Il tallone d'Achille di Terminator
Perché i sequel di Terminator venuti dopo Terminator 2 – Il giorno del giudizio arrancano narrativamente? Visto che ho finito gli esami e soffro di logorrea da tastiera, ho cercato di darmi delle risposte. Chiunque abbia il coraggio di leggere tutto questo papiro ha la mia ammirazione. I tre disegni che, oltre ai due fotogrammi dai primi due Terminator, accompagnano il post sono schizzi e disegni preparatori di James Cameron per il primo film e li ho trovati sulla pagina Facebook della Stan Winston School of Character Arts, che consiglio caldamente di seguire a chiunque ami il cinema e gli effetti speciali.
Le premesse
Sono ormai ventiquattro anni che il
franchise di Terminator non vede un vero, ampio successo: i film
venuti dopo Terminator 2 – Il giorno del giudizio (Terminator 2: Judgment Day, James Cameron,
1991) hanno tutti avuto accoglienze piuttosto contrastate di critica
e di pubblico. Terminator 3 – Le macchine ribelli (Terminator 3: Rise of the Machines, Jonathan Mostow,
2003) tentava di riaprire la strada che James Cameron aveva chiuso
nel capitolo precedente con una sceneggiatura zoppicante, un umorismo
a volte poco efficace, dialoghi ridondanti e parecchie ingenuità
nella regia e nel montaggio: è piuttosto difficile accettare, per
esempio, che in un film composto da un unico, lungo e precipitoso
inseguimento John Connor si soffermi ad osservare la T-X momentaneamente immobilizzata perdendo alcuni preziosissimi secondi
di vantaggio. È lampante, quindi, che qualche minuto finale
profondamente drammatico non potesse riscattare un'ora e mezza di
idee mal sfruttate o non buone. Terminator Salvation (McG, 2009),
nonostante lo scarso successo al botteghino, aveva l'onore e l'onere
di rischiare, spostando la narrazione nel distopico futuro della
guerra contro le macchine, eliminando viaggi nel tempo e la presenza,
sempre gradita ma un po' ingombrante, di Arnold Schwartzenegger, e
proponendo inoltre un interessante ibrido per metà umano e per metà
macchina. I bassi incassi e il continuo trasferimento dei diritti da
una società all'altra hanno fatto sì che i progetti di una trilogia
ambientata nel futuro venissero accantonati per dedicarsi a produrre,
invece, il più tradizionale Terminator Genisys (Alan Taylor, 2015),
i cui incassi nei primi dieci giorni di sfruttamento non sembrano soddisfare pienamente Paramount e Skydance e la cui ricezione da parte della critica è stata piuttosto negativa
(38/100 è la media delle recensioni prese in considerazione da Imdb,
26% quella di Rotten Tomatoes). Effettivamente, non si può certo
dire che quest'ultimo sia un film perfetto: la trama è un
susseguirsi di viaggi temporali generanti paradossi a non finire che
finiscono per risultare fastidiosi (e dire che questa è una saga in
cui si tende ad essere, a tal riguardo, molto permissivi) e la regia
di Alan Taylor, dopo Thor: The Dark World (2013), sembra non aver
ancora trovato una propria dimensione all'interno della tipologia
produttiva del blockbuster, procedendo anonima e senza guizzi
creativi dall'inizio alla fine. Un'ironia un po' dissacrante permea
quasi tutte le sequenze, ma è talmente poco coerente con l'universo
narrativo che ha intorno che sembra presa di peso da un film prodotto
dai Marvel Studios. Tra gli attori si distingue solo Arnold Schwarznegger,
il cui personaggio è probabilmente, alla fine dei conti, l'unico
veramente riuscito (sorrisone agghiacciante compreso); gli altri non
lasciano grandi tracce nella memoria dello spettatore. Inoltre, come Jurassic World (Colin Trevorrow, 2015) che di poco lo ha preceduto sugli schermi delle
sale cinematografiche di tutto il mondo, Terminator Genisys è
impregnato di un marcato effetto nostalgia che appare come una resa
in partenza: crediamo che non riusciremo mai a creare un sequel che vi sembri
all'altezza dei capitoli precedenti, che avete visto decine di volte
e di cui sapete le battute a memoria, perciò invece di rischiare di
stupirvi positivamente o negativamente tentando di aprire una nuova
strada preferiamo riprendere pedestremente l'originale oppure
proporvi scene d'azione completamente composte da elementi già
presenti in quelle che avete ammirato anni addietro. Quest'ultima è
senza dubbio un'ottima strategia economica nel breve termine (la
nostalgia per gli anni ottanta-novanta in questo periodo è una forte
calamita per il pubblico), ma è pur vero che non si è scoperto mai
nulla di nuovo e di potenzialmente interessante continuando a battere
sempre le stesse vecchie strade, ed è un ragionamento che vale per
tutti, spettatori e produttori.
La domanda
Ad ogni modo, tutte queste riflessioni
sul franchise di Terminator portano le persone con una propensione al
porsi domande inutili come la sottoscritta a chiedersi: cosa è
mancato alla saga di Terminator negli ultimi ventiquattro anni?
Perché una serie con alti incassi e con buone possibilità di
sviluppo sembra non riuscire a produrre un film unanimemente
apprezzato dal 1991, al di là dello scarso coraggio nelle scelte
creative? Ci sono delle ragioni strutturali dietro tutto questo? Dopo
un po' di riflessione sono giunta a considerare tre elementi che
secondo me si trovano alla base delle difficoltà che sceneggiatori e
registi si trovano ad affrontare nel momento in cui vengono
incaricati del difficile compito di aggiungere un capitolo alla
storia dei robot assassini venuti dal futuro.
1. La storia è già conclusa
Girando Terminator 2 – Il giorno del
giudizio, Cameron ritornò sulla sua prima opera senza più
limitazioni di budget e realizzò un sequel ed un remake insieme: la
pellicola, infatti, riprende moltissimi elementi dal primo film, come
l'arrivo di due personaggi dal futuro che combattono l'uno contro l'altro, la continua
fuga, il primo scontro con la macchina assassina in un luogo
affollato e molti altri. Tutto ciò, però, viene inserito in una
trama più ampia e che si pone chiaramente l'obbiettivo di porre fine
alla saga. Alla fine del film tutti i possibili sbocchi narrativi che
potrebbero portare ad un sequel trovano la loro conclusione: la
creazione di Skynet viene impedita e si previene che l'intelligenza
artificiale possa venire inventata di nuovo, tutte le tracce dei
Terminator – e del futuro di cui sono gli inquietanti alfieri –
sono scomparse. Se il finale della versione uscita al cinema nel 1991
poteva ancora lasciare qualche flebile possibilità, quello inserito
nella versione Director's Cut, invece, chiude la partita mostrandoci
una vecchia Sarah Connor che osserva figlio e nipote insieme in un
mondo in cui il giorno del giudizio non è mai arrivato. Da qui,
forse, la necessità di riscrivere in un certo senso la storia nei
capitoli seguenti, fatta eccezione per Terminator Salvation che, come
si è detto, evita l'annoso confronto con i suoi predecessori
spostando la narrazione nel futuro della guerra contro le macchine.
Terminator 3 – Le macchine ribelli, infatti, ha al centro
un'apocalisse nucleare inevitabile nonostante gli sforzi fatti anni
prima; Terminator Genisys si propone come una sorta di reebot
dell'intera saga utilizzando l'espediente nel viaggio nel tempo per
costruire, sfruttando gli elementi già conosciuti, un universo
narrativo differente. Tali operazioni comportano, ovviamente, dei
problemi di coerenza interna.
2. Un dilemma comune
La storia della saga di Terminator, se
si guarda solo ai primi due capitoli, è composta da un gruppo
ristretto di personaggi e da un nucleo di avvenimenti principali non
troppo grande, e questi due elementi rendono più difficile
espanderla. Certo, in fondo Terminator è principalmente una serie di
film di inseguimenti su sfondo fantascientifico, ma questo non
significa che non debba avere personaggi convincenti e una trama
accettabile. La rivolta di Skynet, il giudizio universale, la guerra
contro le macchine guidata da John Connor: tutta la saga si articola
intorno a queste tre pietre miliari, che non sono molto flessibili,
anzi, tutto il contrario. Sarah, John, Kyle, il T-800 CSM 101:
quattro personaggi principali che permettono combinazioni e
possibilità narrative abbastanza limitate (che Terminator Genisys
cerca di aggirare modificando il passato). Questo è un problema
comune ad altre saghe: il fascino di Indiana Jones sta, logicamente,
nel suo personaggio principale, intimamente legato ad un certo
contesto (i film di avventura degli anni trenta e quaranta rivisti da
Spielberg e Lucas con gli occhi e i mezzi del cinema americano degli anni ottanta) e
se cambiare il personaggio principale è impossibile, è difficile
anche spostarlo avanti nel tempo sia per quanto riguarda la storia, sia per quanto riguarda la produzione di essa, come dimostra Indiana Jones
e il teschio di cristallo (Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull, Steven Spielberg, 2008). Del resto, la forma del lungometraggio
cinematografico che nel corso dei decenni si è imposta comprende
generalmente pochi personaggi principali e l'attenzione su un numero
limitato di eventi. Il problema sta nel fatto che, se la miscela
comprende pochi elementi, ottenere vicende avvincenti riutilizzando
sempre lo stesso meccanismo è possibile soltanto per un numero
limitato di volte. Altre saghe cinematografiche, come Guerre stellari
o Harry Potter, non soffrono particolarmente di queste difficoltà
perché pur incentrandosi su di un gruppo ristretto di personaggi
principali creano attorno a loro interi universi abitati da miriadi
di personaggi secondari che possono, se ce ne fosse la necessità,
salire alla ribalta. La trilogia prequel di Star Wars comprende,
questo sì, tra i personaggi principali molti volti conosciuti,
Obi-Wan Kenobi tra tutti, ma ne introduce anche molti nuovi, come
Padmé e, in un certo senso, anche lo stesso Anakin, prima conosciuto
solamente con indosso la maschera di Darth Fener. Inoltre, Star Wars Episodio IV: Una nuova speranza (Star Wars Episode IV: A New Hope, George Lucas, 1977)
è sì il primo film (cronologicamente parlando) della serie, ma
dissemina qua e là nel corso del suo svolgimento riferimenti a molti
eventi avvenuti precedentemente (le Guerre dei cloni, la caduta della
Repubblica Galattica, l'amicizia – ormai finita – tra Obi-Wan e
Anakin, la sottrazione dei piani della Morte Nera da parte di una
squadra ribelle) che formano un florido substrato per lo sviluppo di
altre storie che vengono legittimate dal loro essere state già
precedentemente menzionate e quindi già esistenti, potenzialmente,
nella mente dello spettatore, che quindi non le sente come aggiunte
arbitrarie al canone. Del perché un settimo capitolo di Guerre
stellari sia interessante parliamo poi in un'altra occasione, perché
questo post è già abbastanza lungo senza che io divaghi più di
quanto stia già facendo.
3. No URSS, no party
Il 1991 non è ricordato soltanto come
l'anno in cui il maggiore incasso cinematografico fu Terminator 2 –
Il giorno del giudizio, ovviamente: in quell'anno, infatti, si
scioglieva definitivamente l'Unione Sovietica, decretando la fine del
bipolarismo USA-URSS. Il fatto che il film di Cameron sia uscito con
un tempismo perfetto è puramente casuale (una lunga battaglia legale
sui diritti precedette la realizzazione del film e si dovette
aspettare che regista e attori principali fossero disponibili) ma non
per questo meno affascinante. La Guerra fredda è il protagonista non
dichiarato di Terminator (James Cameron, 1984) e di Terminator 2 – Il giorno del giudizio, o, per meglio dire, lo sono le suggestioni derivanti da essa. Concetti come quelli di
guerra nucleare,
inverno nucleare o ordigno dell'apocalisse
(chiamato
anche significativamente macchina del giudizio universale) sono tutti
fortemente presenti nelle due opere di Cameron. Il mondo futuro di
Terminator non è altro che la rappresentazione delle conseguenze più
estreme di una continua e sfrenata corsa allo sviluppo bellico, che
nella realtà del nostro mondo è stata il vero campo di battaglia
della Guerra fredda. Il mondo in cui Sarah Connor vive balla
spensierato col walkman in mano sull'orlo di una catastrofe nucleare
e tecnologica: è questa inquietudine pulsante (come le note del tema
di Brad Fiedel) a rendere tangibile la minaccia rappresentata da
Skynet, e la fine definitiva della micidiale intelligenza artificiale
nel secondo capitolo rappresenta, in un certo qual modo, la fine di
un'epoca e delle sue paure. I film che sono seguiti a Terminator 2 –
Il giorno del giudizio hanno dovuto fare i conti con delle condizioni
sociopolitiche molto differenti e forse qualcosa dell'idea originale
è andato perduto. Terminator 3 – Le macchine ribelli si appigliava
ai timori portati dagli inizi dell'era digitale, Terminator Genisys a
quelli portati dalla sua – supposta – maturità. Un virus o la
dipendenza da smartphone, tuttavia, non sono certo tematiche in grado
di suggerire cupi scenari di distruzione al livello di un disastro
nucleare da tre miliardi di morti, che rimane sempre presente
all'interno della storia, beninteso, ma spinto troppo in secondo
piano, fattore che debilita la sua funzione – fondamentale per la
riuscita del film – di incubo venuto dal futuro.
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