lunedì 14 dicembre 2020

The Mandalorian – Capitolo 15: Il vendicatore



Il titolo originale del penultimo episodio della seconda stagione di The Mandalorian è The Believer; la traduzione italiana, Il vendicatore, non ne mantiene l’ambiguità. Il tema centrale è indubbiamente la fede in qualcosa, ma non sotto un unico aspetto e non riguardo a un solo personaggio. Sono almeno quattro, infatti, a un certo punto e a differenti livelli, quelli costretti a confrontarsi con le proprie intime convinzioni. Rick Famuyiwa, regista e sceneggiatore, in mezz'ora e con poche battute comunica moltissimo del loro stato interiore. Dal meno al più significativo, li passiamo in rassegna nei prossimi paragrafi. 

Al termine della puntata, le ultime credenze in ordine cronologico ad essere scosse sono quelle di Cara Dune (Gina Carano): il suo disprezzo assoluto per gli imperiali si scontra con la decisione di Mayfeld (Bill Burr) che, per togliersi un peso dalla coscienza e venire a patti con i suoi dolorosi ricordi di ex militare che ha visto tanti suoi compagni inutilmente massacrati, fa saltare in aria la raffineria nemica. Scegliere di farlo passare per morto e di non restituirlo al campo di prigionia dal quale era stato prelevato all'inizio dell'episodio è un atto di riconoscenza e rispetto per qualcuno che si è dimostrato migliore delle apparenze. 

Per Valin Hess (Richard Brake), invece, la cieca e incrollabile fede nell'Impero è fatale: a spingere Mayfeld, del quale è stato il superiore, a ucciderlo è la sua completa incapacità di comprendere il peso delle sue decisioni sui suoi sottoposti, il costo in vite umane di una strategia bellica che è espressione di una lotta per accaparrarsi il potere e schiacciare chi è sopraffatto ignorando qualunque conseguenza. 

Mayfeld, come già accennato, si rivela meno miscredente di quello che sembra; nel dialogo - più un monologo, per la verità - con il mandaloriano sul mezzo carico di ridonio, si posiziona ideologicamente come un relativista morale: Impero o Nuova Repubblica sono alla fine la stessa cosa per i singoli individui che si trovano intrappolati nel bel mezzo del loro conflitto. Anche le tradizioni e i dogmi rispettati da Din Djarin in fondo sono privi di significato, pronti a crollare quando la contingenza lo impone. Mayfeld sostiene, fondamentalmente, che non c'è nulla in cui valga la pena credere, nessun ideale per cui sia giusto combattere se non per la pace della propria coscienza. È proprio qui, però, che è nascosto il seme di una visione morale opposta: avere abbastanza rispetto di sé da riuscire a dormire sereni la notte è anche essere fedeli alla propria idea di ciò che è giusto ed evitare che altro male e altra sofferenza possano essere inflitti. Il mercenario, che nella scorsa stagione appariva come disonesto e privo di scrupoli, si rivela un uomo traumatizzato dalle sanguinose battaglie a cui ha partecipato. Nonostante il mandaloriano lo neghi categoricamente, Mayfeld non è completamente nel torto quando sostiene che siano simili: entrambi, infatti, si schermano dal proprio passato, dietro una corazza fisica o ideologica, e allo stesso modo, nella seconda metà dell'episodio, sono messi nella condizione di affrontare quanto soppresso. 

L’ultimo dei personaggi le cui convinzioni sono messe in discussione, e indubbiamente il più importante, è infatti Din Djarin (Pedro Pascal): la necessità di strappare Grogu alle grinfie di Moff Gideon (Giancarlo Esposito) lo obbliga a prendere decisioni difficili che lo pongono in conflitto con i rigidi precetti che ha osservato per gran parte della sua vita. È un dissidio interiore che era stato ampiamente preannunciato fin dalla prima puntata della stagione: il confronto con Cobb Vanth (Timothy Olyphant) ne Lo sceriffo lo aveva posto di fronte ad un uomo che indossava un’armatura mandaloriana senza esserlo, e che nonostante questo si rivelava infine onorevole. L’erede, poi, metteva sulla sua strada Bo-Katan (Katee Sackhoff), che pur essendo mandaloriana non aveva nessuna remora morale nello scoprirsi il volto, e che gli aveva rivelato come la Via fosse il prodotto di una visione estremista e antiquata delle loro tradizioni; un incontro non facile, ma che si concludeva comunque con una qualche forma di rispetto reciproco. Non è certo un caso che nell’episodio immediatamente successivo, L’assedio, il protagonista si sollevasse parzialmente il casco per bere, seppure in una situazione del tutto riservata. La conoscenza di Boba Fett (Temuera Morrison), un altro mandaloriano che, pur essendolo a tutti gli effetti, non rispetta il Credo e non si copre il volto, certamente ha avuto il suo impatto. Tutto ciò, ovviamente, non può lavare via decenni di severa adesione alle norme dei Figli della Guardia, ma è l’inizio di una difficile evoluzione, che passa attraverso la perdita delle sicurezze: prima la Razor Crest sul finire della scorsa puntata e poi, anche se solo temporaneamente, la propria armatura. Dato che nessuno dei suoi compagni può accompagnare Mayfeld all’interno della raffineria imperiale in cui quest’ultimo deve introdursi per raggiungere un terminale in grado di fornirgli le coordinate dell’incrociatore di Moff Gideon, e che mandare il mercenario da solo non è un’opzione, visto il suo comportamento ne Il prigioniero durante la prima stagione, non c’è altra decisione possibile che occuparsene lui stesso. Fortunatamente le divise dei carristi a cui devono sostituirsi comprendono un casco, ma certo non è semplice mettere a tacere la coscienza: il tormento interiore è evidente nella rigida posizione che il mandaloriano assume una volta all’interno dell'abitacolo. La mancanza dell’armatura e della sua tecnologia si fa sentire nel momento in cui una banda di pirati tenta di far saltare in aria il mezzo, in una lunga sequenza che unisce rimandi a Vite vendute (Le salaire de la peur, Henri-Georges Clouzot, 1953), Indiana Jones e l’ultima crociata (Indiana Jones and the Last Crusade, 1989) e Mad Max: Fury Road (George Miller, 2015), un lungo ed estenuante corpo a corpo ben girato e ben montato – Rick Famuyiwa aveva già diretto abilmente, del resto, l’assalto al sandcrawler de Il Bambino. Il carico arriva comunque a destinazione con un po’ di sostegno da parte imperiale: è interessante a questo punto il ribaltamento prospettico che rende gli assaltatori e i caccia TIE, per una volta, figure positive, in contrapposizione ai pirati che forse sono in realtà ribelli che cercano di liberare il proprio pianeta (e con cui normalmente ci schiereremmo come spettatori). Un’altra difficoltà si presenta sulla scena una volta superato l'ingresso della base: il terminale è all’interno della sala mensa e attorno ad uno dei tavoli è seduto Valin Hess, e Mayfeld, che non vuole correre il rischio di essere riconosciuto, preferisce desistere. Nuovamente, quindi, l’unica possibilità che non comporti il lasciare Grogu al suo destino è che sia lo stesso protagonista ad occuparsi di recuperare i dati, anche se, come lo avverte il compagno, il macchinario richiede un riconoscimento facciale. Din Djarin, quindi, dopo un inutile tentativo di evitarlo, si sfila volontariamente il casco per la prima volta e mostra il volto. L’ultima sicurezza crolla. Una soggettiva di Mayfeld, che osserva di nascosto dalla soglia, guarda il mandaloriano di spalle, nell’angolo più remoto di una stanza grigia e spoglia, la testa china, lontano dagli ufficiali e dai soldati presenti. In silenzio, non notato, si sta consumando un intimo dramma. È, in fondo, una questione di identità: seguire i dettami del Credo significa perdere la propria individualità, assurgere a simbolo. La Via di Mandalore può sopravvivere perché chi la pratica è un asceta che sacrifica se stesso per perpetuarla in tutti i suoi precetti, vivendo nell’ombra. Nella tribù di Nevarro c’era cameratismo e fiducia, ma certo non affetto né calore umano, che non può esistere senza esporsi all’altro per quello che si è. L’orfano Din Djarin si è aggrappato alla nuova famiglia che lo ha accolto, accettandola in tutto e per tutto, con riconoscenza, celando se stesso dietro un’immagine inespressiva. Non si poteva certo permettere di perderla, del resto. Il finale del primo episodio della serie, Il mandaloriano, lo metteva di fronte ad una riproposizione dell’evento traumatico che aveva vissuto in prima persona: un infante che sta per essere trucidato da un droide. Non poteva voltarsi dall’altra parte e portare avanti comunque l’incarico, come il suo ruolo e il suo addestramento gli avrebbero imposto: come lui a suo tempo era stato salvato da un guerriero della Ronda della Morte, allo stesso modo ha salvato Grogu. Sotto l’elmo, in quel momento ha iniziato a riemergere l’individualità. Ha del tutto senso, quindi, che a mettere in discussione la sua posizione ideologica sia l’affetto, paterno e profondamente personale, per il suo trovatello. Il mandaloriano deve ritrovare il proprio cuore sotto il metallo, in modo non troppo diverso dall’uomo di latta del Mago di Oz. L’armatura è una protezione non solo esteriore, ma anche interiore: è nascondere agli occhi degli altri le proprie fattezze e contemporaneamente le proprie emozioni, alzare un muro impenetrabile tra se stessi e la sofferenza, anche quella che arriva dal passato. Non c’è comunque nulla di semplice in un simile percorso: privato delle difese, il protagonista è nudo, la capacità di dissimulare e di fingere gli è sconosciuta, la vergogna e il senso di colpa lo bloccano. Senza il supporto di Mayfeld finirebbe in grossi guai. Serve educazione anche nel campo dei sentimenti: chissà se nel prossimo episodio - l'ultimo della stagione - avrà modo di flettere ancora questi muscoli arrugginiti. Nella trasmissione a Moff Gideon è già evidente un'emotività molto meno repressa che in passato. 


THE MANDALORIAN, GLI ALTRI POST



Nessun commento:

Posta un commento