martedì 23 febbraio 2021

Piccoli omicidi tra amici (Shallow Grave, Danny Boyle, 1994)



Danny Boyle è solito affermare durante le interviste che il miglior film di un regista è il primo che ha diretto. Cosa possiamo dire, quindi, su Piccoli omicidi tra amici, il suo esordio al cinema dopo anni di lavori teatrali e televisivi? 

Al centro della vicenda ci sono tre giovani professionisti che condividono un grande appartamento a Glasgow: l'introverso commercialista David (Christopher Eccleston), la dottoressa dal carattere forte Juliet (Kerry Fox) e lo spregiudicato giornalista Alex (Ewan McGregor). Dopo lunghe ed accurate ricerche, documentate da un veloce montaggio di momenti differenti in cui i protagonisti mostrano tutta la loro autocompiacente perfidia, i tre si imbattono in un misterioso individuo che pare loro adatto a diventare il quarto coinquilino. I problemi iniziano quando quest'ultimo viene ritrovato morto nella sua stanza il giorno seguente, insieme ad una valigia piena di denaro. La decisione di far sparire il cadavere e dividersi il bottino sarà carica di conseguenze e cambierà irrimediabilmente il loro rapporto, facendo emergere conflitti e psicosi.

La sequenza su cui appaiono i titoli di testa, in cui la macchina da presa corre per le strade della città e cammina tra gli alberi di un bosco accompagnata da un pezzo di musica elettronica, è, secondo me, quella invecchiata peggio. Le scene sono dipinte con tocchi rapidi, la regia sembra spinta da momentanee ispirazioni, nate con il passare dei minuti sul set, ma le idee messe in mostra non sono per questo sciatte o poco efficaci. La dissezione notturna del possessore della valigia, girata in un buio quasi completo ed utilizzando poche luci, è molto evocativa: il maggiore centro di interesse della scena è tenuto fuori campo il più possibile, lasciando così agli effetti sonori il compito di raccontare quello che sta succedendo. Il caotico resoconto della giornata in cui Alex e Juliet si dedicano ad acquisti pazzi è affidato alle riprese sgranate di una piccola videocamera, continuamente in movimento. In quest'ultimo segmento del film, tra l'altro, fa la sua prima comparsa il ridente bambolotto che ritornerà in Trainspotting. Gran parte delle inquadrature più interessanti ruota intorno alla crescente paranoia di David, che finirà per vivere quasi in un mondo parallelo ai suoi due amici, perennemente vigile e sempre pronto a difendersi. Il ribaltamento di prospettiva è continuo: le macchinazioni si intersecano e si intralciano  a vicenda, il personaggio che sembrava avere in mano le carte migliori viene messo nel sacco da un altro. A questo proposito bisogna aggiungere che gli attori protagonisti sono azzeccati e offrono delle buone interpretazioni: Eccleston dona a David uno sguardo pensoso ed apatico, mentre McGregor presta ingannevoli sembianze angeliche ad Alex. La Juliet di Fox manovra entrambi con abilità e modi dimessi. Roger Ebert, critico cinematografico americano molto famoso oltreoceano, non giudicò all'epoca in maniera particolarmente favorevole la pellicola – che ebbe invece gran successo nei festival – perché riteneva che fosse impossibile identificarsi con dei protagonisti tanto odiosi e quindi interessarsi veramente alle loro vicende. Lungi da me tentare di controbattere all'opinione di un critico professionista e, senza ombra di dubbio, molto più cinefilo di me; tuttavia sono dell'idea che il film possa essere apprezzato molto di più se si guarda ai suoi personaggi con un certo distacco, come se si guardassero dei pesci combattere per il cibo in una boccia, sogghignando maliziosamente delle loro malefatte e aspettando di scoprire se i nodi verranno mai al pettine e in quale modo. Ebert apre la sua recensione con una riflessione sugli stilemi classici dell'omicidio all'inglese, di cui Piccoli omicidi tra amici presenta più di una caratteristica specifica. I protagonisti sono professionisti della piccola borghesia che uccidono non per passione ma per convenienza, e una delle preoccupazioni principali è, ovviamente, disfarsi del cadavere. Alex, David e Juliet non uccidono Hugo, ma il parallelismo rimane comunque legittimo. La strana complicità che si instaura tra il delinquente e i tre protagonisti fa quasi pensare che Boyle e lo sceneggiatore John Hodge vogliano dirci che, in fondo, i quattro non sono poi così tanto diversi come le apparenze potrebbero far pensare, condividono qualcosa, forse una certa amoralità, che emergerà chiaramente negli eventi successivi del film.  

La prima metà del film è, credo, la più riuscita: la seconda, pur restando godibile e disseminata di eventi, sembra più sconnessa. L'ingresso in scena della polizia è un po' brusco, come tutto quello che riguarda l'indagine. Questo non significa, in ogni caso, che il finale non sia sorprendente e soddisfacente. È, ne sono cosciente, una questione di gusto personale, ma mi sarebbe piaciuto che il gioco al massacro tra i tre protagonisti fosse più marcato, più psicologicamente violento, anche se un simile orientamento avrebbe potuto intaccare il tono scanzonato e un po' ironico che scorre sotto tutto l'impianto narrativo e registico. Mi domando cosa sarebbe venuto fuori da un film simile se a dirigerlo fosse stato, per esempio, Polanski, anche se il lavoro di Boyle è comunque degno di nota ed apprezzabile. «I think your first film is always your best film. Always. It may not be your most successful or your technically most accomplished, whatever. It is your best film in a way because you never, ever get close to that feeling of not knowing what you're doing again. And that feeling of not knowing what you're doing is an amazing place to be. If you can cope with it and not panic, it's amazing. It's guesswork, inventiveness and freshness that you never get again», ha dichiarato il regista. Piccoli omicidi tra amici ha qualche difetto, ma si riesce comunque a sentire nei suoi fotogrammi l'odore di una libertà creativa che un altro film, con un budget maggiore e, conseguentemente, con maggiori responsabilità, non avrebbe potuto avere.

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