Moonlight, la recensione
Scritto e diretto dal trentottenne Barry Jenkins, Moonlight
racconta l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza di Chiron,
nato in un brutto quartiere di Miami, figlio di Paula (Naomie Harris),
dipendente dal crack. Alex R. Hibbert, Ashton Sanders e Trevante
Rhodes si passano con fluida abilità il ruolo del protagonista lungo
i tre segmenti di cui si compone il lungometraggio, ognuno dotato di
un proprio titolo. Nonostante l’ambientazione sia realistica e
sporca, il tono utilizzato è quello un po’ rarefatto della fiaba,
ed è del tutto possibile descrivere Moonlight come una tenera storia
d’amore in tre atti.
Le panoramiche vertiginose con cui Jenkins riprende i compagni di
gioco e di scuola di Chiron mettono in scena con chiarezza quanto sia
difficile per lui affermare la propria diversità dagli altri, che lo
ingabbiano con i loro sguardi severi, incapaci di comprenderlo.
Chiron è del tutto chiuso in sé stesso, sempre sulla difensiva:
guarda il mondo dal basso in alto. L’unica persona che riesce a
sbrecciare il suo muro è lo spacciatore di quartiere Juan
(Mahershala Ali), dotato di un grande cuore, che lungo le miserabili
strade del ghetto è considerato come un piccolo possidente terriero.
Non c’è nessuna boria in lui, ma solo una quieta vulnerabilità;
aver capito come raggiungere la cima della catena alimentare in un
ecosistema in cui l'ascensore sociale è perennemente fuori servizio non significa essere privi di
sensi di colpa, i quali sono portati alla luce dolorosamente dall’incontro con
Chiron e sua madre, le cui disgrazie sono in gran parte legate alla
droga. Paula non è una madre anaffettiva: la sua rabbia e le sue
crisi d’astinenza però sono travolgenti quanto il suo amore per il
figlio, incastrato suo malgrado in una situazione estremamente
difficile e spesso violenta, dalla quale non sembra esserci via di
fuga. Naomie Harris sullo schermo è una forza travolgente, una
tempesta minacciosa anche quando l’obbiettivo della macchina da
presa si allontana da lei. I tormenti del suo personaggio salgono
alla fine in superficie in una scena di struggente bellezza e
semplicità. Agli antipodi rispetto a Paula sta Teresa (Janelle
Monáe),
la moglie di Juan, che con la propria calma determinazione riesce a
conquistarsi un posto nel cuore di Chiron e a fornirgli un temporaneo
riparo dalle stravaganze materne.
Lungo tutto il film la messa a fuoco è millimetrica, si concentra
sui volti dei personaggi lasciando sfumare tutto quello che sta
attorno a loro. Il sobborgo desolato di Miami è importantissimo
all’interno della storia, ma ciò che interessa davvero a Jenkins è
come esso influisce e plasma chi lo abita, quali segni lascia su di
loro. Non ha paura di guardare dentro gli occhi annebbiati di Paula.
Quando l’inquadratura si allontana, per esempio quando Chiron
attraversa l’ingresso della scuola, a dominare sono le sottili ed
un po’ alienanti distorsioni dei grandangoli.
Il mondo di Moonlight è disperato ed oppressivo, eppure non
riesce a soffocare davvero l’amore tra due ragazzini. Una spiaggia
deserta lambita dalle onde dell’oceano è l’unico luogo in cui
essere davvero liberi, e Jenkins riempie le scene lì ambientate di
un palpabile afflato poetico, in cui il tempo si ferma e lo spazio si
restringe a pochi metri quadri di sabbia, un paio di onde e qualche
palma all’orizzonte. Il rapporto tra Chiron e Kevin attraversa
tutti e tre i segmenti: come tutti gli amori che contano davvero,
anche la loro relazione è un lento processo di scoperta di sé
attraverso l’amato, che ci osserva come nessun altro è in grado di
fare. Il romanticismo di Moonlight è estremo, lirico, forse
addirittura fuori moda, tuttavia la sua forza non è mai esibita ma
quasi del tutto occulta, e sulla scena arriva la potente tensione del
conflitto tra esteriorità ed interiorità. Moonlight è tanto
taciturno quanto il suo protagonista, e allo stesso tempo intimo e
pieno di sentimento.
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