Suburra (Stefano Sollima, 2015)
Suburra (Stefano Sollima, 2015) è un
lungo, rumoroso addensarsi di nuvole nere che promettono una tempesta
di dimensioni inenarrabili; alla fine, però, quello che cade dal
cielo è solo un acquazzone estivo. Le vicende rappresentate, pur
essendo del tutto fittizie, sono pesantemente ispirate a recenti
fatti di cronaca italiana ed in questo, in linea teorica, non ci
sarebbe nulla di male; ma la mano che descrive e gestisce gli
avvenimenti è pesante e poco accurata, ed alla rielaborazione
narrativa preferisce un collage di articoli di giornale che manca di
approfondimento. Si potrebbe argomentare dicendo che la realtà è in
sé irrappresentabile, in quanto composta da innumerevoli sfumature
che il solo occhio della macchina da presa, per quanto accurato, non
può supporre di cogliere; ed è chiaro quindi che, se ad un racconto
che, pur prendendo le mosse dalla realtà, la utilizza per tracciare
un suo disegno personale se ne preferisce uno che da questa è in
tutto e per tutto dipendente senza cercare l'affrancamento, il mondo
reale finisce per risultare molto più interessante ed imprevedibile
della sua pallida imitazione, condannata a ripetere pedissequamente
quanto già detto, già visto, già vissuto. I personaggi sono sagome
da poligono di tiro, immagini bidimensionali, così ricalcate su
persone realmente esistenti da sembrare dei sostituti – gli
originali saranno stati impegnati in una puntata di Porta a porta –
con delle capacità recitative più che buone; ci sarebbero le
potenzialità per sviluppare delle personalità interessanti – il
mondo criminale ha sempre il suo fascino, dopotutto – ma non si
rischia un'immersione in profondità, si naviga a pelo d'acqua e
senza usare il sonar. Ci sono molti modi con cui è possibile mettere
in scena un politico corrotto e con passioni pericolose, un
capofamiglia mafioso, un reuccio di città con le mani in pasta
ovunque, un uomo meschino senza arte né parte: Sollima, parandosi
dietro lo scudo dell'attualità, sceglie di farlo nel modo più
scarno e banale possibile, appiattendo i personaggi fino a farli
diventare maschere che non ci spaventano né ci interessano più. La
realtà, l'abbiamo già detto, ci ha abituato a mostri peggiori e più
affascinanti. L'idea di fondo sembrerebbe essere quella di
rappresentare un mondo senza più speranze, a pochi giorni dalla
fine: il risultato, invece di essere ipnotico e piacevolmente
velenoso, finisce per assomigliare ad un unico tasto ribattuto
impunemente per due ore e dieci minuti. Tutto è malvagio, nulla può essere
salvato, nulla può essere fatto se non aspettare che arrivi il
giorno del giudizio, lasciandosi trascinare dalla corrente di una
trama che non nasconde e non rivela ma che semplicemente si snoda
senza sorprese, navigazione lungo la costa. L'eliminazione delle
forze dell'ordine, che nel romanzo da cui Suburra è tratto
apparivano in forze – almeno, così si legge in giro – è, con
tutta la buona volontà dell'universo, ingiustificabile: si elimina
così il polo opposto dello schieramento, si annulla il conflitto nel
tentativo di rafforzare la rappresentazione di una dannazione eterna
che suona, proprio per questo, ancora più artificiale. Sommerge il
tutto una gran quantità di grigia pioggia torrenziale, che ci
verrebbe la tentazione di definire un cliché, e una colonna sonora
che, se in alcuni punti è accettabile, in altri finisce per
soffocare irragionevolmente il film sotto una patina falsamente
introspettiva. Se questo è un esempio del migliore cinema di
intrattenimento che l'industria italiana riesce a proporre, la strada
per arrivare a dei prodotti validi ed internazionalmente competitivi
ci pare ancora piuttosto lunga.
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