venerdì 13 febbraio 2015

PRESENTE, ovvero: American Horror Story, svariate migliaia di anni dopo

Una necessaria premessa: non possiedo i diritti di American Horror Story ed ho scritto questa storia soltanto per esercizio e per diletto.

PRESENTE 

Violet osservava corrucciata il cielo innaturalmente pallido: era sicura che quel bianco accecante le avrebbe fatto lacrimare gli occhi se i suoi dotti lacrimali non fossero stati soltanto l'ombra di quelli che un tempo possedeva. Dalle finestre frantumate non passava nemmeno un filo d'aria; tutto era immobile, come in attesa. La temperatura, per quel che poteva dedurne una pallida immagine di essere umano come lei, sembrava leggermente più alta della media. Desiderò allora più che in ogni altro momento che il suo computer non avesse smesso di funzionare: avrebbe potuto cercare di capire qualcosa su quell'atmosfera così strana. Ormai tutto all'interno della casa, compresi i suoi abitanti, era distrutto e abbandonato.

Era un processo iniziato molto tempo prima. Moira aveva avuto perfettamente ragione quando le aveva detto che all'interno della casa degli omicidi era difficile tener conto dello scorrere del tempo. Nessuno consegnava i giornali, nessuno passava a prendere il latte, nessuno bussava alla porta. Tutti loro potevano uscire soltanto un giorno all'anno. All'inizio, tuttavia, l'isolamento a cui erano stati condannati era stato meno duro: dopo la dipartita della sua famiglia la casa era rimasta in vendita per circa un decennio e il metodo ideato da sua madre e dalla ex cameriera per salvare altri dal destino che li aveva colti aveva funzionato perfettamente; i possibili acquirenti avevano iniziato a diradarsi sempre di più, spaventati dai resoconti delle terribili nottate passate dagli aspiranti inquilini. Naturalmente i media avevano nutrito un rinnovato interesse nei confronti della casa e, oltre ai numerosi curiosi che avevano continuato ad affollare il bus che narrava, tra gli altri orrori, anche le vicissitudini dello stabile, molte troupe televisive avevano chiesto all'agenzia immobiliare il permesso di effettuare delle riprese, la quale era stata ovviamente più che soddisfatta di poter ricavare qualcosa da uno stabile così infruttuoso.
L'arrivo dei tecnici per la sistemazione di luci e telecamere della prima emittente ad essersi aggiudicata il permesso aveva innescato una vivace discussione tra gli abitanti in grado di sostenerla: alcuni avrebbero voluto terrorizzare gli intrusi per divertirsi un po', altri ritenevano più ragionevole non lasciare che filmassero nulla di soprannaturale, onde evitare che la casa ricevesse un'eccessiva attenzione e che i suoi segreti finissero per essere scoperti. Fu la prudenza, infine, a vincere, e tutti gli spiriti si erano impegnati a non mostrare nulla di paranormale ad occhio umano o meccanico, controllando inoltre che la decisione fosse rispettata anche da tutti coloro che, come la creatura del seminterrato, non erano in grado di intenderla né tanto meno rispettarla. Il mattino seguente un'annoiata compagnia di tecnici e presentatori si era dileguata alle prime luci dell'alba e, per diverso tempo, non fu l'unica. L'impossibilità di riprendere qualcosa di effettivamente spaventoso aveva scoraggiato i produttori e nello stesso tempo le storie terribili che circolavano sul luogo avevano allontanato i possibili compratori; la conseguenza di due premesse tanto differenti fu che in un arco di tempo relativamente breve la casa era rimasta del tutto isolata e con lei i suoi abitanti.
Violet si rimproverò di non essere stata in grado di prevedere per tempo il risultato di quelle azioni. All'epoca sua madre l'aveva convinta che la via migliore che potessero imboccare fosse quella della discrezione, profondamente persuasa che non fosse possibile per loro un'esistenza che esulasse dall'occultamento volontario. Cambiando posizione delle gambe sul davanzale su cui stava seduta (non certo perché i suoi inesistenti muscoli si fossero indolenziti, ma piuttosto per variare, seppur di poco, un panorama altrimenti desolatamente immobile) si ritrovò a ripensare a quelle decisioni ormai così lontane nel tempo. Viste le conseguenze, era stata la scelta sbagliata? Sarebbe stato meglio lasciare che il mondo guardasse nell'oscurità e nel male che si annidavano tra quelle mura? Non avrebbe saputo dirlo. Fare una scelta diversa avrebbe significato rischiare altre vite, sperare di venire a contatto con qualcuno che sapesse come porre fine alla loro sventura, esporsi al pericolo che la casa venisse rasa al suolo senza sapere cosa questo avrebbe comportato sulle loro esistenze. In quell'attimo remoto in cui si trovò costretta a scegliere sembrava che quella fosse una direzione davvero troppo rischiosa su cui spingersi. Certamente così avrebbero soffocato sul nascere quasi ogni speranza di redenzione, ma valeva la pena di barattare potenzialmente delle vite umane per un lumicino così fioco? Non avrebbe avuto cuore di farlo nemmeno oggi, dopo tutto quello che era successo nei decenni passati.
Dapprima nessuno capì che effetti avrebbe avuto il distacco totale dal mondo su di loro, a nessuno davvero importava non avere acqua, luce o riscaldamento: gli spiriti non hanno bisogno di queste comodità. Presto, tuttavia, Violet e molti altri iniziarono a rendersi conto di quali fossero le necessità primarie per un fantasma e vennero colti da profonda inquietudine nel realizzare che mancavano del tutto di ognuna di esse.
È difficile definire cosa sia esattamente un fantasma, anche per chi lo è; nessuno studio ha mai ottenuto larga fama o è stato verificato (del resto ottenere una prova empirica potrebbe essere del tutto impossibile). Si possono formulare soltanto delle ipotesi, sperando che possano essere il più possibile vicine alla realtà dei fatti. L'unico dato che pare certo è che un fantasma è un'apparizione soprannaturale che necessita, per poter essere riconosciuta come tale, di essere testimoniata da un essere umano vivente.
Non avevano avuto contatti con esseri umani da quello che a Violet sembrava almeno un millennio; il vuoto che questa situazione aveva posto loro intorno li aveva ingoiati tutti. Anche il parlarsi era diventato un atto del tutto superfluo: non avevano altro da dirsi che cose dette spesso già più d'una volta. Condannati ad una solitudine senza scampo, avevano tutti cominciato a dimenticare. All'inizio si era trattato di cose banali, ricordi lontani ed in fondo futili; ma presto erano cadute nell'oblio anche le cose più importanti. Hayden aveva presto scordato la vicenda che l'aveva portata ad essere intrappolata nella casa, ed in lei era rimasta solo una sete di vendetta ormai senza movente. Per decenni i suoi violenti moti d'ira si erano abbattuti sui muri e sui pochi mobili rimasti; alla fine la sua rabbia priva di scopo aveva lasciato il posto ad uno stato catatonico di pura immobilità. Violet non la vedeva da tanto tempo e sospettava che avesse ormai dimenticato anche come rendersi visibile. Del resto, non sarebbe certo stata l'unica: anche Chad, Patrick e i coniugi Montgomery erano scomparsi da così tanto tempo che stentava a ricostruire nella memoria i loro volti. Anche Tate, probabilmente, era ormai scivolato in quello stato di non esistenza. Per un po' l'aveva seguita da lontano, afflitto da un pesante senso di rimorso che non aveva più altre radici che un ricordo sfocato e sbiadito, ma che comunque non gli permetteva di avvicinarsi a lei. La rabbia e la delusione che Violet provava nei suoi confronti non erano sbiaditi abbastanza in fretta da permetter loro di parlarsi almeno un'ultima volta. Quell'amara sensazione di rimorso era il ricordo più fresco che Violet serbasse.
La prova più difficile era stata vedere i suoi genitori consumarsi poco a poco, vagare con occhi spenti per i corridoi bui dimentichi l'uno dell'altra ed anche di lei; aveva accolto quasi con sollievo la loro scomparsa dal mondo visibile.
Nella casa degli omicidi sopravvivevano in quel momento soltanto le creature il cui concetto di identità era tanto semplice da permettere l'esistenza in funzione dell'esistere stesso. La creatura del seminterrato continuava a scagliarsi contro qualunque cosa si muovesse nelle sue vicinanze, e più d'una volta negli ultimi tempi Violet aveva trovato consolante osservare di nascosto la sua furiosa vitalità, cieca ad ogni ragione. Forse anche Moira avrebbe potuto sopravvivere aggrappandosi al suo eterno compito, pulire, se soltanto fosse rimasta abbastanza mobilia nella casa; ma, chiaramente, l'edificio non era rimasto arredato per molto tempo dopo la fine della vita terrena di suo padre. Molti mobili erano stati portati via, e i pochi rimasti erano stati distrutti dalla pioggia, dal sole e dal vento che penetravano dalle vetrate in frantumi, testimoni di violente e remote tempeste. I bei lampadari di vetro avevano subito la furia di Hayden e del tempo; gli insetti avevano lasciato le proprie tracce sottili su tutto ciò su cui erano riusciti ad arrampicarsi. A lungo Moira si era battuta con veemenza contro l'inevitabile degradazione del luogo a cui erano eternamente incatenati. Violet ricordava i suoi passi frenetici nei corridoi, con la vecchia scopa che cadeva a pezzi in mano, nel tentativo di mantenere una parvenza di umanità, di scongiurare l'avvento del nulla: anche lei infine era stata sconfitta, forse solo un po' più tardi degli altri. Se chiudeva gli occhi poteva ancora visualizzare nitidamente la sua piccola figura abbandonata sul pavimento del corridoio, lo sguardo fisso su qualcosa di invisibile per chiunque altro tranne lei. Aveva provato senza successo a destarla, era l'ultima di loro - fantasmi con una mente umana - con cui ricordava di aver scambiato alcune parole in tempi non troppo lontani. Non voleva che sparisse; Violet non voleva restare sola. Eppure era arrivato il giorno in cui si era accorta che Moira non era più. Non restava nulla di lei, tranne il suo ricordo, e Violet sapeva che anche quello avrebbe potuto disperdersi molto presto. La disperazione che sentiva si era acuita; dopo i primi giorni (o mesi, non avrebbe saputo dirlo) di profondo sconforto aveva trovato la forza per risollevarsi, per non arrendersi, per proseguire il compito che si era imposta secoli prima.
Non ricordava più quando aveva scritto le prime parole sul primo quaderno; aveva iniziato a scrivere i suoi ricordi per scacciare la noia, ma presto, quando aveva iniziato a presagire che cosa sarebbe successo a tutti loro, il passatempo si era trasformato in precisa missione. Violet era rimasta l'ultima ad aspettare Halloween con impazienza: per gli altri era ormai una data come tante altre perché non avevano più nessun motivo per avventurarsi fuori. Il mondo era cambiato attorno a loro ma senza di loro. Non riconoscevano più le strade, i luoghi, gli usi della gente. Per lei era l'unica occasione in cui rifornirsi di carta ed inchiostro, che curiosamente parevano sopravvivere, anche se in quantità certamente molto minori rispetto al passato, in un mondo in cui la tecnologia cambiava a una velocità vorticosa, tanto che anche se fosse riuscita a mettere le mani su uno degli attrezzi tecnologici che vedeva nelle case delle persone non sarebbe stata nemmeno in grado di accenderli. Il suo vecchio portatile al confronto sembrava un fossile di un mondo lontano.
Durante la notte di Halloween Violet svolgeva una lunga ricerca: setacciava tutti i negozi aperti, tutte le case vuote, tutti i luoghi di lavoro in cui riusciva ad intrufolarsi alla ricerca di carta e penne che riponeva in una capiente borsa che portava con sé. Li ammassava poi in una stanza dell'ultimo piano, ben protetti dall'umidità, dal sole e dagli altri spiriti, in modo che si conservassero il più a lungo possibile. Negli ultimi tempi, in effetti, era diventato molto difficile trovare i materiali che le servivano. La città era cambiata moltissimo, i palazzi e le vie non le ricordavano più nulla con cui avesse familiarità; si sentiva sempre più disorientata ogni anno che passava. Durante gli ultimi Halloween aveva dovuto costringersi ad uscire convincendosi che non aveva la più pallida idea di per quanto tempo ancora avrebbe potuto trovare quello che le serviva; ma avrebbe di gran lunga preferito non uscire più, restare nel buio di quella casa in disfacimento, non scontrarsi più con un mondo che capiva sempre meno. Quel pensiero, però, la impauriva molto di più di ciò che la attendeva fuori: era l'inizio della sua fine, e ogni volta che ci pensava si rendeva conto rabbrividendo che era sempre più vicina. Per questa ragione era di fondamentale importanza che non smettesse di scrivere.
Aveva riempito migliaia e migliaia di pagine con tutto quello che riusciva a ricordare, i dettagli più piccoli, gli accadimenti più insignificanti, ma anche le grandi tragedie e gli orrori macabri che la casa nascondeva. Chiaramente, molto aveva scritto delle vicende legate alla sua famiglia, sia prima che dopo la morte. Negli anni i quaderni più vecchi avevano iniziato a deteriorasi: li aveva ricopiati tutti almeno una volta. Giacevano ordinatamente raccolti in grandi cataste sul pavimento della stanza che aveva reclamato per sé e che proteggeva strenuamente dalle intrusioni degli altri, sebbene ormai da tempo immemore nessuno tentasse più di entrarci. Li aveva riletti innumerevoli volte, tanto da poterne declamare la maggior parte a memoria. Quelle pagine erano quello che rimaneva della sua umanità. Aveva sempre saputo, ovviamente, che non sarebbero bastati a salvarla: prima o poi anche lei avrebbe ceduto e sarebbe sparita, dimentica di sé. Questo non significava, tuttavia, che non dovesse cercare in ogni modo di ritardare quel momento.
Il davanzale su cui sedeva si stava arroventando; la sorpresa la distolse dai ricordi. Non ricordava quale mese fosse, ma gli alberi erano spogli e secchi e quella luce incandescente che le feriva gli occhi non aveva nulla di benevolo. Da molto tempo non vedeva passare nulla di vivo e nessuna voce si levava dai grandi quartieri residenziali. Era davvero quella la realtà? Oppure, infine, anche lei aveva iniziato a perdere la ragione? Dai recessi più profondi della sua coscienza, lentamente, emerse una sensazione, una realizzazione non pensata ma percepita: era la fine del mondo. Non sapeva né perché stava accadendo né quando si sarebbe compiuta, ma il significato di quell'atmosfera funerea le fu, all'improvviso, chiaro come uno squillo di tromba. Si sentì afferrare da una profonda disperazione e da un grande sollievo nello stesso momento: era l'anelata conclusione alla sua sofferenza. Tuttavia anche le sue carte sarebbero andate distrutte, non le avrebbe lasciate dietro di sé come suo testamento. La possibilità di lasciare una traccia del suo passaggio sulla Terra, un segno tangibile della sua esistenza: quella era stata la tacita speranza dietro il suo enorme lavoro. Violet sarebbe impazzita, avrebbe dimenticato come rendersi visibile, si sarebbe disciolta nell'aria, non più cosciente: ma le sue parole sarebbero rimaste nella stanza polverosa ancora per qualche centinaio di anni e forse un essere umano più avventuroso degli altri le avrebbe trovate, avrebbe saputo che lei, in un'epoca lontana, era esistita. Era stato uno sforzo inutile. Si sentì molto stanca. Scese dal davanzale di marmo e vagò, senza una meta, per i corridoi bui e desolati, per le stanze spoglie; si inoltrò nei sotterranei dove non c'era più nulla che indicasse il punto dove Tate aveva deposto il suo cadavere. Compì una muta e profana processione, salutando un'ultima volta tutti i luoghi che erano stati insieme la sua dimora e la sua prigione. Uscì in giardino da una piccola porta secondaria. L'erba secca scricchiolava sotto i suoi piedi, come se fosse composta di ghiaia. La bianca luminosità del cielo era così forte che era davvero difficile vedere qualcosa distante più di qualche metro. Nel silenzio ultraterreno che la avvolgeva le sembrava di udire un suono quasi impercettibile, un basso rombo che pareva avvicinarsi lentamente, non avrebbe saputo dire se da profondità terrene o spaziali. Si sedette sul vialetto, dove il terreno era screpolato e arso: non riusciva a realizzare che con ogni probabilità presto sia lei che la terra avrebbero smesso di esistere, dopo tutto quel tempo passato a credere che ogni cosa si sarebbe trascinata avanti indefinitamente, senza nessun giorno del Giudizio da aspettare. L’enormità di quello che stava per accadere la stordì, come se qualcuno con la mano particolarmente pesante avesse appena smesso di prenderla a schiaffi. Si abbandonò alla pura dimensione sensoriale, apprezzando il silenzio, il calore, il puro gioco dei colori davanti ai suoi occhi. Ogni cosa assumeva contorni enormemente più affascinanti del solito, permeata da una forte sensazione di precarietà. Non sapeva quando sarebbe successo ma presto tutto sarebbe finito, e allora non restava che aspettare l’inevitabile assaporando quegli ultimi momenti godendo della loro bellezza, significanza, fragilità.
Era così assorbita dal mondo circostante che non realizzò neppure che dal fondo della via si stava avvicinando una macchia nera, deformata dall’aria calda che saliva dall’asfalto. Non la notò finché non fu così vicina da poterne sentire i passi. Si voltò verso la fonte del rumore e vide la sagoma di un essere umano, una linea lunga e dritta. Una strana agitazione si impadronì di lei con una furia quasi animalesca: voleva assolutamente che la vedesse. Doveva rendersi visibile, ed il pensiero la riempì di paura: era tanto tempo che non lo faceva più. Sarebbe stata una tortura terribile scoprire di non essere più in grado di comunicare con qualcuno nell’unica occasione in cui era davvero indispensabile. Un primo tentativo andò a vuoto, non sentì quella sensazione di indolenzimento e fatica che generalmente l’apparire dava, almeno per i primi minuti. L’unica cosa che percepiva era la sua disperazione. Chiuse gli occhi e scavò a fondo nella propria memoria, in cerca di qualunque cosa che potesse darle un qualche suggerimento. Non riuscì a trovare nulla (non era certo facile estrapolare una sola, fugace sensazione dal caos che c’era nella sua testa) e decise di usare l’istinto. L’uomo, intanto, era quasi arrivato di fronte alla casa. Tentò di rilassarsi il più possibile e pensò intensamente al suo fortissimo desiderio di parlare con quell’uomo. Non successe nulla, e Violet si sentì molto scoraggiata. Se avesse potuto avrebbe pianto. Si concentrò nuovamente, svuotando il più possibile la propria mente dal rumore schiacciante della disperazione, in modo che rimanesse soltanto il silenzio di quell’unico desiderio. Sentì una fulminea fitta di dolore passarle nel corpo, lasciando dietro di sé soltanto un tremito. Sulle sue labbra nacque spontaneo un sorriso soddisfatto, un'espressione che, come la facoltà di apparire, non utilizzava più da tempo immemore. Violet si diresse alla fine del vialetto, pronta ad intercettare l’attenzione dell’uomo non appena si fosse trovato abbastanza vicino. E se non si fosse fermato? Se non l’avesse neppure guardata? Cercò di scacciare quegli ansiosi pensieri, non le sarebbero stati d’aiuto. Quei pochi secondi di attesa passarono carichi di tensione.
Quando l’uomo si trovò nelle immediate vicinanze del cancello Violet poté guardarlo bene in viso. Era giovane, aveva i capelli scuri e portava vestiti strani che testimoniavano l’evoluzione del mondo nei millenni passati da quando Violet aveva smesso di esserne parte attiva. Il ragazzo si guardava intorno con aria attenta e presto si accorse della ragazzina che lo scrutava dalla soglia di quel rudere secolare, un palazzo abbandonato nei meandri del catasto, una rovina romana senza più padroni né destinazione. Affrettò il passo e le venne incontro, dicendo parole che Violet non riuscì a comprendere. Il mondo era cambiato profondamente e con esso anche le lingue con cui gli uomini si esprimevano. Violet lo aveva immaginato. Si espresse utilizzando ampi gesti, fissandolo negli occhi, cercando di comunicargli la sua mancanza di malizia e la bruciante, pressante necessità che lui la seguisse all’interno. Inizialmente il ragazzo cercò di parlare con lei, esprimendosi lentamente e con parole semplici, ma capì presto che lei non comprendeva le sue parole e rispose ai suoi muti inviti con gesti essenziali ma chiari: un semplice movimento del braccio destro le disse che voleva che venisse via con lui: forse anche lui aveva intuito cosa stava per accadere. La solerzia con cui cercava di convincerla a seguirlo sulla strada la commosse. Violet non poté fare altro che comunicargli tristemente, scuotendo la testa, che lei non poteva seguirlo. L’uomo la guardava confuso ma non spaventato e lei cercò, per quanto le era possibile, di dedurre chi fosse. I suoi occhi erano limpidi e non nascondevano alcun segreto. Sulla maglia che portava, chiara e priva di cuciture visibili, erano stampate grandi lettere in caratteri maiuscoli e questo particolare, unito al tono perentorio ma non rude con cui si era rivolto a lei, le fece pensare che non stesse semplicemente facendo una passeggiata ma che avesse un qualche compito da svolgere. La determinazione con cui cercava di comunicare con lei le fece pensare che avesse un ruolo simile a quello che tanto tempo prima avevano svolto i pompieri: lui era a conoscenza di ciò che stava per accadere e voleva portarla via, in un posto più sicuro, se mai ne esistesse uno. Ripensò al fatto che lui aveva puntato più volte l’indice verso l’alto. L’uomo, infine, era riuscito ad abitare altri pianeti al di fuori della Terra? O si trattava di una stazione spaziale? O cos'altro? Non avrebbe mai potuto scoprirlo. Soltanto di una cosa era certa: quella era la sua ultima speranza. Non ce ne sarebbero state altre. Sperò che lui fosse in grado di capire.
Violet si voltò e fece qualche passo in direzione dell’entrata, poi guardò alle proprie spalle. L’uomo la stava seguendo a passi incerti, anche se guardandosi frequentemente dietro le spalle. Le sembrò un segno incoraggiante.
Violet lo guidò attraverso la casa fino alla stanza dove teneva i suoi quaderni. Il ragazzo rimase immobile sulla soglia della camera fissandola confuso; era insieme spaventato e affascinato, e non riusciva a decidere quale delle due emozioni fosse più forte. Violet si inoltrò tra le pile di quaderni e prese il più vecchio. Lo sfogliò davanti a lui e poi glielo porse; lui lo sfogliò come aveva fatto lei e osservò attentamente i segni di inchiostro, le sue parole, probabilmente senza poterne cogliere il significato; quella scrittura doveva apparirgli tanto differente dalla sua quanto una lingua aliena. Violet sperava che conoscesse qualcuno in grado di comprenderla. Mentre lui sfogliava il primo quaderno con un'espressione corrucciata in volto Violet andò a prendere quelli successivi, in rigoroso ordine cronologico, e li dispose attorno a lui che dovette iniziare a capire, perché la guardò sgranando gli occhi. Il ragazzo frugò nella grande borsa che portava appesa alla spalla e ne trasse una barra metallica piuttosto lunga, lucida e levigata; nel momento in cui lui premette un certo punto iniziò ad emettere una tenue luce bluastra da una sottilissima fessura posta lungo tutta una metà. Violet gli si avvicinò più di quanto aveva osato fare fino a quel momento e afferrò il primo quaderno, aprendolo alla prima pagina, e glielo porse tenendolo aperto con entrambe le mani; lui lo prese delicatamente e lo appoggiò davanti a sé. Impugnò lo strano oggetto con la mano destra, in modo che la metà dotata di fessura luminosa fosse all'estremità opposta rispetto alla sua mano, e con essa sfiorò lentamente la pagina, coprendone ogni centimetro, dall’alto al basso. Una volta arrivato in fondo alla pagina lo strumento emise un piccolo suono. Il ragazzo tirò fuori dalla borsa un cilindro nero che Violet guardò prima con curiosità e poi con sbalordimento quando lui, aprendolo sul pavimento, ne mostrò l’utilizzo. Era un computer tattile composto da un grande schermo sottilissimo ma ampio che si accese al primo tocco. Violet inizialmente non riuscì a comprendere cosa lui stesse facendo: sfiorava la superficie digitando lettere più o meno conosciute e componendo parole che non avrebbe saputo pronunciare. Iniziò a capire quando vide che lui aveva avvicinato la barra luminosa allo schermo: dopo un paio di veloci operazioni, su di esso apparve la prima pagina del suo quaderno, perfettamente riprodotta in ogni suo particolare. Il ragazzo la guardò e lei gli sorrise, annuendo: aveva compreso. Lei voleva che lui portasse via con sé quei quaderni, che li perpetuasse anche dopo che gli originali fossero andati distrutti.
Il lavoro di copiatura si era subito annunciato come lungo e faticoso: la luce bianca che il cielo emetteva, però, non si era mai attenuata. Anche la notte era stata chiara come illuminata dal sole di mezzogiorno. Poteva quasi percepire la stanchezza dell'uomo, come se essa emanasse da lui in onde concentriche. Non si era mai fermato, tanto che pareva spinto da una necessità insopprimibile. Violet ne dedusse che il tempo a loro disposizione era davvero poco e i quaderni invece tantissimi. In quel momento sentì dopo tanti secoli il peso che il tempo pone sulle spalle ai mortali, la cronica mancanza di tempo che aveva afflitto anche lei. Pregò nella sua mente che il cielo non crollasse loro addosso, che li lasciasse finire, che permettesse a quel ragazzo di tornare da dove era venuto, di mettersi in salvo. Violet sentì qualcosa vibrare nella borsa abbandonata per terra: quel rumore poteva provenire da un dispositivo simile a un cellulare? Qualcuno lo stava cercando? Qualcuno da qualche parte là fuori temeva per la sua incolumità? Non avrebbe potuto perdonarsi se quel ragazzo fosse morto a causa sua. Il fatto che fosse ancora in grado di provare umanissima apprensione la sorprese piacevolmente.
Il ragazzo si stropicciò le palpebre con le dita, sospirando; poi si guardò attorno, osservò i muri scrostati, il pavimento distrutto e le finestre divelte. Quando la fissò negli occhi Violet vi lesse tante domande alle quali avrebbe voluto rispondere, se avesse potuto. Non erano argomenti che si potevano spiegare a gesti. Aggiunse un'altra speranza, quella più importante, a tutte le altre che in quelle ore aveva accumulato: che in quel nuovo mondo dove lui avrebbe portato le sue memorie ci fosse qualcuno in grado di tradurle per lui e per chiunque altro. Le azioni del ragazzo, tuttavia, la rincuoravano: il motivo per cui aveva accettato di iniziare un lavoro tanto estenuante in un momento così difficile poteva trovarsi nella certezza di poter tradurre quei testi. Provò un grande affetto per lui e, senza nemmeno pensarci, gli sfiorò le spalle. Lui si voltò e le toccò delicatamente un braccio, per poi immergersi nuovamente in quell'opera disperata.
Violet osservò con un misto di apprensione e agitazione le pile di quaderni non ancora scansionati – era questo ciò che lui stava facendo, o almeno lei la pensava così – che lentamente si riducevano per ricomparire all'altro lato della stanza, nelle pile di quelli già analizzati. Aveva impressa nella memoria ogni pagina di ogni quaderno, anche se a volte trovava difficile separare i singoli ricordi dal magma indistinto nella sua testa. Bastava che gettasse uno sguardo su uno di essi per ricordare tutto, la memoria che vi aveva impresso, i momenti in cui l'aveva scritto e le volte che l'aveva ricopiato. Le parve quasi che lui con il suo alacre lavoro la stesse lentamente smembrando, che stesse aprendo ogni singolo meandro della sua mente con un procedimento quasi autoptico. Tuttavia questo non la rattristava né la feriva: quel sordo dolore che stava provando era necessario, vitale, l'unico modo in cui avrebbe potuto sopravvivere a se stessa. Un sorriso le sbocciò sul viso quando vide che ormai soltanto una singola pila di quaderni restava da intaccare, circondata dalle sagome delle altre impresse sul pavimento. Non ci volle molto perché anche di quell'ultima non restasse altro che un segno netto nella polvere. Il ragazzo si alzò finalmente in piedi dopo molte ore: si sgranchì le gambe, guardò i mucchi di quaderni soddisfatto e si diresse verso lo schermo tattile che era rimasto aperto sul pavimento. Inserì uno o due comandi e sulla superficie lievemente illuminata comparvero le miniature di miriadi di pagine, tutte accuratamente riprodotte. Il sorriso sul suo volto si allargò. Spense il macchinario, lo arrotolò e lo ripose delicatamente in borsa. Violet gli porse la barra metallica, che era ancora calda dopo essere stata nelle sue mani per così tante ore. Anche quella sparì dentro la borsa e lei improvvisamente sentì un gran senso di vuoto che quasi le fece perdere l'equilibrio. Chiuse gli occhi per un momento, liberò la mente e la sensazione sparì, come se si fosse dissolta nell'aria.
Lo accompagnò al piano di sotto e fuori dalla porta. La luminescenza biancastra che dominava il cielo era sempre più forte e incandescente. Il mondo esterno sembrava quasi aver perso contorni reali e il rombo prima molto lontano ora era quasi vicino. Violet si fermò sull'erba secca del giardino, a pochi passi dalla strada, il confine che non avrebbe mai potuto varcare. Il ragazzo le passò accanto e con noncuranza avanzò sull'asfalto, invitandola con lo sguardo a seguirlo. Lei abbassò gli occhi, indicò con la mano destra il punto dove la terra e il cemento entravano in contatto e scosse la testa in segno di diniego. Non poteva andare oltre. Lui non poté certamente capire tutto, ma colse la gravità dei suoi gesti. Forse, in una qualche parte del suo animo, comprese una piccola parte di verità. La fissò tristemente negli occhi. Doveva dirle addio. Per alcuni istanti si fissarono senza poter fare nulla: l'aria e i loro cuori erano pesanti. Sebbene avessero condiviso soltanto poche ore tra le loro mani era passata la forma di una vita intera, un fiume turbinante di carta e inchiostro che aveva cambiato percorso all'improvviso. Il ragazzo tornò sui suoi passi e la avvolse in un abbraccio caldo, intimo, umano. Violet ricambiò con tutto il calore di cui poteva essere capace un fantasma sbiadito e pallido. Probabilmente lui dovette trovarla terribilmente fredda perché mentre la stringeva si irrigidì per un momento, come colto da un brivido gelido. Quando si separarono la fissò con gli occhi sgranati: aveva appena scoperto un altro piccolo indizio del mistero che non avrebbe avuto il tempo di svelare sulla Terra. Qualcosa nella sua borsa ricominciò a vibrare e questa volta lui si chinò a frugare nella borsa. Ne trasse un piccolo oggetto quadrato opaco e levigato che accostò all'orecchio. Una voce umana parlava in fretta dall'altro capo, preoccupata. Sembrava una voce femminile. Lui rispondeva sereno, e dal tono Violet dedusse che avrebbe dovuto raggiungere le persone che lo stavano aspettando subito, perché il tempo a sua disposizione era finito. Trovò che la sua voce così umana, prodotto di vere corde vocali, fosse bellissima. La conversazione finì e lui si voltò verso di lei. Non riusciva a pensare di doverla lasciare là. Lei gli sorrise, cercando di rasserenarlo. Alzò una mano in segno di saluto. Lui la prese e la strinse tra le sue, la accarezzò. Lei gli sfiorò il viso. Dopo qualche istante di indecisione lui si incamminò verso la strada, ma continuò a voltarsi verso di lei fino a quando non fu troppo lontano. Violet rimase dov'era, immobile, a fissare la sua sagoma nera sempre più lontana, finché non si ridusse ad un punto indistinguibile dagli altri.
Non avrebbe saputo determinare per quanto tempo rimase lì: poiché l'oscurità notturna non calava più, era praticamente impossibile suddividere il tempo in unità regolari. A complicare ulteriormente il computo vi era il fatto che Violet, essendo un fantasma, non provava fatica in nessuna situazione. Per quanto ne sapeva potevano esser passati due giorni o un mese da quando aveva guardato il ragazzo allontanarsi nella luce. Il rombo si era fatto talmente forte da essere assordante, tanto che anche il terreno pareva vibrare con esso. Tuttavia, riflettendo, ipotizzò che potessero essere incominciate piccole scosse di terremoto a cui probabilmente sarebbero seguite altre molto più forti e devastanti. Decise di tornare all'interno. La luce brillante del cielo non le permetteva di vedere più nulla. Nel momento in cui mosse il primo passo si rese conto di essere ancora visibile e con un piccolo sussulto della coscienza smise di esserlo. A quel punto non aveva nessuna rilevanza.
Tornò nella stanza dove tutti i suoi quaderni erano ammassati: si appoggiò alla pila più alta con la schiena. Se questa era davvero la fine voleva smettere di esistere tenendo negli occhi come ultima immagine l'accumulo ordinato dei suoi ricordi, la prova materiale che lei era vissuta. Pensò al ragazzo e agli altri esseri umani che erano con lui, sperò che avessero trovato la salvezza. Pensò ai suoi compagni di sventura, a tutti gli spiriti che non vedeva da tempo immemorabile: pensò a Tate e ai suoi genitori. Magari anche loro si trovavano con lei in quella stanza polverosa, disciolti nell'aria. Si congedò da loro col pensiero e, anche se non erano davanti a lei, fu comunque molto triste. D'altro canto una qualche conclusione, infine, era arrivata anche per loro. Benché non avesse una fede particolarmente forte trovò conforto nell'indeterminatezza piena di speranze che portava con sé l'idea di aldilà. Forse anche loro avrebbero varcato il confine del mondo terreno, con un ritardo di qualche migliaio di anni. Cercò di convincersi che si sarebbero rincontrati là, che avrebbe potuto finalmente parlare con Tate e sua madre l'avrebbe abbracciata forte riconoscendola come Violet, sua figlia.
Non restava che attendere.

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