mercoledì 30 dicembre 2020

Fuori programma: AVANTI

Dopo molte più peripezie di quante ci saremmo mai potuti aspettare, siamo arrivati al termine del 2020. Negli ultimi anni ho riservato alle sole riflessioni cinefile questo piccolo spazio digitale, una scelta dopotutto assai ragionevole. Bisogna pur dare un obiettivo e una forma definita a un blog, non si può farne materia informe e confusa. L'altro giorno, però, mentre camminavo per strada, ho pensato che sarebbe stato bello concludere questo anno così strano tirando fuori dal cassetto un racconto scritto un anno fa e come al solito mai pubblicato, ma inviato soltanto a poche persone di fiducia, tra le quali non posso fare a meno di citare l'amico di vecchia data Andrea Calosso, che oltre a leggerlo con interesse lo ha anche corretto; colgo l'occasione per ringraziarlo. È una storia intima e un po' inquietante, nata dal bisogno di elaborare alcuni rapporti e il loro significato per me, forse addirittura un po' leziosa in certi frangenti. Avendola scritta principalmente per soddisfare una necessità personale, però, non mi sono preoccupata troppo del suo realismo, lasciando che andasse dove le pareva. Credo comunque che possa essere una compagnia abbastanza soddisfacente per chi si immergerà nelle sue righe, magari per il tempo di un tè. Non amo i buoni propositi, mi generano troppa ansia, ma se dovessi sceglierne uno per l'anno venturo, direi: essere più libera di scrivere, creare, andare fuori dai limiti che mi impongo da sola. Auguri a tutti e, per chi vorrà, buona lettura dopo l'intervallo.


AVANTI



    Aveva già messo in valigia quel maglione blu. Se ne ricordava perfettamente: era il primo che aveva sistemato sopra la pila di jeans. Eppure era lì, disteso sul copriletto, come se l’avesse appena sfilato per cambiarsi. Sospirò. Lo prese tra le mani con rassegnata pazienza, lo ripiegò e lo sistemò alla bell’e meglio sopra la biancheria, non trovando dentro di sé la voglia di riordinare per l’ennesima volta il contenuto della valigia. Prese in mano il cellulare e guardò l’ora: era molto in ritardo. Certamente non sarebbe riuscita a rispettare la tabella di marcia che aveva stabilito nei giorni precedenti. Inviò un breve messaggio di scuse a Marco, il suo fidanzato: non sarebbe riuscita a raggiungerlo per cena, si sarebbero visti l’indomani al momento della partenza. Le rispose quasi subito, accettando la spiegazione che gli aveva dato con comprensione. Molto spesso, in simili frangenti, la sua tolleranza nei suoi confronti la stupiva. Si passò una mano sul volto stanco, sciolse e si rifece la coda in cui aveva raccolto i capelli: non sarebbe stato facile. 

    Si guardò attorno, scrutando la stanza. Il pavimento era disseminato di scatoloni pieni per metà: in realtà, molti li aveva sigillati ore prima, ma sentì nascere dentro di sé una punta di disperazione nel notare come in quel momento il nastro che aveva usato ciondolasse tremulo dai bordi, strappato con forza dal cartone. Sul davanzale erano ammucchiati alla rinfusa una manciata di libri, e sulle due mensole sopra la scrivania erano adagiate mollemente le sue sciarpe, penzolanti come serpenti che sonnecchiavano su un ramo. Dalle ante aperte dell’armadio si intravedeva qualche vestito, lanciato con poca grazia sopra l’asta per appendere le grucce. Sul letto, in mezzo alle valigie e ai borsoni spalancati, erano sparsi i suoi vecchi diari del liceo, consumati dal tempo e dall’uso. Stavano da anni nello scaffale più basso della libreria, e quasi non passava giorno senza che non  lanciasse loro un’occhiata; ma quel giorno le sembrarono provenire da un’altra dimensione come mai prima d’allora. Prese tra le mani con delicatezza quello del suo secondo anno: le pagine dei giorni di scuola erano coperte dalla sua scrittura dell’epoca, ancora molto tondeggiante ed infantile, anche se il tratto, con lo scorrere dei mesi, si faceva sempre più preciso, avvicinandosi progressivamente a quello attuale. Lo aprì verso il fondo, sui mesi estivi. Trovò una lunga e sdolcinata dedica della sua migliore amica, Marta. Iniziava con un “Cara Camilla”, seguito da un cuore disegnato con un pennarello rosso. Accarezzò il foglio con delicata dolcezza. Sfogliando il diario ne vide molte altre, lunghe o brevi. Non ricordava gli attimi precisi in cui erano state scritte, ma dalle profondità della sua mente sorse un’immagine vivida, che in sé ne conteneva molte altre, compresse l’una sull’altra dallo scorrere inesorabile del tempo. La sua migliore amica, seduta nel mezzo della fila di banchi al centro della classe, intenta a vergare parole affettuose per lei nella sua migliore grafia, trincerata dietro una pila di libri per proteggersi dagli sguardi inopportuni delle professoresse, la mano che passava in rassegna le penne alla ricerca del colore giusto per esprimere ciò che pensava il cuore. La luce calda del sole primaverile, che entrava dalle grandi finestre situate sul lato opposto della stanza, faceva risaltare il suo profilo delicato, il piccolo naso dritto, le labbra morbide, le lunghe ciglia scure, e rendeva particolarmente evidenti le sfumature dorate dei suoi lucidi capelli castani. 

    Erano state inseparabili per gran parte di quell’anno, dentro e fuori dalla scuola. Avevano preso l’abitudine di tornare a casa insieme già dopo le vacanze di Natale dell’anno precedente, e attraverso quel breve tratto di strada condiviso avevano forgiato un’amicizia profonda e sincera, un’alleanza che trovava le proprie radici più nelle reciproche differenze che nelle affinità. 

    Marta aveva sempre avuto un carattere forte ed impetuoso: in classe faceva continuamente domande e si lanciava sfrontatamente in discussioni che non poteva vincere, rimediando un discreto numero di note disciplinari. Camilla aveva supposto allora che ad allontanarla da provvedimenti più severi fosse stata soltanto la sua grande passione per alcune materie, come letteratura italiana e latino, abbastanza forte da compensare il suo quasi assoluto disinteresse per molte altre, in particolare quelle scientifiche. Dal canto suo, lei era sempre stata più disciplinata. Prendeva appunti placidamente, in silenzio, alzando solo di rado gli occhi dal foglio, e studiava il necessario per mantenere una buona media. Apprezzava molto alcuni argomenti, ma non prediligeva nessuna disciplina in particolare, tranne forse la matematica. I suoi temi erano spesso ben scritti e sufficientemente approfonditi, ma non avevano l’energia emotiva di cui ribollivano quelli di Marta, qualunque fosse l’argomento trattato. Nel corso degli anni aveva maturato la convinzione che ad attirarle l’una verso l’altra fosse stato proprio il loro modo diametralmente opposto di intendere il mondo. L’incontro tra i loro differenti punti di vista era per entrambe una continua scoperta. 

    Di quella specifica giornata non ricordava molto in particolare. Era stata banale e simile ad altre, assieme alle quali, nella sua mente, formava una foschia densa e confusa. Immaginava di aver alzato con tranquillità la testa dal libro nel momento in cui il campanello aveva suonato. Aveva iniziato a studiare da sola, perché il giorno seguente era prevista una molto temuta verifica di algebra e Marta era in ritardo. Si erano messe d’accordo per studiare insieme a casa sua all’uscita da scuola, ma non aveva risposto né ai suoi messaggi né alle sue chiamate. Se il resto delle sue memorie era oscuro, tuttavia, il momento in cui aveva aperto la porta era invece chiarissimo. La sua mano si era allungata verso la maniglia e l’aveva abbassata, poi aveva tirato la porta verso di sé. Un brivido di terrore l’aveva scossa dal collo fino alle anche: il volto terreo di Marta le era apparso di fronte come un incubo infiltratosi nella realtà, coperto di lacrime, gli occhi rossi e così spalancati da sembrare sul punto di rotolare giù dalle orbite. La sua migliore amica l’aveva fissata con il mento tremante, la gola piena di parole che non sembravano in grado di oltrepassare la barriera delle labbra senza scomporsi in un pigolio confuso. Incespicando, si era fatta da parte per farla entrare, sgomenta ed incredula, mentre sentiva il cuore picchiare violentemente contro le costole. 

    Marta era rimasta immobile vicino al divano, come se avesse voluto crollare su di esso ma ne fosse allo stesso tempo tremendamente spaventata. Avrebbe voluto avvicinarsi a lei, ma in quel momento le era sembrato di avere i piedi incollati alle mattonelle di marmo del pavimento, come se fossero stati trafitti da frecce da un invisibile cecchino. Nel silenzio, rotto soltanto dai respiri affannati di Marta, aveva sentito la presenza di qualcosa di immenso e terribile, che né allora né in seguito avrebbe mai trovato le parole esatte per descrivere. Era una disperazione così profonda ed oscura che penetrava nelle ossa e le svuotava dall’interno. Il telefono aveva squillato all’improvviso, facendola sobbalzare come se si fosse trattato di una scossa di terremoto. Continuando a fissare la sagoma della sua amica, di spalle rispetto a lei, si era avvicinata all’apparecchio e aveva risposto. All’orecchio le era giunta la voce tremante e lacrimosa di sua madre. Non l’aveva mai sentita così prima di allora. C’era stato un incidente meno di un’ora prima, in una stradina poco lontano da casa sua. A causa di un malore, un signore di mezza età aveva perso il controllo della propria vettura, una pesante berlina, e aveva sbandato sul marciapiede travolgendo un’adolescente. I soccorsi erano arrivati quasi immediatamente, ma la situazione era apparsa subito disperata. L’impatto con le lamiere della carrozzeria era stato troppo violento per il fragile corpo di Marta. La vita era fuggita da lei prima ancora che venisse caricata in ambulanza. A partire dalla sua mano aggrappata alla cornetta, una sensazione di gelo si era espansa nel suo corpo: dapprima aveva risalito il braccio, poi aveva raggiunto il collo e infine era affondata nel cuore e nello stomaco. I suoi pensieri si erano disciolti in una poltiglia insensata.

    Non ricordava di aver riagganciato la cornetta; dopo quel momento nella sua memoria si trovava un vuoto che non sapeva riempire. Era come se il suo ippocampo avesse smesso tutto a un tratto di funzionare. Tutto quello che rimaneva erano brandelli di immagini e sensazioni, lunghe notti insonni passate a rigirarsi nel letto, il sudore freddo incollato alla pelle, Marta accovacciata dietro alla porta della sua stanza o sotto la scrivania, gli occhi umidi che rilucevano nel buio come perle, i singhiozzi che sembravano non avere fine, parole sconnesse, sussurrate come preghiere. Durante le due settimane successive non aveva rimesso piede a scuola. I suoi genitori, pienamente convinti che avesse bisogno di tempo e tranquillità per cercare di elaborare il trauma che aveva subito, erano stati molto comprensivi con lei. 

    Al funerale si era presentata l’intera classe e buona parte degli studenti delle altre; alcuni erano rimasti fuori, perché la chiesa non era abbastanza grande per contenere tutti. Nemmeno nelle più fredde mattine invernali i loro volti le erano apparsi così lunghi e pallidi. Il pianto inconsolabile della madre di Marta aveva riecheggiato lungo le volte, un suono tormentoso e tremendo. Lo sguardo di Camilla si era concentrato sui riflessi lucidi del legno chiaro della bara. Per lei era un evento assurdo, surreale. In quella cassa non poteva esserci la sua migliore amica, o almeno, non la parte più importante, perché era intrappolata nella sua stanza da letto come un canarino in gabbia. 

    Il sole era sorto e tramontato più volte dalla finestra della sua camera durante quei lunghi giorni solitari; le sottili linee di luce che le tende chiuse lasciavano filtrare danzavano attraverso lo spazio seguendo una cadenza ben precisa. Ogni tanto una di esse si era posata sulla tremante e silenziosa figura di Marta, passandole attraverso come se il suo corpo fosse stato modellato nel vetro. Era uno spettacolo affascinante e insieme mostruoso, tanto che Camilla aveva iniziato a pensare di essere scivolata in uno stato di febbrile follia. Anche se chiudeva gli occhi, non appena li riapriva lei era di nuovo lì, a pochi passi da lei, con gli occhi sempre pieni di lacrime.  

    Un po’ alla volta, però, silenziosamente, il profondo affetto che le aveva unite in precedenza aveva trovato il modo di riemergere, resistendo all’assurdità della situazione e riuscendo perfino a rafforzarsi. Durante una delle ultime notti di quell’esilio solitario Camilla si era svegliata all’improvviso, colpita da una lieve brezza fredda che sembrava essere riuscita a sfiorarle direttamente la pelle passando sotto le coperte e la maglia che indossava. Aveva aperto gli occhi e si era trovata faccia a faccia con Marta, distesa sul letto accanto a lei, sopra le coperte. Non aveva peso; era come se fosse stata soltanto di poco più densa di un’ombra. Mentre fissava intensamente la sua testa, Camilla era certa di essere riuscita ad intravedere attraverso di essa la sagoma del comodino e del libro che vi era poggiato sopra. Per la prima volta da quando il suono del campanello aveva frantumato il tessuto della realtà così come lo conosceva, la sua migliore amica le aveva parlato pronunciando parole di senso compiuto. Non piangeva più, il terrore era stato ricacciato in profondità da qualcosa di più forte. Dopo tanti anni Camilla non ricordava più che cosa le avesse detto, ma l’emozione che aveva provato nel risentire di nuovo la sua voce sicura e decisa era stata immensa, travolgente. L’alba del giorno successivo segnò in lei il nascere di una nuova determinazione. La tragica scomparsa di Marta dava alla sua esistenza un nuovo e più profondo significato, e il fatto che una parte della sua amica fosse rimasta accanto a lei, aveva riflettuto, lo dimostrava. Lo promise a Marta la sera prima di ritornare in classe: avrebbe vissuto tutte le esperienze che all’altra erano ormai precluse per sempre, condividendole. Non si sarebbe più accontentata di attraversare pigramente un giorno dopo l’altro, ma li avrebbe esplorati uno ad uno, per entrambe. Gli occhi della sua migliore amica, nell’ascoltarla, si erano illuminati di gioia e di riconoscenza.

    Nelle settimane successive  aveva partecipato al primo collettivo studentesco della sua carriera di liceale; in classe aveva iniziato a fare domande e osservazioni con meno timidezza. Studiava con un interesse che spesso sembrava del tutto alieno ai suoi compagni, che reputavano più degni di attenzione i piccoli, comuni drammi dell’adolescenza. Gradualmente, aveva cercato di ampliare il proprio orizzonte. Durante gli intervalli e le assemblee si era posta l’obiettivo di cogliere più occasioni possibili per far conversazione e conoscere persone nuove. Si era costruita, nel corso dei mesi, un gruppo di amici abbastanza nutrito con i quali uscire e divertirsi. Tornata a casa raccontava il giorno appena trascorso a Marta fin nei minimi dettagli, e la sua amica l’ascoltava sempre con vivo interesse. Non c’era nulla che le risultasse noioso o banale. Avevano continuato a fare i compiti assieme come al solito; i voti di Camilla erano in gran parte frutto del loro lavoro di gruppo. Le era capitato, a volte, di riuscire quasi a scordare quello che era successo. 

    Durante le vacanze natalizie del suo terzo anno aveva baciato per la prima volta un ragazzo; era uno studente di un’altra sezione, di un anno più grande di lei, che aveva conosciuto ad una festa organizzata a scuola dai rappresentanti d’istituto. Avevano iniziato a parlare quasi per caso sul finire della serata, e si erano ritrovati a scherzare e a lanciarsi occhiate fino al momento di andare via. Con un po’ di imbarazzo le aveva chiesto il numero mentre si avviavano all’uscita, e lei glielo aveva dato, sentendo dentro di sé un brivido di emozione. Erano usciti qualche giorno dopo, di pomeriggio, da soli. Le loro labbra si erano toccate sul marciapiede al momento di separarsi e tornare a casa, ed era successo con una naturalezza che Camilla non avrebbe mai immaginato possibile. Marta era stata felice per lei e aveva ascoltato il suo resoconto dell’incontro rapita ed eccitata. Lei aveva dato il suo primo bacio all’inizio del secondo anno, al cinema, ad un ragazzo più grande di loro che aveva conosciuto su Internet. Avevano continuato a sentirsi per un po’, intraprendendo una relazione acerba che era presto terminata. Anche nel caso di Camilla la frequentazione era stata abbastanza breve e non troppo approfondita, ma comunque accuratamente analizzata nelle lunghe riflessioni che lei e la sua migliore amica avevano condiviso la sera, prima che si addormentasse. 

    C’erano stati in seguito altri appuntamenti e altri fugaci legami, che avevano superato i baci per esplorare ulteriori aspetti dell’intimità; Camilla si era accorta allora che la sua migliore amica aveva iniziato ad essere insofferente verso alcuni suoi racconti. Quando le descriveva un suo incontro con un qualche ragazzo, lei distoglieva lo sguardo e batteva le palpebre nervosamente. Sembrava che l’ascoltasse per dovere più che per piacere. Non aveva aspettato molto prima di chiederle le ragioni del suo comportamento, ma se in passato Marta non aveva mai avuto problemi ad esprimere i suoi sentimenti e la sua opinione sui più disparati argomenti, in quell’occasione aveva preferito barricarsi dietro una serie di risposte laconiche, rifiutando di aprirsi sinceramente con lei. Tuttavia, osservando il volto teso ed immobile della sua migliore amica, al quale si accostavano i gesti rigidi e veloci delle mani che intrecciavano nervosamente i capelli incorporei, Camilla aveva creduto di comprendere cosa stesse alla radice del suo turbamento. Marta non avrebbe mai potuto conoscere ciò che stava oltre i casti baci adolescenziali; la sua naturale esplorazione della dimensione sessuale dell’esistenza era stata interrotta quasi sul nascere, e ciò che rimaneva di lei non era che un’ombra in grado soltanto di osservare ciò che aveva attorno, senza poter partecipare ai rituali e agli eventi della vita. Il supplizio di Tantalo. Camilla aveva sentito il proprio cuore sprofondare dolorosamente nel senso di colpa. Da quel momento aveva smesso di parlare troppo apertamente delle proprie avventure con il sesso opposto a Marta; aveva imparato a raccontarle ciò che le succedeva censurando ciò che sapeva poterla disturbare. Era sempre stato evidente, ai suoi occhi, che Marta potesse facilmente intuire che in quei discorsi c’era molto di non detto: ma sembrava che questo non la irritasse, e che anzi la rendesse felice. In un certo senso, aveva ragionato tra sé e sé Camilla, era un atto d’affetto nei suoi confronti. Per la stessa ragione aveva cominciato ad evitare di invitare altre persone ad entrare nella sua camera; nel caso di relazioni sentimentali il divieto di accesso si estendeva all’intera casa. Ogni tanto le era capitato di sentirsi come la sacerdotessa di un tempio sacro e inaccessibile a chiunque, pieno di segreti che non potevano essere rivelati. Era un incarico che considerava nobile e magnanimo, anche se spesso estremamente faticoso.

    Dopo l’incidente Camilla aveva tenuto Marta costantemente aggiornata su quanto succedeva in classe e in tutta la scuola, così approfonditamente che a volte si era resa conto di essersi scordata che la sua migliore amica non metteva piede in quel luogo da anni. L’esame di maturità era stato un rito di passaggio per entrambe. La notte prima del tema di italiano l’avevano passata insieme, sedute sul letto in mezzo ai libri e ai quaderni aperti, non tanto per ripassare quanto per ricordare ciò che era stato. Oltre all’ansia da prestazione, c’era anche un’altra angoscia a turbarle: nel giro di qualche settimana si sarebbero separate per sempre dal luogo che le aveva unite, e Camilla avrebbe avuto di fronte a sé una nuova vita da iniziare. Nessuna delle due aveva avuto il coraggio di verbalizzare la domanda che aleggiava nell’aria: il loro legame sarebbe sopravvissuto a questo cambiamento? 

    Dopo l’orale quell’estate era stata per Camilla un grande giro di giostra. Le era sembrato che l’universo intero si fosse dischiuso di fronte a lei, pieno di possibilità da cogliere liberamente. Non c’era stato giorno in cui non fosse uscita insieme ai suoi amici per andare da qualche parte, ad esplorare luoghi sconosciuti e a fare nuove esperienze. Pochi mesi prima aveva preso la patente, ma solo in quelle lunghe nottate calde, al volante della macchina di sua madre, aveva iniziato a sfruttarla e ad apprezzare davvero le possibilità che le permetteva di cogliere. Si sentiva parte di una combriccola festante e vagabonda, perennemente in cerca di avventure. Insieme a tutti gli altri era andata una settimana in campeggio in una località di mare poco lontana. Avevano vissuto in stretto contatto tra loro e con la natura, con l’intensità e la spensieratezza di una farfalla che non ha che poche ore di luce da vivere. I dubbi, le aspettative e i timori su ciò che sarebbe venuto da settembre in poi erano affidate a brevi discussioni sussurrate tra le tende, nella penombra fresca e silenziosa prima dell’alba. Nelle profondità del proprio animo, e in particolare durante quei giorni lontana da casa, Camilla aveva sentito un forte senso di colpa accumularsi lentamente, goccia a goccia. Non aveva potuto fare a meno di pensare a Marta, isolata e impossibilitata a partecipare ai grandi festeggiamenti. Mentre loro tutti, tra gli scherzi e le risate che in fondo servivano a nascondere la paura, si allontanavano dalla riva per inoltrarsi nell’oceano della vita adulta, la sua migliore amica non avrebbe potuto far altro che guardarli dal bagnasciuga, senza poterli seguire. Eppure, nonostante l’insorgere di tanti radicali cambiamenti, Marta non le era sembrata per nulla rattristata, né prima che partisse né quando era tornata. Da quando aveva smesso di parlarle delle sue avventure sentimentali le sue profonde angosce sembravano essersi calmate. Gli oggetti sembravano rispondere al suo tocco come sollecitati da un campo magnetico; era un fenomeno affascinante da osservare e oltretutto, aveva riflettuto Camilla, rendeva le sue giornate solitarie un po’ meno tediose. Aveva passato mesi a sfogliare attentamente gli opuscoli delle varie facoltà universitarie; appollaiata sulla sedia della scrivania, dove amava sedersi anche prima dell’incidente durante i loro pomeriggi insieme, scandagliava Internet dal computer di Camilla alla ricerca di ulteriori informazioni e consigli. La scelta del corso universitario la riempiva di gioia ed eccitazione come se avesse riguardato anche il suo futuro. Ne avevano parlato molto durante gli ultimi pomeriggi di agosto e Camilla, a distanza di anni, si era convinta che la sua presenza e il suo sostegno erano stati fondamentali per lei in quel momento. Dopo molti dubbi e ripensamenti aveva scelto Economia, concordando con Marta che si trattava della scelta migliore per lei, che era sempre stata così razionale, organizzata e soprattutto molto portata per le scienze e la logica. Tra sé e sé Camilla aveva ipotizzato che se il destino fosse stato più clemente con lei, la sua migliore amica avrebbe scelto di dedicarsi a qualcosa di creativo, e se l’era immaginata come sarebbe stata, con gli occhi lucidi e pieni di emozione, vestita in colori sgargianti alla sua prima lezione universitaria. Aveva immaginato i messaggi che si sarebbero scambiate, i caffè che avrebbero condiviso ogni tanto per raccontarsi le reciproche esperienze. Di queste sue malinconiche fantasie non aveva mai parlato a Marta; soprattutto dopo aver effettuato l’immatricolazione, quando ormai tutto era stabilito e non c’era più nulla su cui sognare, aveva notato che a volte la sua migliore amica assumeva un atteggiamento distante, perdendosi a guardare nel vuoto con un’espressione stanca, e aveva temuto che con simili discorsi non avrebbe potuto fare altro che deprimerla ulteriormente.  

    Del suo primo giorno di lezioni Camilla ricordava distintamente il profondo senso di smarrimento; il corridoio principale dell’immenso edificio in cui aveva passato la giornata le era sembrato l’atrio di una stazione privo di indicazioni, in cui sembrava quasi impossibile raggiungere il treno che si stava cercando. Tutti i ragazzi e le ragazze che le erano passati accanto sembravano sapere dove andare, come sospinti da un vento che lei non riusciva a sentire. Quando si era seduta in uno dei posti della grande aula che, dopo un po’ di ricerche, aveva finalmente trovato, aveva preso un gran numero di appunti sentendosi insieme affascinata e confusa. Aveva supposto di non essere l’unica a provare questa sensazione tra i molti che lì dentro, come lei, stavano vivendo per la prima volta quell’esperienza; ma nessuno sembrava mostrarlo. Nessuna mano aveva tremato, nessuna voce aveva balbettato, nessun paio d’occhi si era alzato perplesso dal quaderno sotto di sé. Tutti, compreso il professore, sembravano seguire il ritmo di una musica per lei inudibile. 

    In quei primi lunghi mesi, e per molti di quelli a seguire, Marta era assurta a pilastro della sua esistenza. Non frequentava più spesso come in precedenza i suoi amici, impegnati al pari di lei nell’imparare a destreggiarsi tra nuovi impegni ed orari, e con i suoi compagni di lezione non aveva ancora instaurato rapporti molto stretti; il fulcro delle conversazioni era sempre un esame, un libro da studiare o un dubbio su qualche argomento. Spesso fuori dalla sua stanza si era sentita persa, come se fosse stata immersa nel bel mezzo di un grande specchio d’acqua ai bordi del quale non vedeva nessuna chiara destinazione. Quando tornava a casa vedere Marta in camera sua, seduta ad aspettarla, la faceva sentire rincuorata. La loro routine era sempre la stessa: le raccontava la sua giornata, discutevano più o meno a lungo su qualche evento in particolare e poi si mettevano a studiare insieme, come avevano continuato a fare. Camilla aveva sempre pensato che a Marta l’economia piacesse poco o addirittura per nulla, ma aveva supposto che se ne interessasse comunque per poterle stare accanto nel suo percorso. Quando non la seguiva nelle sessioni di studio, Marta leggeva i libri che Camilla prendeva in biblioteca appositamente per lei o esplorava il mondo virtuale attraverso il computer. La diffusione capillare dell’uso dei social network avvenuta in quel periodo le aveva dato la possibilità di esistere almeno su un piano del reale: si era creata un profilo sotto un falso nome su Facebook e passava molte ore a parlare con altre persone su pagine e gruppi che trattavano argomenti a lei congeniali. Camilla pensava, con il senno di poi, che quello fosse probabilmente stato il periodo più felice che avevano passato insieme dopo l’incidente. 

    Con il tempo Camilla aveva costruito nuovi rapporti di amicizia e rinsaldato alcuni di quelli vecchi. Aveva ricominciato ad avere una vita sociale intensa e frenetica; andava a sentire conferenze e concerti, al cinema, a ballare, a visitare musei. Al centro del suo continuo vagabondare, tuttavia, c’era sempre Marta, chiusa nella sua stanza ad aspettare il suo ritorno, ad ogni ora del giorno e della notte. Camilla aveva accettato molto raramente inviti a dormire fuori casa; non avrebbe sopportato di lasciare sola la sua migliore amica troppo spesso e troppo a lungo. Era un dovere che aveva sentito di avere nei suoi confronti, almeno da quando aveva iniziato a passare molto tempo fuori casa, e che cercava di rispettare il più possibile. Sua madre aveva iniziato allora a suggerirle che era arrivato il momento di sostituire la sedia della sua scrivania, ormai vecchia e malandata tanto da essere quasi inutilizzabile, ma lei si era opposta strenuamente. Era l’oggetto che Marta preferiva della stanza e non avrebbe avuto il cuore di toglierglielo. Avevano parlato molto raramente di lei e della sua condizione in modo diretto: Camilla aveva sempre supposto che sarebbe stato troppo doloroso per lei. La sua assurda esistenza post-mortem si svolgeva tutta all’interno di quelle quattro mura, senza poter parlare con nessun altro che con lei. I suoi genitori non avevano mai potuto vederla né percepirla, anche se entrambe non erano mai riuscite a comprenderne davvero l’esatta motivazione. Marta poteva rendersi invisibile a suo piacimento anche di agli occhi di Camilla, ma lo faceva molto di rado, e mai troppo a lungo. Le aveva confessato una volta che non era particolarmente piacevole perché non essere vista da lei la faceva sentire fragile, una pura coscienza senza appiglio sulla realtà. Camilla non sapeva se Marta aveva mai cercato notizie su sua madre e suo padre: se lo aveva fatto non gliene aveva parlato, ma in realtà dubitava che ci avesse mai provato. Se anche fosse esistito un modo non era per nulla convinta che Marta l’avrebbe utilizzato. Mettersi in contatto con loro non avrebbe reso meno amara la sua situazione, e in fondo c’era la concreta possibilità che servisse soltanto ad acuire la sua e loro sofferenza.  

    Camilla aveva conosciuto Marco durante il suo penultimo anno di università. Si erano incontrati alla festa di compleanno di una loro amica comune in un locale del centro città, un sabato sera di novembre. Inizialmente non aveva saputo cosa pensare di quel ragazzo con le spalle larghe, i capelli ricci e la barba a chiazze, che si era messo a parlare allegramente e animatamente degli ultimi concerti che si erano tenuti nei dintorni con lei e con i suoi amici, lanciandole ogni tanto uno sguardo. Eppure i suoi occhi azzurri e sinceri, che brillavano dietro i piccoli occhiali tondi, l’avevano fatta sentire abbastanza ben disposta verso di lui da accettare di lasciargli il proprio contatto Facebook quando glielo aveva chiesto. Non aveva temporeggiato molto prima di proporle di uscire, giusto una manciata di messaggi in chat. Camilla aveva apprezzato il suo spirito d’iniziativa. L’aveva invitata a vedere uno spettacolo in un piccolo teatro del centro che lei non conosceva; nella sala non era presente un palco, e gli attori si esibivano in uno spazio vuoto al centro delle gradinate dove sedeva il pubblico. La scena era essenziale e i costumi altrettanto, ma le voci e le espressioni degli attori erano potenti abbastanza da creare ciò che non era materialmente presente. Era stata una rappresentazione affascinante e molto lontana da qualunque cosa avesse visto in passato Camilla. Marco si era rivelato uno studente di lettere con una sconfinata passione per l’arte drammatica e le aveva raccontato un sacco di aneddoti interessanti e curiosi, guardandola dolcemente negli occhi con un lieve sorriso stampato sulle labbra. Camilla aveva sentito nascere dentro di sé un’affezione calma e serena, una connessione che le dava un senso di profonda pace interiore, mai provata nei confronti di nessuno. Era quasi spaventata da quanto velocemente fosse sbocciata. 

    Quando erano usciti dal teatro egli le aveva proposto di andare a bere qualcosa in un locale poco lontano e lei aveva accettato senza nemmeno pensarci. Aveva seguito i suoi passi fedelmente e mentre camminavano sul marciapiede gli aveva preso la mano, spinta da un istinto irrefrenabile. Egli gliel’aveva stretta gentilmente, accarezzandole con delicatezza le dita. Avevano camminato per un bel po’ in mezzo alla calca del sabato sera, facendosi largo tra capannelli rumorosi di altri ragazzi raggruppati qua e là, ma lei si era sentita tranquilla e protetta come se si fosse trovata nel suo letto, avvolta in una calda coperta nel bel mezzo dell’inverno. La città le era apparsa come una bella e luminosa casa di bambola dove muoversi liberamente, senza paura. Avevano comprato un paio di bottiglie di birra in un locale e si erano seduti sui gradini di una chiesa che dava su una piazza piuttosto trafficata, uno accanto all’altra. Marco le aveva chiesto la sua opinione sullo spettacolo che avevano appena visto e l’aveva ascoltata con grande attenzione, riflettendo insieme a lei, da pari, senza voler esserle superiore o, al contrario, sentirsi inferiore, come molto spesso era capitato quando in passato era uscita con altri ragazzi. Avevano anche discusso riguardo alcuni dettagli che avevano interpretato in modo diverso, ma sempre con grande rispetto e mai con la presunzione di avere l’assoluta ragione. Dopo un po’ avevano iniziato a parlare di argomenti più personali, come le loro aspettative per il futuro, i propri timori, l’amore. Egli le aveva sussurrato i propri pensieri con grande franchezza e lei si era sentita spinta a fare lo stesso. In quella reciproca e liberatoria apertura Camilla aveva sentito il formarsi di un forte legame. 

    L’aveva riaccompagnata a casa in macchina, guidando lentamente attraverso le strade ormai quasi del tutto deserte; avevano fatto molto tardi. Camilla ricordava distintamente di aver percepito il suo cuore battere con grande forza nel petto: per tutta la durata del viaggio di ritorno si era domandata, piena di eccitazione e paura come sull’orlo di un precipizio, se al momento di salutarla l’avrebbe baciata. Quando erano arrivati sotto casa sua, Marco si era girato verso di lei e l’aveva stretta a sé in un abbraccio che era durato una decina di secondi. Sentire il corpo di Marco attorno a sé e il calore del suo respiro lento accanto al suo orecchio era stata per Camilla una sensazione bellissima e molto intima. Aveva aperto il portone di casa sentendosi in armonia con l’universo intero, e salendo le scale del palazzo le era venuta voglia di cantare; soltanto l’ora tarda l’aveva spinta a trattenersi. Era entrata nella sua camera di soppiatto, cercando di non attirare l’attenzione di Marta, intenta a leggere un articolo sullo schermo del computer nel buio quasi assoluto. Si era sentita come una ladra che nasconde un gioiello preziosissimo tra i propri vestiti. 

    Il primo bacio era arrivato al secondo appuntamento, subito dopo essersi incontrati, poco lontano dalla fermata dell’autobus, in mezzo a orde di studenti liceali schiamazzanti. Camilla aveva sentito una parte di sé sciogliersi come miele, rilasciando una tenera dolcezza che non aveva mai saputo neppure di possedere. Avevano passato il pomeriggio impegnati in un gioco che si era inventato Marco in quel momento: cercare angoli, anfratti e rientranze dove amoreggiare non visti, non per vergogna o per paura, ma per il divertimento di abbandonarsi a un senso di infantile trasgressione. Camilla durante quelle ore si era sentita travolta da una felicità assoluta che non provava da molto tempo; con lui poteva ridere, dire stupidaggini, esporre i propri pensieri, non importa quanto profondi o leggeri. Marco era intraprendente, inventivo, pieno di entusiasmo per la vita e, cosa ancora più importante, sapeva trasmetterlo a chi aveva intorno. Faceva parte di una piccola compagnia teatrale e Camilla era andata a vedere un suo spettacolo dopo qualche settimana da quando avevano iniziato a frequentarsi: sul palco si muoveva sicuro e tranquillo, anche se lei era a conoscenza, perché gliele aveva confessate, delle tante insicurezze che aveva. Eppure nonostante tutto era in grado di restare aperto nei confronti del prossimo, senza alzare difese, e questo la colpiva e la faceva sentire orgogliosa di lui, e la incentivava a migliorare se stessa, a seguire il suo esempio. 

    Non aveva mai parlato direttamente di Marco con Marta; a dire il vero, per quanto riusciva a ricordare non l’aveva mai nemmeno nominato. Eppure era certa che la sua amica ne avesse intuito la presenza sin dagli albori della loro relazione. Ogni volta che era tornata a casa piena di gioia e di amore dai loro primi appuntamenti, lei l’aveva fissata intensamente, con sospetto, spalancando gli occhi e seguendo i suoi movimenti come un gatto randagio di fronte ad una minaccia. Non le aveva mai domandato nulla, ma in più di un’occasione aveva sospettato che aspettasse che si fosse addormentata per leggere i suoi messaggi. In quel periodo le era capitato sovente di trovare il cellulare fuori posto, con la batteria completamente esaurita nonostante la sera prima lo avesse caricato. Probabilmente avrebbe dovuto arrabbiarsi, ma i rimorsi della sua coscienza non glielo avevano permesso. Il senso di solitudine di Marta in quel periodo doveva essersi intensificato; Camilla passava sempre meno tempo nella sua camera. L’unica cosa che aveva nascosto di sé a Marco era proprio il suo inusuale rapporto con la sua migliore amica. Sebbene egli fosse estremamente comprensivo e sensibile, sarebbe stato troppo difficile, incredibile e doloroso da spiegare. Mantenere il segreto, tuttavia, nella sua opinione era stato quasi altrettanto arduo. Non le era mai stato possibile invitarlo a casa sua; aveva sempre temuto la reazione di Marta, che dubitava sarebbe stata in grado di subire in silenzio senza far presente in qualche modo il suo disappunto. Per studiare si trovavano in biblioteca al pomeriggio, e quando dormivano insieme condividevano il letto nella stanza di Marco, mai nella sua. Camilla quasi non riusciva a capacitarsi di come il ragazzo avesse potuto accettare compromessi tanto grandi, a maggior ragione poiché lei non era mai stata in grado di fornirgli una spiegazione ragionevole per quelle limitazioni. Di fronte ai suoi occhi allegri e sinceri non aveva avuto il coraggio di inventarsi problemi familiari inesistenti o qualche altra menzogna; gli aveva detto soltanto che c’era un motivo ma che non poteva parlargliene. Marco l’aveva guardata dritta nelle pupille, a lungo, facendola sentire trapassata da parte a parte da un raggio di luce invisibile ma potente, poi aveva sorriso e le aveva detto che le credeva, perché in lei non aveva visto nulla di malizioso. Anche se a volte quella sua incrollabile fede nel proprio istinto lo portava a peccare di ingenuità, in quel caso aveva permesso alla loro relazione di sopravvivere nonostante le avversità. 

    Con il passare del tempo Camilla aveva sentito la distanza tra lei e Marta aumentare inesorabilmente. Mentre lei trascorreva gran parte delle sue giornate a studiare e a scrivere la tesi, la sua migliore amica ascoltava continuamente le vecchie canzoni dei gruppi musicali che andavano di moda quando loro facevano il liceo e sfogliava nostalgicamente i suoi vecchi diari e quaderni. Camilla aveva provato a discutere con lei di quello che le passava per la testa in quel momento, ma aveva trovato che fosse diventato molto difficile farsi capire: i commenti e i pensieri di Marta erano quelli di sempre, tuttavia erano ormai passati molti anni da quando entrambe erano state entusiaste sedicenni e pochissimo era rimasto uguale ad allora. La sua amica, prigioniera di un’eterna adolescenza, non era più in grado di comprenderla davvero; se ne era presto resa conto lei stessa e l’averlo realizzato la faceva soffrire profondamente. Avevano iniziato a parlare sempre più di rado; per lo più condividevano silenziosamente uno spazio comune, ancora legate dalla grande forza di quello che era stato.

    Camilla aveva trovato un buon lavoro nell’ufficio vendite di una grande azienda poco tempo dopo essersi laureata; anche se non si trattava di un’occupazione particolarmente appassionante o stimolante per lei, era pagata piuttosto bene. Marco, invece, si barcamenava tra tanti, piccoli lavori di poco conto mentre continuava a scrivere e recitare negli spettacoli della piccola compagnia di cui faceva parte, ottenendo discrete ed incoraggianti recensioni. Nel giro di qualche mese era stato in grado di prendere in affitto un monolocale all’ultimo piano di un vecchio palazzo nel centro della città, e spesso Camilla si fermava a dormire da lui. Durante le prime ore del mattino, guardando distrattamente il soffitto pieno di crepe illuminato dalle lingue di luce che entravano dalla finestra, portavano avanti lunghe discussioni sussurrate con un filo di voce. Ricordava che faceva molto freddo ed erano abbracciati stretti sotto le coperte quando lui per la prima volta aveva parlato di andare a vivere insieme. Era stata solo un’allusione, ma lei aveva sentito il suo respiro rallentare e un brivido salirle lungo la schiena. Ormai stavano insieme da qualche anno e, anche se si era immaginata che occasionalmente il poco realismo di Marco e il suo pragmatismo si sarebbero scontrati, non aveva faticato ad immaginare quanto avrebbe potuto essere bello e stimolante condividere una casa, non essere più separati. Quasi immediatamente, però, il piacevole flusso di questo pensiero aveva impattato violentemente contro un nome: Marta. Per iniziare la sua vita con Marco avrebbe dovuto abbandonarla. Non si era mai voluta chiedere davvero se l’esistenza in forma di spirito della sua migliore amica fosse strettamente legata alla sua stanza o alla sua casa, anche se era certa che in tutti quegli anni, nonostante il progressivo raffreddarsi dei loro rapporti, lei non avesse mai avuto intenzione di allontanarsi, rimanendo saldamente aggrappata al suo rifugio in un mondo che sentiva non appartenerle più. Toglierle quella sicurezza le era sembrato crudele, ma allo stesso tempo era diventata pienamente cosciente del fatto che non fosse possibile per lei rimanerle accanto per sempre, a meno di non sacrificare la sua stessa vita. Marta non sarebbe mai stata in grado di convivere con Marco, di accettarne la presenza e quello che significava. Camilla aveva temuto che per la sua migliore amica sarebbe diventato sempre più doloroso essere la silenziosa testimone della sua esistenza. Ogni piccolo o grande avvenimento le avrebbe ricordato tutto ciò che non avrebbe mai potuto avere, l’avrebbe costretta a soffrire costantemente a causa di un passato impossibile da cambiare. Del resto, aveva ritenuto che una situazione del genere sarebbe stata penosa e insopportabile anche per lei, e che avrebbe spento lentamente il suo entusiasmo privandola della felicità, spingendola all’inattività e al silenzio pur di non ferire Marta. Si sarebbe creata una terribile stasi che alla fine avrebbe consumato entrambe. 

    Nei meandri della sua mente Camilla aveva chiaramente stabilito quali fossero le azioni da compiere, ma, pur essendo profondamente convinta della loro correttezza, spostarle dal piano del puro ragionamento a quello della realtà era stato molto complesso. Aveva provato e riprovato tra sé e sé durante innumerevoli e tediose giornate di lavoro ciò che avrebbe voluto dire a Marta, ma ogni volta che tornava a casa e si trovava davanti a lei non riusciva a pronunciare neanche una sillaba di quelle parole che ormai conosceva a memoria. A volte capitava che chiacchierassero del più e del meno, del tempo o delle notizie del giorno. Camilla replicava con frasi brevi ed impersonali, senza rivelare quasi nulla delle sue emozioni e dei suoi sentimenti, nonostante le occasionali insistenze della sua amica. Il volto etereo e malinconico di Marta, con gli angoli della morbida bocca sempre più rivolti all’ingiù, le provocava una forte stretta allo stomaco tutte le volte che il suo sguardo cadeva su di esso. Era per lei la prova tangibile di come la sua migliore amica riuscisse comunque a percepire le sue intenzioni segrete e di quanto il solo intuirle la facesse profondamente soffrire. L’unico argomento che pareva in grado di risollevarle l’umore per un po’ era ricordare gli episodi del loro passato condiviso, ma Camilla trovava che per lei stesse diventando una conversazione sempre più difficile da sostenere. La sua memoria di quei tempi lontani si faceva sempre più sbiadita e imprecisa, mentre Marta rammentava qualunque dettaglio di ogni avvenimento, come se fosse successo soltanto il giorno prima. Il legame che da molto tempo le stringeva l’una all’altra  nell’immaginazione di Camilla aveva cambiato natura; un po’ alla volta, da corda che teneva a galla entrambe si era tramutato in un cappio che si stringeva attorno ai loro colli, impedendo loro di allontanarsi da quella stanza, di accettare l’inevitabilità del cambiamento. 

    In quei lunghi e bui mesi di indecisione e timore Marco non l’aveva mai abbandonata. Era rimasto al suo fianco, l’aveva accolta nel suo microscopico appartamento ogni volta che le era sembrato del tutto impossibile passare un’intera notte nella sua stanza senza sentire la propria mente lentamente e costantemente erosa dal ronzio incessante dei suoi pensieri negativi. Aveva asciugato le sue lacrime con le proprie dita e accarezzato le sue spalle tremanti, l’aveva baciata come se attraverso la propria bocca avesse potuto assorbire la sua sofferenza. Non aveva mai insistito per ottenere una spiegazione che lei riteneva di non essere in grado di dare, non aveva mai lasciato che i sospetti e le supposizioni che pure era naturale avere nella sua posizione lo dominassero. La purezza del suo amore per lei la sgomentava come un’apparizione divina e allo stesso tempo l’avvolgeva nel suo tepore, donandole conforto e sicurezza in un momento in cui non riusciva a trovarli dentro di sé. Eppure, nelle ombre violacee che erano apparse sotto gli occhi del ragazzo e nell’inusuale stanchezza che ogni tanto ammantava i suoi movimenti, Camilla poteva vedere quanto quella situazione pesasse su di lui come un masso invisibile che a poco a poco, nonostante la sua grande forza d’animo, lo schiacciava verso il basso. Molto spesso in quel periodo si era sentita affogare nell’immensità gelida del senso di colpa che provava verso di lui e verso   Marta. Le era sembrato che l’intera città fosse sprofondata sul fondo di un’oscura fossa oceanica, trascinandoli tutti con sé. 

    La chiave di volta si era presentata a sorpresa, sul finire di una lunga mattinata passata alla sua scrivania in ufficio a battere dati e numeri sulla tastiera del computer con il cuore pesante come se fosse stato rivestito di piombo fuso. L’avevano convocata in direzione poco prima della pausa pranzo e l’avevano informata che c’era un posto vacante nella sede della capitale: si trattava di un’ottima posizione nel reparto marketing, con mansioni più interessanti rispetto a quelle che svolgeva dove si trovava in quel momento e molto ben pagata. Visti i suoi risultati, la sua intelligenza e la sua passione avevano pensato a lei per occuparlo. Si era sforzata di ascoltare i responsabili con attenzione, cercando di arginare la moltitudine di emozioni che avevano preso ad agitarsi dentro di lei e che minacciavano di distrarla dalla situazione che aveva di fronte. Notando i suoi occhi spalancati e un po’ smarriti avevano aggiunto che le avrebbero dato qualche giorno per pensarci. Camilla aveva sorriso più che poteva, stringendo le loro mani e ringraziandoli. Quando era tornata alla sua scrivania per prendere la borsa e il cappotto e andare a pranzare si era accorta che le sue mani tremavano. Aveva faticato a mangiare, percorsa senza requie da scosse di felicità e terrore. Attorno a sé dopo tanto tempo aveva sentito qualcosa di nuovo, meraviglioso e terribile allo stesso tempo. Le parole che pronunciava e le azioni che compieva, anche le più banali, sembravano aver assunto una nuova e misteriosa importanza; dietro di esse non c’era più soltanto un dubbio nebuloso, ma anche una possibilità concreta che era possibile cogliere. 

    Quella sera aveva chiesto a Marco di cenare assieme in un piccolo ristorante che ad entrambi piaceva molto e, al momento del caffè, lo aveva messo al corrente della proposta che aveva ricevuto. Egli si era mostrato subito entusiasta: nel fondo delle sue pupille era ricomparso improvvisamente lo scintillio che Camilla non vedeva più brillare così forte da mesi. Le aveva detto che quella era una grandissima occasione: lei avrebbe ottenuto un lavoro più soddisfacente e vicino alle sue ambizioni, e lui dal canto suo avrebbe potuto inserirsi in un ambiente teatrale più vivo ed interessante rispetto a quello della loro città natale, di rilevanza nazionale. L’aveva assicurata che lasciare il suo lavoro e la compagnia teatrale non sarebbe stato un problema. Si sarebbero trasferiti e avrebbero potuto finalmente iniziare la loro vita insieme. Guardandola negli occhi, però, si era rabbuiato: non riusciva a capire perché lei avesse un’espressione così tesa, quasi triste. Camilla aveva abbassato gli occhi e l’aveva rassicurato, affermando che ovviamente era molto felice, era solo che l’eccitazione per quell’improvvisa novità l’aveva un po’ stancata. Egli le aveva sorriso e le aveva accarezzato una mano, le sopracciglia lievemente corrugate a dimostrare che un residuo di dubbio sulla sua sincerità comunque era sopravvissuto dentro di lui. Tornati al monolocale di Marco si erano infilati subito nel letto. A notte fonda Camilla si era ritrovata a fissare la debole luce elettrica dei lampioni che trapelava dalla serranda abbassata della finestra, incapace di trovare la pace necessaria ad addormentarsi. Preda della sua mente tormentata, le era sembrato di trovarsi sospesa sull’orlo di un precipizio profondissimo, impegnata con tutte le proprie forze a tenersi ancorata alla terraferma, consapevole che il più lieve soffio di vento l’avrebbe spazzata via. Anche se nelle sue fantasie a metà tra il sonno e la veglia non era riuscita a visualizzare il fondo dell’abisso, intuitivamente sapeva che se avesse lasciato la presa e si fosse lanciata sarebbe stata più felice di quanto era in quel momento e di quanto avrebbe mai potuto essere se avesse continuato a concentrare tutte le sue forze nell’opporsi alla gravità. Per saltare avrebbe dovuto affrontare il timore dell’ignoto, buttarsi senza guardarsi indietro. Nell’immobile silenzio della notte si sentì scossa da una scarica di adrenalina. Da quanto aspettava questo momento senza nemmeno averlo realizzato? Era la sua occasione per essere finalmente libera dalle pastoie del passato e pronta ad accogliere le incognite del futuro, e sentiva dentro di sé che se non l’avesse colta se ne sarebbe pentita a lungo, forse per sempre. 

    Era riuscita a sonnecchiare un po’ mentre albeggiava; quando le era sembrato opportuno era sgusciata silenziosamente fuori dal letto, si era lavata e vestita ed era sgattaiolata via prima che Marco si alzasse. Era arrivata al lavoro in anticipo e si era messa a compilare diligentemente documenti alla scrivania, gettando occhiate impazienti all’ora indicata in basso sullo schermo del computer. A metà mattinata si era alzata dalla sedia girevole e si era diretta verso gli uffici della direzione, chiedendo di essere ricevuta. Mentre compiva un passo dietro l’altro sul pavimento di grigio linoleum del corridoio le era parso di aver smesso di respirare, come se si fosse trovata in apnea su un fondale marino. Quando le avevano dato il permesso di entrare si era diretta subito verso i responsabili e aveva loro annunciato che avrebbe accettato l’offerta. Non aveva pensato: aveva agito guidata dall’istinto come un animale. Tutti le avevano sorriso e si erano complimentati con lei, elargendo consigli su come prepararsi al trasferimento e alla nuova posizione che avrebbe occupato. Aveva cercato di ascoltarli attentamente, ma concentrarsi sulle loro parole invece che sulle sue emozioni le risultava molto difficile, essendole d’improvviso sembrato d’esser diventata molto più leggera, quasi al punto di essere in grado di sollevarsi dal suolo e cominciare a galleggiare. L’aria che respirava, pur essendo intrappolata nelle grandi stanze e nei condotti di areazione di quel palazzo da tempo immemore, le pareva pura e piena d’ossigeno. Era stato come precipitare senza preavviso in una dimensione parallela, simile ma più luminosa e felice rispetto a quella che aveva abitato in precedenza. 

    Aveva informato i suoi genitori e Marco della decisione che aveva preso al termine della giornata di lavoro. Sua madre e suo padre inizialmente erano rimasti piuttosto interdetti; del resto, nei giorni precedenti non aveva accennato loro nulla riguardo la proposta che aveva ricevuto. Comunque si erano presto convinti, anche se Camilla era certa che sarebbe stato loro necessario ancora un po’ di tempo per metabolizzare davvero il grande cambiamento che di lì a poco sarebbe avvenuto. Marco, d’altro canto, era stato così felice della notizia che aveva abbandonato le prove con la compagnia a cui stava partecipando per correre ad incontrarla lungo la strada del ritorno e abbracciarla stretta, tanto da non farle più sentire l’aria gelida che sferzava sul marciapiede. Camilla gli aveva accarezzato amorevolmente la schiena, consapevole che quel momento rappresentava per entrambi il termine di mesi emotivamente molto difficili. Si erano baciati appassionatamente, senza prestare alcuna attenzione alla massa di gente che usciva dagli uffici o andava a fare compere prima della chiusura dei negozi, che ogni tanto urtava contro di loro. Quella sera, per festeggiare, erano andati a cena fuori insieme ai suoi genitori in uno dei ristoranti che preferivano e avevano fatto molto tardi. Camilla aveva iniziato ad informare anche i suoi amici, che avevano deciso all’unisono di organizzare una festa in suo onore. Avrebbe iniziato il nuovo lavoro tra tre settimane e lei e Marco prima di allora avrebbero dovuto occuparsi di una moltitudine di questioni, piccole e grandi. Avrebbero dovuto trovare un alloggio adatto e organizzarsi per il trasloco, e lui avrebbe dovuto licenziarsi e iniziare a cercare un nuovo lavoro. Camilla al solo pensarci sentiva l’agitazione infiltrarsi nei muscoli e irrigidirli, ma Marco non sembrava per nulla preoccupato. Quando erano tornati a casa e si erano salutati davanti al portone della sua casa, come erano soliti fare, gli occhi del ragazzo brillavano, nonostante la luce fornita dai lampioni e dalla luna fosse piuttosto debole. Per lui si trattava di una nuova, emozionante avventura in cui non vedeva l’ora di lanciarsi insieme a lei. Il suo entusiasmo la rincuorava; rinforzava in lei la convinzione che sarebbero stati in grado di affrontare qualunque difficoltà che si sarebbe presentata davanti a loro nei mesi seguenti.

    Soltanto quando aveva acceso la luce in camera sua Camilla aveva realizzato che Marta doveva aver sentito i suoi genitori parlare del suo nuovo lavoro e dell’imminente trasferimento. Il cuore le era sprofondato nel petto, le era mancato il respiro. Si era sentita stupida ed incosciente per non averci pensato. Sembrava che un soffio di vento crudele e prepotente avesse strappato ogni oggetto dalla sua abituale collocazione: il pavimento era ricoperto dai libri precipitati disordinatamente dagli scaffali, e i suoi vestiti erano dappertutto tranne che dentro l’armadio, le cui ante erano completamente spalancate. Sul letto rimaneva soltanto il materasso; coperte e lenzuola formavano un groviglio confuso ai piedi della scrivania. La sua vecchia sedia, dove solitamente Marta la attendeva, giaceva ribaltata per terra, rotta come se fosse stata lanciata da una finestra.  Fortunatamente la porta della camera era stata chiusa e i suoi genitori, tornando, non si erano accorti di quanto era accaduto. Non avrebbe saputo come spiegar loro l’incidente senza farli preoccupare e senza che la credessero pazza. Era rimasta sveglia fino alle prime ore del mattino a risistemare il minimo necessario per potersi muovere e trovare quello che le serviva: perdere tempo a riordinare davvero le era sembrato inutile, visto che nei giorni successivi avrebbe dovuto iniziare a selezionare e imballare ciò che avrebbe portato con sé nella nuova città. Quando aveva terminato si era infilata velocemente nel letto e si era addormentata quasi subito, troppo sfinita per dare ascolto alle preoccupazioni che pure aveva riguardo la sua migliore amica. 

    Inizialmente aveva creduto che si sarebbe trattato solo di qualche ora: era già capitato, in rare occasioni, che durante alcuni momenti di attrito Marta scomparisse brevemente. Le aveva detto in passato che nonostante non le piacesse, a volte le era stato utile per ragionare più lucidamente. Tuttavia i giorni si susseguivano senza che si rivelasse la minima traccia di lei. Camilla faticava ad addormentarsi; a volte le era sembrato, svegliandosi di soprassalto, di vedere la sagoma della sua migliore amica appollaiata sulla sedia traballante della scrivania, che aveva rimesso al suo posto nonostante fosse ormai inutilizzabile. Nel momento in cui osservava con più attenzione, però, si rendeva conto che si trattava soltanto di un’illusione data dall’abitudine. L’assoluto silenzio la innervosiva. Le sembrava addirittura che la stanza fosse diventata più fredda, percorsa da lievi correnti gelide come se fosse stata molto più grande, vuota e desolata di quanto era in realtà. Aveva cercato di passare meno tempo possibile al suo interno, e in verità non era stato difficile, considerati i numerosi impegni che la attendevano e le tante scelte che andavano soppesate e portate a compimento nel minor tempo possibile. 

    Insieme a Marco si era subito messa alla ricerca di un appartamento nella nuova città; dopo dieci lunghi giorni di analisi di annunci e invio di mail ne avevano trovato uno, non molto grande ma in una buona posizione. Una mattina avevano preso il treno all’alba ed erano andati ad effettuare un sopralluogo in loco. La casa era meno luminosa di quanto appariva nelle fotografie sull’annuncio, ma era sembrata ad entrambi abbastanza confortevole e adatta alle loro esigenze. Il proprietario era un signore anziano di poche parole ma tutto sommato cordiale. Camilla si era soffermata nella camera da letto mentre Marco aveva continuato a seguire l’uomo, che gli stava mostrando i pregi e le qualità dell’appartamento procedendo lungo il corridoio e soffermandosi davanti ad ogni stanza. Si era seduta sul materasso coperto dalla tela cerata e si era guardata intorno: in quella camera regnava un pacifico silenzio che sembrava invitare al riposo. Dalle persiane socchiuse del balconcino si intravedevano appena la strada e gli alberi del giardino poco lontano. La luce del sole pomeridiano riverberava sulle pareti, ricoprendo ogni cosa di una patina dorata. Tutto era esattamente come appariva, non c’era alcun mistero da proteggere o nascondere. La cassettiera appoggiata contro il muro era soltanto un vecchio mobile, il cui passato non apparteneva a lei, e le crepe sul soffitto imbiancato non nascondevano nessun ulteriore significato. In quei pochi minuti si era ricordata, dopo molti anni, quanto fosse liberatorio godersi la sola compagnia di se stessi all’interno di una stanza. Aveva avuto il forte presentimento che in quel posto lei e Marco avrebbero potuto essere molto felici. I suoi sensi di colpa nei confronti di Marta non si erano risvegliati fino a quando il treno del ritorno non aveva iniziato la sua corsa. 

    Per trasferirsi avrebbero viaggiato sulla piccola utilitaria di Marco, perciò gli scatoloni e i bagagli avrebbero dovuto essere preparati con attenzione, valutando cosa fosse più necessario e cosa invece potesse aspettare un viaggio successivo. Avevano speso parecchie sere nell’appartamento del ragazzo a scegliere gli oggetti, i libri e i vestiti da portare via e cosa invece lasciare indietro, temporaneamente depositato a casa dei genitori di lui. A Camilla sembrava incredibile che in un monolocale piuttosto piccolo come quello potessero accumularsi così tanti oggetti, dei quali forse appena la metà poteva essere davvero utile. Alla fine erano riusciti ad operare una cernita soddisfacente. Per quanto riguardava lei, era stata fermamente convinta che non le ci sarebbe voluta più di qualche ora per organizzare e preparare le sue cose: del resto, tutto ciò che possedeva si trovava dentro una singola stanza nemmeno troppo grande, e la gran parte di ciò che aveva accumulato lì dentro nel corso del tempo non era che un residuo del passato di cui era certa che non avrebbe più avuto bisogno. Tuttavia, pur essendosi riproposta per molti giorni di fila di iniziare, non l’aveva fatto fino all’ultimo pomeriggio antecedente alla partenza. Si era trattato di un comportamento inusuale per lei, che generalmente era molto precisa ed organizzata, e provocato, lo aveva compreso pur non volendolo ammettere, dal rimorso che provava nel portare a compimento l’azione che avrebbe comportato l’effettivo ed irreversibile abbandono di Marta. 

    Aveva iniziato ad approntare scatoloni e valigie con il cuore pesante: la scomparsa repentina della sua migliore amica, con cui aveva condiviso, a quel punto, più di metà della sua vita, la intristiva profondamente. Sapeva che non sarebbe stato per nulla semplice, ma le sarebbe piaciuto aver avuto il tempo di parlare di ciò che stava per succedere, anche se probabilmente non sarebbero riuscite a raggiungere un accordo tale da permettere loro di separarsi pacificamente; ma, al di là del risultato a cui avrebbe portato sul piano della loro relazione, almeno sarebbe servito a darle un senso di chiusura. Quel muro di silenzio calato così bruscamente, invece, le dava l’idea che tutto quello che non si erano dette fosse rimasto in sospensione nell’atmosfera, pesanti particelle di rancore e incomprensione che appesantivano l’aria che respirava. Lentamente e soprappensiero aveva aperto l’armadio e iniziato a scegliere cosa portare con sé. Aveva ancora molti vestiti risalenti ai tempi del liceo: erano almeno dieci anni che non ne indossava nessuno, ma li aveva tenuti comunque. Li aveva infilati tutti dentro una busta di plastica perché sapeva che era la cosa giusta da fare, ignorando la stretta alla gola che aveva sentito. Quando era da sola dentro quella stanza, avere fiducia in qualunque cambiamento era sempre più difficile che al di fuori. 

    Se ne era accorta soltanto dopo aver sistemato per la seconda volta lo stesso libro all’interno di uno scatolone: gli oggetti sfuggivano dalle collocazioni che assegnava loro. Ne aveva rimessi a posto un’infinità, per poi trovarne altri e ripetere la stessa azione, e così via, in un movimento circolare che le aveva occupato ore intere, costringendola a rinunciare alla cena con Marco. Tale evento curioso l’aveva fatta sentire allo stesso tempo spaventata e felice; per quanto potesse essere frustrante, era comunque un chiaro segno della presenza di Marta. Lei era lì. Si era ritrovata a sperare intensamente che la sua migliore amica decidesse di comunicare con lei in modi più diretti. Lo aveva detto ad alta voce, guardando la scrivania, sperando di riuscire a convincerla a farlo. Aveva aspettato per qualche minuto poi, vedendo che non accadeva nulla, aveva ricominciato la sua impresa apparentemente interminabile. Nel momento in cui si era imbattuta nei suoi vecchi diari del liceo si era concessa una lunga pausa per ricordare il passato vicino e lontano.

    Assorta nei suoi pensieri non aveva fatto caso al tempo che passava; l’occhio le cadde per caso sull’orologio da polso che portava e si rese conto che era molto tardi. Aveva ancora tra le mani il diario del suo secondo anno, aperto sull’ultima delle dediche di Marta. Lo richiuse e lo appoggiò sulla scrivania. Si diresse verso il comò, raccolse dal fondo di un cassetto aperto una camicia spiegazzata che era convinta di aver infilato in valigia almeno tre volte, la distese sul letto ed iniziò a ripiegarla con cura. Dopo qualche istante alle orecchie le giunse il suono di pagine voltate. Sentì il cuore scattare come un giocattolo a molla appena caricato. Alzò lo sguardo nella direzione da cui proveniva il rumore, verso la scrivania, e vide Marta con il diario tra le mani, intenta a sfogliarlo con noncuranza. Era seduta a gambe incrociate sulla vecchia sedia malandata, leggermente incurvata in avanti, così che i lunghi capelli, un po’ arruffati, le coprivano il viso. Il nervosismo che cercava di nascondere emergeva nella posizione estremamente rigida delle spalle. Camilla raddrizzò la schiena, si voltò e fece qualche passo, andando a sedersi di fronte a lei sul bordo del letto. Marta la ignorò. Prese un lungo, lento respiro; sapeva che una volta iniziata quella conversazione avrebbero dovuto arrivare fino in fondo. Non c’era modo di tornare indietro. Distese le braccia, appoggiando le mani sulle cosce, e cercò di raggranellare dentro di sé ogni minima particella di coraggio. 

    «Non posso più restare qui, lo sai» dichiarò, con un’unica emissione di fiato. 

    Marta sollevò la testa di scatto e la fissò, le sopracciglia minacciosamente sollevate sulla fronte. I suoi occhi erano grandi e scuri come quelli di un gatto che si prepara a soffiare. Sulle guance, Camilla notò i lunghi segni traslucidi lasciati dalle lacrime. Sentì un’onda di dispiacere crescere dentro di lei, ma la tenne a bada. Doveva andare avanti. Se si fosse interrotta, sentiva che ricominciare il discorso sarebbe stato impossibile. 

    «Non è detto che sia necessariamente una brutta cosa» continuò. «Siamo rimaste qui insieme per così tanto tempo… Magari è arrivato per entrambe il momento di guardare oltre queste quattro mura.»

    Le labbra di Marta si distorsero in una smorfia sdegnata. «Non c’è niente per me là fuori, ne sei perfettamente cosciente. Bugiarda» sibilò, la voce strozzata. 

    Camilla esitò. Nella sua mente aveva immaginato quel dialogo migliaia di volte nel corso degli ultimi mesi, e quella era sempre stata una delle prime obiezioni che aveva supposto che avrebbe ricevuto. Non era mai riuscita a trovare una risposta logica e razionale che la convincesse davvero; era consapevole, del resto, che non ne esisteva nessuna. La situazione che Marta si era trovata a sperimentare era unica e, per quanto poteva saperne, senza precedenti. L’unica argomentazione con cui poteva replicare era sentimentale, emotiva; ciò che credeva essere vero in virtù dell’intensità con cui lo sentiva tale, per istinto, senza poterlo davvero provare. Sperò che, parlandole con sincerità, la sua migliore amica potesse almeno comprendere la bontà delle sue intenzioni, anche se avesse trovato alla fine la sua replica insoddisfacente.  

    «No, io non ne sono così certa» disse, «perché né io né te abbiamo mai veramente tentato niente di nuovo. Abbiamo continuato a ripetere lo stesso schema, sempre uguale a se stesso, senza mai metterlo davvero in discussione. Purtroppo, però, non possiamo continuare così, devi capirlo anche tu. Per me il tempo continua a scorrere. Non puoi chiedermi di rinunciare ad ogni mio possibile futuro». Camilla sentì la gola contrarsi dolorosamente. Si guardò le mani intrecciate in grembo. Marta non rispose. Riportò gli occhi su di lei e si accorse che stava piangendo silenziosamente. I suoi singhiozzi, a malapena udibili, scuotevano il suo corpo immateriale con così tanta forza che Camilla si sentì attanagliare dalla pietà. Non avrebbe desiderato altro che trovare il nucleo della sofferenza dentro di lei e neutralizzarlo. 

    «Io… Ho paura» scandì faticosamente Marta. «Non so cosa fare, non so dove andare, non ho più nessun altro al di fuori di te, non ho altro posto che questo. Se tu te ne vai, che cosa farò? Impazzirò, sparirò, perderò me stessa, i miei ricordi, la mia identità.» 

    Camilla sentì improvvisamente caldo al viso; combatté strenuamente contro le lacrime che iniziavano a velarle lo sguardo. Respirò profondamente per ricacciarle indietro. «Io ci sarò sempre per te, non dubitare mai di questo. Anche se sarò lontana, anche se non potremo più parlarci, il mio affetto resterà lo stesso. Ovunque io vada porterò con me quello che abbiamo condiviso, l’amore che ci siamo date. Niente potrà cambiarlo» affermò, la voce via via più tremante. Si passò le mani sulle guance bagnate per asciugarle. «Però devi permettermi di andare avanti, e devi fare lo stesso anche tu. Anzi, è proprio perché ci vogliamo bene che dobbiamo farlo. Quello che ti è successo è terribile e ingiusto, lo so, ma per quanto non ci sia nulla che vorrei di più, purtroppo non posso cambiare il passato. Possiamo solo farci i conti, tutte e due, e accettarlo così com’è, nel bene e nel male. Mi dispiace di non avere risposte più certe da darti sul tuo futuro, posso soltanto dirti che finché vorrai potrai restare qui. Io tornerò a trovarti. Però sono anche convinta, e non so dirti con certezza il perché, che dovresti uscire da questa stanza, tornare là fuori. Il mondo è così grande che non posso credere che non abbia nulla di bello in serbo per te.»

    Marta la fissò mordendosi il labbro inferiore, cercando di tener fermo il proprio mento, che tremava incontrollabilmente. Mentre abbassava lo sguardo intrecciò le mani davanti alla bocca, stringendole così forte che le nocche diventarono bianche. I suoi occhi vagavano lungo il pavimento, come alla ricerca di qualcosa di invisibile per chiunque altro. Camilla pensò che fosse meglio lasciarle un po’ di tempo per riflettere. Si alzò silenziosamente e riprese a fare i bagagli. La testa sul collo le sembrò così leggera che ebbe il timore di perdere l’equilibrio e svenire. Per non cedere al vortice di emozioni confuse che rischiava di risucchiarla si concentrò con tutte le proprie forze sullo scegliere e sistemare con cura suppellettili e indumenti. Non dovette più recuperare oggetti sparsi in giro per la stanza: tutto rimaneva nel posto da lei stabilito. Dopo aver cenato velocemente con i suoi genitori andò avanti fino a notte fonda, e per tutto quel tempo Marta non si spostò di un millimetro. Rimase immobile, immersa nei suoi pensieri, del tutto dimentica di quello che le accadeva intorno. Camilla le gettava ogni tanto uno sguardo preoccupato, sentendo il cuore saltare un battito. Dopo aver chiuso con il nastro adesivo l’ultimo scatolone si fece una doccia veloce e poi si infilò nel letto, cercando di convincersi che sarebbe riuscita a dormire almeno qualche ora. Mentre si rigirava per l’ennesima volta tra le coperte, nel suo campo visivo entrò per un attimo la figura minuta di Marta, seduta nella stessa posizione di ore prima. Avrebbe voluto disperatamente parlarle, ma sapeva che non avrebbe potuto aggiungere nulla di utile a quanto aveva già detto; non poteva che attendere e sperare che arrivasse a comprendere le sue ragioni, senza leggere in esse soltanto un crudele abbandono. 

    Era ormai l’alba quando fu colta all’improvviso da una sensazione strana ma familiare: era come se una lieve brezza fredda avesse trovato il modo d’infiltrarsi sotto il suo pigiama, accarezzandole delicatamente la pelle. Erano passati molti anni dall’ultima volta che l’aveva sentita. Aprì gli occhi e vide il volto di Marta, distesa accanto a lei sul letto, che la guardava pensierosa, studiando la sua espressione.  

    «Ci sarai sempre per me?» sussurrò con un filo di voce. 

    «Certo» rispose subito Camilla con tono sicuro. «Il tempo, la distanza, le altre persone non cambiano l’affetto che provo per te.» 

    Le labbra di Marta si incurvarono in un sorriso appena accennato, e Camilla avvertì una sensazione di calore nascerle nel petto e avvolgerla completamente. Fu improvvisamente travolta da tutta la stanchezza che, a causa dell’agitazione, aveva ignorato nelle ore precedenti, e che ora la ritrovata calma lasciava emergere. Non c’era più tempo per dormire ma era convinta che, se avesse potuto, si sarebbe abbandonata completamente al sonno come non riusciva più a fare da anni. Marta le sfiorò una mano passandoci attraverso con la propria. Lo fece lentamente, senza la frustrazione che di solito le generavano simili contatti, che le ricordavano la sua irrimediabile separazione dal mondo dei vivi. Sembrò osservare quel gesto attentamente, con una meraviglia che non aveva mai mostrato prima. 

    «Grazie» mormorò, «di avermi lasciato restare qui per tutto questo tempo». 

    Camilla sentì un singhiozzo di commozione nascere sopra il diaframma e risalire lungo la gola. Prese un lungo respiro. «Lo volevo, e sono contenta di averlo fatto.» Accarezzò la mano incorporea di Marta con la propria. Il sorriso sulla bocca della sua migliore amica si allargò, i suoi occhi brillarono vivacemente, illuminati da una luce calda; li chiuse, rimanendo distesa accanto a lei, e sul suo volto si dipinse un’espressione serena che Camilla non credeva di aver mai visto in precedenza. Rimasero sdraiate l’una accanto all’altra finché fu possibile. 

    Camilla si alzò molto presto: Marco sarebbe passato a prenderla alle otto. Si vestì e fece una colazione rapida e spartana, sorseggiando una tazza di caffellatte e sbocconcellando qualche biscotto passeggiando per il salone. Le sembrava che il suo corpo fosse continuamente percorso da una corrente elettrica che non trovava sbocco e continuava a circolare indisturbata. Era felice e allo stesso tempo molto nervosa. Osservò la visuale dalle finestre della sua casa, trovandola improvvisamente molto meno banale che in passato. A partire dalla mattina successiva, e per tutte quelle a seguire almeno per un bel po’ di tempo, si sarebbe lentamente abituata ad altre strade, altri alberi, altre macchine, altre voci. Marta la scrutava appoggiata allo stipite della porta di camera sua, seguendo accuratamente ogni suo movimento, come se cercasse di memorizzare ogni singolo istante di quelle ultime ore. Anche se i suoi occhi erano apparentemente luminosi e felici, le sue labbra erano distese in un sorriso tirato e preoccupato. Camilla le rivolse uno sguardo comprensivo: sarebbe stata una giornata difficile per entrambe. 

    Marco arrivò perfettamente in orario; quando suonò il citofono, Camilla per la prima volta lo invitò a salire in casa. Egli accettò, sorpreso e quasi incredulo. Quando gli aprì la porta lo trovò intento a pulirsi educatamente le scarpe sullo zerbino con aria guardinga. Oltrepassò la soglia lentamente, guardandosi attorno come un timoroso fedele a cui sia stato appena concesso di entrare nella stanza segreta di un tempio. Aggrottò le sopracciglia, perplesso, e Camilla sorrise tra sé e sé, pensando a quante ipotesi più o meno assurde doveva aver partorito la mente del ragazzo in tutti quegli anni, nel tentativo di trovare una spiegazione al mistero che avvolgeva quel luogo. La normalità di quel salone doveva apparirgli al confronto sconcertante. Dopo aver lasciato che i suoi genitori lo salutassero lo guidò verso la propria stanza perché le desse una mano a trasportare gli scatoloni e le valigie. Camilla entrò per prima: scambiò con Marta, in piedi vicino alla finestra, un rapido sguardo agitato. Marco la seguì immediatamente, osservando ogni cosa con estrema attenzione e senza troppa discrezione, più stupito di prima dalla banalità degli oggetti che si trovava davanti. Guardò dritto nel punto in cui si trovava Marta senza notare nulla di straordinario. Alla fine, dopo un attimo di esitazione, afferrò uno scatolone e si avviò verso la porta. Camilla si voltò a guardare Marta ansiosamente non appena il ragazzo le diede le spalle: la sua migliore amica sorrideva, fissando la schiena di Marco con meraviglia, le mani sollevate a coprire la bocca socchiusa dallo stupore. Si accorse che la stava osservando e annuì nella sua direzione, con gioia. Camilla non le aveva mai chiesto se lei vedesse il mondo in modo diverso rispetto a prima dell’incidente, ma in quell’istante ebbe la netta impressione che lei fosse riuscita a guardare attraverso i vestiti e la carne e che avesse visto all’interno di Marco qualcosa di splendido e bellissimo. A Camilla parve che la stanza fosse improvvisamente diventata più luminosa; sentì la gioia scoppiarle nel cuore come una bolla di sapone. 

    Furono necessari alcuni viaggi per portare giù tutti i suoi bagagli, ma con l’aiuto dei suoi genitori il trasporto fu completato piuttosto velocemente. Mentre Marco e suo padre erano impegnati a trovare il modo migliore di incastrare scatole e valigie nel piccolo bagagliaio della macchina, Camilla ne aveva approfittato per risalire in casa e tornare in camera sua. Marta era appoggiata al davanzale e guardava fuori dalla finestra, verso la strada; probabilmente osservava i due uomini all’opera, visibili in lontananza. Quando la sentì arrivare si voltò verso di lei. La guardò con gli occhi lucidi, sforzandosi di sorridere. Camilla avrebbe voluto dirle qualcosa di bello e significativo per salutarla, ma nessuna parola riuscì a superare il groppo che le chiudeva la gola. Si avvicinò a Marta e una volta arrivata davanti a lei alzò le braccia tremanti e le pose attorno alla sua sagoma immateriale, a mimare un abbraccio. Marta fece lo stesso. La mente di Camilla fu affollata tutto d’un tratto da una miriade di ricordi e immagini dei loro momenti insieme: le chiacchiere e le corse nel corridoio della scuola, i compiti svolti in collaborazione, le lunghe camminate per tornare a casa, le merende condivise, le risate che quando iniziavano non finivano mai. L’incidente, il terrore, la tristezza, il lento consolidarsi di un nuovo equilibrio. Le discussioni, le riflessioni e i racconti fino a tarda notte nella sua stanza. La vicinanza nonostante la crescente difficoltà di comunicare. Memorie distanti e recenti che improvvisamente riemergevano alla rinfusa, si accumulavano e la travolgevano come una valanga. Grosse lacrime lucide iniziarono a scivolarle sulle guance mentre tratteneva i singhiozzi; Marta iniziò a piangere, gemendo sommessamente. Rimasero in quella posizione per un lungo momento, senza riuscire a distaccarsi. Quando sentì un rumore di passi pesanti nella tromba delle scale e intuì che Marco e suo padre dovevano aver finito di caricare la macchina e stavano tornando nell’appartamento, Camilla sciolse l’abbraccio e indietreggiò di qualche passo, cercando di ricomporsi. 

    Marta si passò il braccio destro sul volto per asciugarlo, respirando lentamente. Quando ebbe ritrovato la calma la guardò e disse: «Buona fortuna». Nei suoi occhi non c’era altro che pace. 

    Camilla sorrise e rispose: «Anche a te». Si asciugò le dita fradicie sopra i jeans, si voltò e fece per andare verso il salone, ma Marta la richiamò indietro.  

    «Se mai sarà possibile, per te andrebbe bene se venissi a trovarti qualche volta?»

    Camilla provò una grande tenerezza nel vedere il suo sguardo trepidante e dubbioso. «Certamente» replicò con affetto, «basta che tu non faccia troppo disordine». Marta si lasciò scappare una lieve risata e la ringraziò in silenzio, gli occhi luccicanti. 

    Camilla salutò i suoi genitori con un lungo abbraccio; assicurò che li avrebbe chiamati spesso. Si fece promettere da sua madre che non avrebbe buttato la vecchia sedia della sua scrivania. Poi, tenendosi per mano con Marco, scese giù per le scale del palazzo. Ogni gradino, che negli anni passati aveva sovente superato di corsa senza pensare, le sembrava diventato all’improvviso immenso. Il rimbombo dei loro passi lungo le mura nella sua immaginazione dava un senso di solennità a quella breve discesa. Infine uscirono all’aperto. Nonostante l’aria fosse ancora piuttosto fredda il sole era più luminoso e caldo che nelle settimane precedenti, preannunciando l’imminente arrivo della primavera. Attraversarono la strada e si incamminarono sul marciapiede opposto per raggiungere la macchina di Marco, a una decina di metri di distanza. Egli entrò nell’abitacolo e accese il motore, iniziando a fare manovra per uscire dal parcheggio. Camilla si fermò poco più indietro per guardare ancora una volta la sua vecchia casa; i suoi occhi vagarono fino alla finestra della sua stanza. Un movimento lieve, quasi invisibile, attirò la sua attenzione sull’ingresso dell’edificio. Aguzzando lo sguardo vide che davanti ad esso era apparsa la figura minuta di Marta, la testa sollevata a scrutare il cielo, una mano posta davanti agli occhi per ripararli dalla luce intensa, a cui non era più abituata. Scrutò i dintorni, incerta sulla direzione da prendere; notò Camilla intenta a fissarla e agitò un braccio in segno di saluto. Camilla ricambiò il gesto. Marta le mandò un bacio, poi si voltò ed iniziò ad allontanarsi lungo il marciapiede nella direzione opposta, gettando occhiate curiose tutto attorno a lei. Prima che scomparisse alla sua vista girando un angolo, Camilla notò che la sua andatura si faceva via via sempre più sicura. Un sospiro di sollievo le sfuggì dalle labbra, e sentì le guance scaldarsi per la commozione e l’affetto.  

    Marco, seduto nella sua macchina in mezzo alla carreggiata, abbassò il finestrino e la chiamò. Camilla si affrettò a raggiungerlo, allontanandosi dal portone. Una volta che si fu sistemata al suo posto il ragazzo le afferrò una mano, la strinse e le chiese se andava tutto bene e se era pronta a partire. Camilla suppose che l’agitazione che aveva percepito in lei durante quella mattinata lo preoccupasse. Gli sorrise, lo baciò su una guancia e gli disse: «Sì, sono pronta. Andiamo». Marco inserì la marcia e la macchina iniziò a procedere lungo la strada, guadagnando via via sempre più velocità. Camilla non si voltò a guardare indietro neppure una volta.          


Grugliasco, 9 dicembre 2019



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