ed in lei era rimasta solo una sete di vendetta ormai senza
movente. Per decenni i suoi violenti moti d'ira si erano abbattuti
sui muri e sui pochi mobili rimasti; alla fine la sua rabbia priva di
scopo aveva lasciato il posto ad uno stato catatonico di pura
immobilità. Violet non la vedeva da tanto tempo e sospettava che
avesse ormai dimenticato anche come rendersi visibile. Del resto, non
sarebbe certo stata l'unica: anche Chad, Patrick e i coniugi
Montgomery erano scomparsi da così tanto tempo che stentava a
ricostruire nella memoria i loro volti. Anche Tate, probabilmente,
era ormai scivolato in quello stato di non esistenza. Per un po'
l'aveva seguita da lontano, afflitto da un pesante senso di rimorso
che non aveva più altre radici che un ricordo sfocato e sbiadito,
ma che comunque non gli permetteva di avvicinarsi a lei. La rabbia e
la delusione che Violet provava nei suoi confronti non erano sbiaditi
abbastanza in fretta da permetter loro di parlarsi almeno un'ultima
volta. Quell'amara sensazione di rimorso era il ricordo più fresco
che Violet serbasse.
La prova più
difficile era stata vedere i suoi genitori consumarsi poco a poco,
vagare con occhi spenti per i corridoi bui dimentichi l'uno
dell'altra ed anche di lei; aveva accolto quasi con sollievo la loro
scomparsa dal mondo visibile.
Nella casa degli
omicidi sopravvivevano in quel momento soltanto le creature il cui
concetto di identità era tanto semplice da permettere l'esistenza in
funzione dell'esistere stesso. La creatura del seminterrato
continuava a scagliarsi contro qualunque cosa si muovesse nelle sue
vicinanze, e più d'una volta negli ultimi tempi Violet aveva trovato
consolante osservare di nascosto la sua furiosa vitalità, cieca ad
ogni ragione. Forse anche Moira avrebbe potuto sopravvivere
aggrappandosi al suo eterno compito, pulire, se soltanto fosse
rimasta abbastanza mobilia nella casa; ma, chiaramente, l'edificio
non era rimasto arredato per molto tempo dopo la fine della vita
terrena di suo padre. Molti mobili erano stati portati via, e i pochi
rimasti erano stati distrutti dalla pioggia, dal sole e dal vento che
penetravano dalle vetrate in frantumi, testimoni di violente e remote
tempeste. I bei lampadari di vetro avevano subito la furia di Hayden
e del tempo; gli insetti avevano lasciato le proprie tracce sottili
su tutto ciò su cui erano riusciti ad arrampicarsi. A lungo Moira si
era battuta con veemenza contro l'inevitabile degradazione del luogo
a cui erano eternamente incatenati. Violet ricordava i suoi passi
frenetici nei corridoi, con la vecchia scopa che cadeva a pezzi in
mano, nel tentativo di mantenere una parvenza di umanità, di
scongiurare l'avvento del nulla: anche lei infine era stata
sconfitta, forse solo un po' più tardi degli altri. Se chiudeva gli
occhi poteva ancora visualizzare nitidamente la sua piccola figura
abbandonata sul pavimento del corridoio, lo sguardo fisso su qualcosa
di invisibile per chiunque altro tranne lei. Aveva provato senza
successo a destarla, era l'ultima di loro - fantasmi con una mente
umana - con cui ricordava di aver scambiato alcune parole in tempi
non troppo lontani. Non voleva che sparisse; Violet non voleva
restare sola. Eppure era arrivato il giorno in cui si era accorta che
Moira non era più. Non restava nulla di lei, tranne il suo ricordo,
e Violet sapeva che anche quello avrebbe potuto disperdersi molto
presto. La disperazione che sentiva si era acuita; dopo i primi
giorni (o mesi, non avrebbe saputo dirlo) di profondo sconforto aveva
trovato la forza per risollevarsi, per non arrendersi, per proseguire
il compito che si era imposta secoli prima.
Non ricordava più
quando aveva scritto le prime parole sul primo quaderno; aveva
iniziato a scrivere i suoi ricordi per scacciare la noia, ma presto,
quando aveva iniziato a presagire che cosa sarebbe successo a tutti
loro, il passatempo si era trasformato in precisa missione. Violet
era rimasta l'ultima ad aspettare Halloween con impazienza: per gli
altri era ormai una data come tante altre perché non avevano più
nessun motivo per avventurarsi fuori. Il mondo era cambiato attorno a
loro ma senza di loro. Non riconoscevano più le strade, i luoghi,
gli usi della gente. Per lei era l'unica occasione in cui rifornirsi
di carta ed inchiostro, che curiosamente parevano sopravvivere, anche
se in quantità certamente molto minori rispetto al passato, in un
mondo in cui la tecnologia cambiava a una velocità vorticosa, tanto
che anche se fosse riuscita a mettere le mani su uno degli attrezzi
tecnologici che vedeva nelle case delle persone non sarebbe stata
nemmeno in grado di accenderli. Il suo vecchio portatile al confronto
sembrava un fossile di un mondo lontano.
Durante la notte di
Halloween Violet svolgeva una lunga ricerca: setacciava tutti i
negozi aperti, tutte le case vuote, tutti i luoghi di lavoro in cui
riusciva ad intrufolarsi alla ricerca di carta e penne che riponeva
in una capiente borsa che portava con sé. Li ammassava poi in una
stanza dell'ultimo piano, ben protetti dall'umidità, dal sole e
dagli altri spiriti, in modo che si conservassero il più a lungo
possibile. Negli ultimi tempi, in effetti, era diventato molto
difficile trovare i materiali che le servivano. La città era
cambiata moltissimo, i palazzi e le vie non le ricordavano più nulla
con cui avesse familiarità; si sentiva sempre più disorientata ogni
anno che passava. Durante gli ultimi Halloween aveva dovuto
costringersi ad uscire convincendosi che non aveva la più pallida
idea di per quanto tempo ancora avrebbe potuto trovare quello che le
serviva; ma avrebbe di gran lunga preferito non uscire più, restare
nel buio di quella casa in disfacimento, non scontrarsi più con un
mondo che capiva sempre meno. Quel pensiero, però, la impauriva
molto di più di ciò che la attendeva fuori: era l'inizio della sua
fine, e ogni volta che ci pensava si rendeva conto rabbrividendo che
era sempre più vicina. Per questa ragione era di fondamentale
importanza che non smettesse di scrivere.
Aveva riempito
migliaia e migliaia di pagine con tutto quello che riusciva a
ricordare, i dettagli più piccoli, gli accadimenti più
insignificanti, ma anche le grandi tragedie e gli orrori macabri che
la casa nascondeva. Chiaramente, molto aveva scritto delle vicende
legate alla sua famiglia, sia prima che dopo la morte. Negli anni i
quaderni più vecchi avevano iniziato a deteriorasi: li aveva
ricopiati tutti almeno una volta. Giacevano ordinatamente raccolti in
grandi cataste sul pavimento della stanza che aveva reclamato per sé
e che proteggeva strenuamente dalle intrusioni degli altri, sebbene
ormai da tempo immemore nessuno tentasse più di entrarci. Li aveva
riletti innumerevoli volte, tanto da poterne declamare la maggior
parte a memoria. Quelle pagine erano quello che rimaneva della sua
umanità. Aveva sempre saputo, ovviamente, che non sarebbero bastati
a salvarla: prima o poi anche lei avrebbe ceduto e sarebbe sparita,
dimentica di sé. Questo non significava, tuttavia, che non dovesse
cercare in ogni modo di ritardare quel momento.
Il davanzale su cui
sedeva si stava arroventando; la sorpresa la distolse dai ricordi.
Non ricordava quale mese fosse, ma gli alberi erano spogli e secchi e
quella luce incandescente che le feriva gli occhi non aveva nulla di
benevolo. Da molto tempo non vedeva passare nulla di vivo e nessuna
voce si levava dai grandi quartieri residenziali. Era davvero quella
la realtà? Oppure, infine, anche lei aveva iniziato a perdere la
ragione? Dai recessi più profondi della sua coscienza, lentamente,
emerse una sensazione, una realizzazione non pensata ma percepita:
era la fine del mondo. Non sapeva né perché stava accadendo né
quando si sarebbe compiuta, ma il significato di quell'atmosfera
funerea le fu, all'improvviso, chiaro come uno squillo di tromba. Si
sentì afferrare da una profonda disperazione e da un grande sollievo
nello stesso momento: era l'anelata conclusione alla sua sofferenza.
Tuttavia anche le sue carte sarebbero andate distrutte, non le
avrebbe lasciate dietro di sé come suo testamento. La possibilità
di lasciare una traccia del suo passaggio sulla Terra, un segno
tangibile della sua esistenza: quella era stata la tacita speranza
dietro il suo enorme lavoro. Violet sarebbe impazzita, avrebbe
dimenticato come rendersi visibile, si sarebbe disciolta nell'aria,
non più cosciente: ma le sue parole sarebbero rimaste nella stanza
polverosa ancora per qualche centinaio di anni e forse un essere
umano più avventuroso degli altri le avrebbe trovate, avrebbe saputo
che lei, in un'epoca lontana, era esistita. Era stato uno sforzo
inutile. Si sentì molto stanca. Scese dal davanzale di marmo e vagò,
senza una meta, per i corridoi bui e desolati, per le stanze spoglie;
si inoltrò nei sotterranei dove non c'era più nulla che indicasse
il punto dove Tate aveva deposto il suo cadavere. Compì una muta e
profana processione, salutando un'ultima volta tutti i luoghi che
erano stati insieme la sua dimora e la sua prigione. Uscì in
giardino da una piccola porta secondaria. L'erba secca scricchiolava
sotto i suoi piedi, come se fosse composta di ghiaia. La bianca
luminosità del cielo era così forte che era davvero difficile
vedere qualcosa distante più di qualche metro. Nel silenzio
ultraterreno che la avvolgeva le sembrava di udire un suono quasi
impercettibile, un basso rombo che pareva avvicinarsi lentamente, non
avrebbe saputo dire se da profondità terrene o spaziali. Si sedette
sul vialetto, dove il terreno era screpolato e arso: non riusciva a
realizzare che con ogni probabilità presto sia lei che la terra
avrebbero smesso di esistere, dopo tutto quel tempo passato a credere
che ogni cosa si sarebbe trascinata avanti indefinitamente, senza
nessun giorno del Giudizio da aspettare. L’enormità di quello che
stava per accadere la stordì, come se qualcuno con la mano
particolarmente pesante avesse appena smesso di prenderla a schiaffi.
Si abbandonò alla pura dimensione sensoriale, apprezzando il
silenzio, il calore, il puro gioco dei colori davanti ai suoi occhi.
Ogni cosa assumeva contorni enormemente più affascinanti del solito,
permeata da una forte sensazione di precarietà. Non sapeva quando
sarebbe successo ma presto tutto sarebbe finito, e allora non restava
che aspettare l’inevitabile assaporando quegli ultimi momenti
godendo della loro bellezza, significanza, fragilità.
Era così assorbita
dal mondo circostante che non realizzò neppure che dal fondo della
via si stava avvicinando una macchia nera, deformata dall’aria
calda che saliva dall’asfalto. Non la notò finché non fu così
vicina da poterne sentire i passi. Si voltò verso la fonte del
rumore e vide la sagoma di un essere umano, una linea lunga e dritta.
Una strana agitazione si impadronì di lei con una furia quasi
animalesca: voleva assolutamente che la vedesse. Doveva rendersi
visibile, ed il pensiero la riempì di paura: era tanto tempo che non
lo faceva più. Sarebbe stata una tortura terribile scoprire di non
essere più in grado di comunicare con qualcuno nell’unica
occasione in cui era davvero indispensabile. Un primo tentativo andò
a vuoto, non sentì quella sensazione di indolenzimento e fatica che
generalmente l’apparire dava, almeno per i primi minuti. L’unica
cosa che percepiva era la sua disperazione. Chiuse gli occhi e scavò
a fondo nella propria memoria, in cerca di qualunque cosa che potesse
darle un qualche suggerimento. Non riuscì a trovare nulla (non era
certo facile estrapolare una sola, fugace sensazione dal caos che
c’era nella sua testa) e decise di usare l’istinto. L’uomo,
intanto, era quasi arrivato di fronte alla casa. Tentò di rilassarsi
il più possibile e pensò intensamente al suo fortissimo desiderio
di parlare con quell’uomo. Non successe nulla, e Violet si sentì
molto scoraggiata. Se avesse potuto avrebbe pianto. Si concentrò
nuovamente, svuotando il più possibile la propria mente dal rumore
schiacciante della disperazione, in modo che rimanesse soltanto il
silenzio di quell’unico desiderio. Sentì una fulminea fitta di
dolore passarle nel corpo, lasciando dietro di sé soltanto un
tremito. Sulle sue labbra nacque spontaneo un sorriso soddisfatto,
un'espressione che, come la facoltà di apparire, non utilizzava più
da tempo immemore. Violet si diresse alla fine del vialetto, pronta
ad intercettare l’attenzione dell’uomo non appena si fosse
trovato abbastanza vicino. E se non si fosse fermato? Se non l’avesse
neppure guardata? Cercò di scacciare quegli ansiosi pensieri, non le
sarebbero stati d’aiuto. Quei pochi secondi di attesa passarono
carichi di tensione.
Quando l’uomo si
trovò nelle immediate vicinanze del cancello Violet poté guardarlo
bene in viso. Era giovane, aveva i capelli scuri e portava vestiti
strani che testimoniavano l’evoluzione del mondo nei millenni
passati da quando Violet aveva smesso di esserne parte attiva. Il
ragazzo si guardava intorno con aria attenta e presto si accorse
della ragazzina che lo scrutava dalla soglia di quel rudere secolare,
un palazzo abbandonato nei meandri del catasto, una rovina romana
senza più padroni né destinazione. Affrettò il passo e le venne
incontro, dicendo parole che Violet non riuscì a comprendere. Il
mondo era cambiato profondamente e con esso anche le lingue con cui
gli uomini si esprimevano. Violet lo aveva immaginato. Si espresse
utilizzando ampi gesti, fissandolo negli occhi, cercando di
comunicargli la sua mancanza di malizia e la bruciante, pressante
necessità che lui la seguisse all’interno. Inizialmente il ragazzo
cercò di parlare con lei, esprimendosi lentamente e con parole
semplici, ma capì presto che lei non comprendeva le sue parole e
rispose ai suoi muti inviti con gesti essenziali ma chiari: un
semplice movimento del braccio destro le disse che voleva che venisse
via con lui: forse anche lui aveva intuito cosa stava per accadere.
La solerzia con cui cercava di convincerla a seguirlo sulla strada la
commosse. Violet non poté fare altro che comunicargli tristemente,
scuotendo la testa, che lei non poteva seguirlo. L’uomo la guardava
confuso ma non spaventato e lei cercò, per quanto le era possibile,
di dedurre chi fosse. I suoi occhi erano limpidi e non nascondevano
alcun segreto. Sulla maglia che portava, chiara e priva di cuciture
visibili, erano stampate grandi lettere in caratteri maiuscoli e
questo particolare, unito al tono perentorio ma non rude con cui si
era rivolto a lei, le fece pensare che non stesse semplicemente
facendo una passeggiata ma che avesse un qualche compito da svolgere.
La determinazione con cui cercava di comunicare con lei le fece
pensare che avesse un ruolo simile a quello che tanto tempo prima
avevano svolto i pompieri: lui era a conoscenza di ciò che stava per
accadere e voleva portarla via, in un posto più sicuro, se mai ne
esistesse uno. Ripensò al fatto che lui aveva puntato più volte
l’indice verso l’alto. L’uomo, infine, era riuscito ad abitare
altri pianeti al di fuori della Terra? O si trattava di una stazione
spaziale? O cos'altro? Non avrebbe mai potuto scoprirlo. Soltanto di
una cosa era certa: quella era la sua ultima speranza. Non ce ne
sarebbero state altre. Sperò che lui fosse in grado di capire.
Violet si voltò e
fece qualche passo in direzione dell’entrata, poi guardò alle
proprie spalle. L’uomo la stava seguendo a passi incerti, anche se
guardandosi frequentemente dietro le spalle. Le sembrò un segno
incoraggiante.
Violet lo guidò
attraverso la casa fino alla stanza dove teneva i suoi quaderni. Il
ragazzo rimase immobile sulla soglia della camera fissandola confuso;
era insieme spaventato e affascinato, e non riusciva a decidere quale
delle due emozioni fosse più forte. Violet si inoltrò tra le pile
di quaderni e prese il più vecchio. Lo sfogliò davanti a lui e poi
glielo porse; lui lo sfogliò come aveva fatto lei e osservò
attentamente i segni di inchiostro, le sue parole, probabilmente
senza poterne cogliere il significato; quella scrittura doveva
apparirgli tanto differente dalla sua quanto una lingua aliena.
Violet sperava che conoscesse qualcuno in grado di comprenderla.
Mentre lui sfogliava il primo quaderno con un'espressione corrucciata
in volto Violet andò a prendere quelli successivi, in rigoroso
ordine cronologico, e li dispose attorno a lui che dovette iniziare a
capire, perché la guardò sgranando gli occhi. Il ragazzo frugò
nella grande borsa che portava appesa alla spalla e ne trasse una
barra metallica piuttosto lunga, lucida e levigata; nel momento in
cui lui premette un certo punto iniziò ad emettere una tenue luce
bluastra da una sottilissima fessura posta lungo tutta una metà.
Violet gli si avvicinò più di quanto aveva osato fare fino a quel
momento e afferrò il primo quaderno, aprendolo alla prima pagina, e
glielo porse tenendolo aperto con entrambe le mani; lui lo prese
delicatamente e lo appoggiò davanti a sé. Impugnò lo strano
oggetto con la mano destra, in modo che la metà dotata di fessura
luminosa fosse all'estremità opposta rispetto alla sua mano, e con
essa sfiorò lentamente la pagina, coprendone ogni centimetro,
dall’alto al basso. Una volta arrivato in fondo alla pagina lo
strumento emise un piccolo suono. Il ragazzo tirò fuori dalla borsa
un cilindro nero che Violet guardò prima con curiosità e poi con
sbalordimento quando lui, aprendolo sul pavimento, ne mostrò
l’utilizzo. Era un computer tattile composto da un grande schermo
sottilissimo ma ampio che si accese al primo tocco. Violet
inizialmente non riuscì a comprendere cosa lui stesse facendo:
sfiorava la superficie digitando lettere più o meno conosciute e
componendo parole che non avrebbe saputo pronunciare. Iniziò a
capire quando vide che lui aveva avvicinato la barra luminosa allo
schermo: dopo un paio di veloci operazioni, su di esso apparve la
prima pagina del suo quaderno, perfettamente riprodotta in ogni suo
particolare. Il ragazzo la guardò e lei gli sorrise, annuendo: aveva
compreso. Lei voleva che lui portasse via con sé quei quaderni, che
li perpetuasse anche dopo che gli originali fossero andati distrutti.
Il lavoro di
copiatura si era subito annunciato come lungo e faticoso: la luce
bianca che il cielo emetteva, però, non si era mai attenuata. Anche
la notte era stata chiara come illuminata dal sole di mezzogiorno.
Poteva quasi percepire la stanchezza dell'uomo, come se essa emanasse
da lui in onde concentriche. Non si era mai fermato, tanto che pareva
spinto da una necessità insopprimibile. Violet ne dedusse che il
tempo a loro disposizione era davvero poco e i quaderni invece
tantissimi. In quel momento sentì dopo tanti secoli il peso che il
tempo pone sulle spalle ai mortali, la cronica mancanza di tempo che
aveva afflitto anche lei. Pregò nella sua mente che il cielo non
crollasse loro addosso, che li lasciasse finire, che permettesse a
quel ragazzo di tornare da dove era venuto, di mettersi in salvo.
Violet sentì qualcosa vibrare nella borsa abbandonata per terra:
quel rumore poteva provenire da un dispositivo simile a un cellulare?
Qualcuno lo stava cercando? Qualcuno da qualche parte là fuori
temeva per la sua incolumità? Non avrebbe potuto perdonarsi se quel
ragazzo fosse morto a causa sua. Il fatto che fosse ancora in grado
di provare umanissima apprensione la sorprese piacevolmente.
Il ragazzo si
stropicciò le palpebre con le dita, sospirando; poi si guardò
attorno, osservò i muri scrostati, il pavimento distrutto e le
finestre divelte. Quando la fissò negli occhi Violet vi lesse tante
domande alle quali avrebbe voluto rispondere, se avesse potuto. Non
erano argomenti che si potevano spiegare a gesti. Aggiunse un'altra
speranza, quella più importante, a tutte le altre che in quelle ore
aveva accumulato: che in quel nuovo mondo dove lui avrebbe portato le
sue memorie ci fosse qualcuno in grado di tradurle per lui e per
chiunque altro. Le azioni del ragazzo, tuttavia, la rincuoravano: il
motivo per cui aveva accettato di iniziare un lavoro tanto estenuante
in un momento così difficile poteva trovarsi nella certezza di poter
tradurre quei testi. Provò un grande affetto per lui e, senza
nemmeno pensarci, gli sfiorò le spalle. Lui si voltò e le toccò
delicatamente un braccio, per poi immergersi nuovamente in
quell'opera disperata.
Violet osservò con
un misto di apprensione e agitazione le pile di quaderni non ancora
scansionati – era questo ciò che lui stava facendo, o almeno lei
la pensava così – che lentamente si riducevano per ricomparire
all'altro lato della stanza, nelle pile di quelli già analizzati.
Aveva impressa nella memoria ogni pagina di ogni quaderno, anche se a
volte trovava difficile separare i singoli ricordi dal magma
indistinto nella sua testa. Bastava che gettasse uno sguardo su uno
di essi per ricordare tutto, la memoria che vi aveva impresso, i
momenti in cui l'aveva scritto e le volte che l'aveva ricopiato. Le
parve quasi che lui con il suo alacre lavoro la stesse lentamente
smembrando, che stesse aprendo ogni singolo meandro della sua mente
con un procedimento quasi autoptico. Tuttavia questo non la
rattristava né la feriva: quel sordo dolore che stava provando era
necessario, vitale, l'unico modo in cui avrebbe potuto sopravvivere a
se stessa. Un sorriso le sbocciò sul viso quando vide che ormai
soltanto una singola pila di quaderni restava da intaccare,
circondata dalle sagome delle altre impresse sul pavimento. Non ci
volle molto perché anche di quell'ultima non restasse altro che un
segno netto nella polvere. Il ragazzo si alzò finalmente in piedi
dopo molte ore: si sgranchì le gambe, guardò i mucchi di quaderni
soddisfatto e si diresse verso lo schermo tattile che era rimasto
aperto sul pavimento. Inserì uno o due comandi e sulla superficie
lievemente illuminata comparvero le miniature di miriadi di pagine,
tutte accuratamente riprodotte. Il sorriso sul suo volto si allargò.
Spense il macchinario, lo arrotolò e lo ripose delicatamente in
borsa. Violet gli porse la barra metallica, che era ancora calda dopo
essere stata nelle sue mani per così tante ore. Anche quella sparì
dentro la borsa e lei improvvisamente sentì un gran senso di vuoto
che quasi le fece perdere l'equilibrio. Chiuse gli occhi per un
momento, liberò la mente e la sensazione sparì, come se si fosse
dissolta nell'aria.
Lo accompagnò al
piano di sotto e fuori dalla porta. La luminescenza biancastra che
dominava il cielo era sempre più forte e incandescente. Il mondo
esterno sembrava quasi aver perso contorni reali e il rombo prima
molto lontano ora era quasi vicino. Violet si fermò sull'erba secca
del giardino, a pochi passi dalla strada, il confine che non avrebbe
mai potuto varcare. Il ragazzo le passò accanto e con noncuranza
avanzò sull'asfalto, invitandola con lo sguardo a seguirlo. Lei
abbassò gli occhi, indicò con la mano destra il punto dove la terra
e il cemento entravano in contatto e scosse la testa in segno di
diniego. Non poteva andare oltre. Lui non poté certamente capire
tutto, ma colse la gravità dei suoi gesti. Forse, in una qualche
parte del suo animo, comprese una piccola parte di verità. La fissò
tristemente negli occhi. Doveva dirle addio. Per alcuni istanti si
fissarono senza poter fare nulla: l'aria e i loro cuori erano
pesanti. Sebbene avessero condiviso soltanto poche ore tra le loro
mani era passata la forma di una vita intera, un fiume turbinante di
carta e inchiostro che aveva cambiato percorso all'improvviso. Il
ragazzo tornò sui suoi passi e la avvolse in un abbraccio caldo,
intimo, umano. Violet ricambiò con tutto il calore di cui poteva
essere capace un fantasma sbiadito e pallido. Probabilmente lui
dovette trovarla terribilmente fredda perché mentre la stringeva si
irrigidì per un momento, come colto da un brivido gelido. Quando si
separarono la fissò con gli occhi sgranati: aveva appena scoperto un
altro piccolo indizio del mistero che non avrebbe avuto il tempo di
svelare sulla Terra. Qualcosa nella sua borsa ricominciò a vibrare e
questa volta lui si chinò a frugare nella borsa. Ne trasse un
piccolo oggetto quadrato opaco e levigato che accostò all'orecchio.
Una voce umana parlava in fretta dall'altro capo, preoccupata.
Sembrava una voce femminile. Lui rispondeva sereno, e dal tono Violet
dedusse che avrebbe dovuto raggiungere le persone che lo stavano
aspettando subito, perché il tempo a sua disposizione era finito.
Trovò che la sua voce così umana, prodotto di vere corde vocali,
fosse bellissima. La conversazione finì e lui si voltò verso di
lei. Non riusciva a pensare di doverla lasciare là. Lei gli sorrise,
cercando di rasserenarlo. Alzò una mano in segno di saluto. Lui la
prese e la strinse tra le sue, la accarezzò. Lei gli sfiorò il
viso. Dopo qualche istante di indecisione lui si incamminò verso la
strada, ma continuò a voltarsi verso di lei fino a quando non fu
troppo lontano. Violet rimase dov'era, immobile, a fissare la sua
sagoma nera sempre più lontana, finché non si ridusse ad un punto
indistinguibile dagli altri.
Non avrebbe saputo
determinare per quanto tempo rimase lì: poiché l'oscurità notturna
non calava più, era praticamente impossibile suddividere il tempo in
unità regolari. A complicare ulteriormente il computo vi era il
fatto che Violet, essendo un fantasma, non provava fatica in nessuna
situazione. Per quanto ne sapeva potevano esser passati due giorni o
un mese da quando aveva guardato il ragazzo allontanarsi nella luce.
Il rombo si era fatto talmente forte da essere assordante, tanto che
anche il terreno pareva vibrare con esso. Tuttavia, riflettendo,
ipotizzò che potessero essere incominciate piccole scosse di
terremoto a cui probabilmente sarebbero seguite altre molto più
forti e devastanti. Decise di tornare all'interno. La luce brillante
del cielo non le permetteva di vedere più nulla. Nel momento in cui
mosse il primo passo si rese conto di essere ancora visibile e con un
piccolo sussulto della coscienza smise di esserlo. A quel punto non
aveva nessuna rilevanza.
Tornò nella stanza
dove tutti i suoi quaderni erano ammassati: si appoggiò alla pila
più alta con la schiena. Se questa era davvero la fine voleva
smettere di esistere tenendo negli occhi come ultima immagine
l'accumulo ordinato dei suoi ricordi, la prova materiale che lei era
vissuta. Pensò al ragazzo e agli altri esseri umani che erano con
lui, sperò che avessero trovato la salvezza. Pensò ai suoi compagni
di sventura, a tutti gli spiriti che non vedeva da tempo
immemorabile: pensò a Tate e ai suoi genitori. Magari anche loro si
trovavano con lei in quella stanza polverosa, disciolti nell'aria. Si
congedò da loro col pensiero e, anche se non erano davanti a lei, fu
comunque molto triste. D'altro canto una qualche conclusione, infine,
era arrivata anche per loro. Benché non avesse una fede
particolarmente forte trovò conforto nell'indeterminatezza piena di
speranze che portava con sé l'idea di aldilà. Forse anche loro
avrebbero varcato il confine del mondo terreno, con un ritardo di
qualche migliaio di anni. Cercò di convincersi che si sarebbero
rincontrati là, che avrebbe potuto finalmente parlare con Tate e sua
madre l'avrebbe abbracciata forte riconoscendola come Violet, sua
figlia.
Non restava che
attendere.
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