mercoledì 30 novembre 2016

Note su Sherlock



Tra i prodotti della BBC più internazionalmente celebrati ed apprezzati sin dalla sua prima messa in onda, avvenuta nell’estate del 2010 nel Regno Unito e a dicembre 2011 in Italia, Sherlock presenta un formato un po’ anomalo all’interno del panorama televisivo mondiale, più utilizzato, a dire il vero, all’interno di quello del Regno Unito. Ogni stagione si compone di soli tre episodi, della durata di un’ora e mezza ciascuno: sarebbe facile pensare, prima della visione, che si tratti di una collezione di film indipendenti tra loro, piuttosto che di una vera e propria serie tv. In realtà ogni episodio è – a volte più, a volte meno – collegato agli altri, ed appare in maniera sufficientemente chiara la volontà dei suoi creatori e principali sceneggiatori (Steven Moffat e Mark Gatiss) di costruire, all’interno di ogni stagione, un arco narrativo più grande che abbracci tutta la vicenda narrata, che si incentra sulla celeberrima coppia investigativa creata più di un secolo fa dallo scrittore scozzese A.C. Doyle, trasportandola però dalla Londra vittoriana a quella dei giorni nostri, rielaborando liberamente numerosi elementi dei romanzi e racconti originali. Non tutto, però, funziona alla perfezione all’interno dell’opera, e per parlare del suo più grande pregio è bene iniziare esponendone i difetti.


Un elemento che sembra estremamente apprezzato dagli autori lungo tutta la durata della serie è il colpo di scena scioccante, ripetuto ogni volta che sia possibile, spesso smentito o ribaltato nel giro di pochi minuti. Ciò diventa narrativamente problematico molto presto: la quantità, in questo caso, nuoce alla qualità. Spesso inoltre tali giravolte sono scarsamente giustificate sul piano della storia, e a volte perfino su quello della logica; la sensazione che emerge dopo un po’ è quella di trovarsi di fronte ad una storia che vive nell’eccitazione del momento, senza essere in grado di svilupparsi adeguatamente sulla lunga distanza. Ancora più grave è il fatto che nemmeno gli eventi più terribili, almeno fino alla terza stagione (la quarta debutterà a gennaio 2017), sembrano avere conseguenze correlate al loro peso: anche le decisioni più difficili e pesanti possono venire capovolte completamente, con un ritorno allo status quo, nel giro di poche scene. Questo affossa inevitabilmente la potenza emotiva della vicenda raccontata da Sherlock: se nulla è abbastanza importante da modificare irreversibilmente il mondo dei suoi personaggi, in modo che un ritorno alla situazione iniziale sia del tutto impossibile, allora niente di ciò che viene messo in scena, per quanto affascinante possa essere la sua rappresentazione, avrà sufficiente peso da poter coinvolgere intensamente lo spettatore ad un livello più intimo di quello puramente sensoriale, che vada oltre la pura fruizione delle immagini verso qualcosa di più stimolante ed interessante. 


La terza stagione mostra chiaramente i segni dell’intenzione di concentrarsi sui personaggi e sulla loro evoluzione caratteriale, più che sui misteri che avevano dominato le prime due: ciò però accade in maniera così improvvisa e poco sfumata, senza intrecciarsi – almeno per gran parte del tempo – con le azioni vere e proprie che vengono compiute, che l’importanza che ciò dovrebbe avere agli occhi degli spettatori è compromessa. Non giova a tale scavo nell’emotività di Sherlock e John il continuo ricorso alla dilatazione narrativa: momenti che nella realtà durerebbero soltanto pochi secondi occupano invece una parte molto più estesa di minutaggio, piena di effetti visivi e sonori, ralenti, flashback e tagli bruschi: il contenuto, per quanto potente, dopo un po’ si esaurisce e ciò che rimane è una forma eccessivamente stiracchiata. La serie peraltro fa ampio uso di post produzione digitale e scritte in sovrimpressione per esemplificare le contorte deduzioni del detective protagonista, e in alcuni casi anche come elementi decorativi utili a facilitare la transizione tra le sequenze; l’idea certamente è interessante e furba (scrivere i testi degli SMS sul fotogramma è un ottimo stratagemma per evitare di dover girare infiniti, tediosi dettagli dello schermo di un cellulare), tuttavia è usata con troppa frequenza, contribuendo a rendere il montaggio ancora più frenetico e schizofrenico di quanto già non sia. 


Il quadro fin qui delineato non sembrerebbe particolarmente lusinghiero: a onor del vero bisogna aggiungere che tutte le stagioni hanno, al loro interno, dei buoni momenti, in gran parte dovuti alla bravura del cast di attori.
Non è certamente una novità che Benedict Cumberbatch e Martin Freeman abbiano raggiunto la fama mondiale e l’olimpo hollywoodiano grazie a Sherlock; le loro performance, chiaramente molto differenti ma ugualmente intense e studiate, sono infatti più che degne di nota. La serie, dal canto suo, fornisce loro numerose possibilità di mettere in mostra l’ampia estensione delle loro abilità. Dal tragico al comico, non c’è grado dell’arte recitativa che i due non attraversino con la stessa grazia lungo le puntate, elevando battute confuse e snodi narrativi non sempre ben focalizzati. Il dottor John Watson nelle mani di Freeman diventa un ex-militare squadrato e apparentemente pacifico, ma in realtà animato da un nervosismo di fondo che a volte emerge in superficie tramite un guizzo della bocca o un espressione fulminea, un uomo dall’aspetto ordinario e pieno di sentimenti, che si pone in contrasto con il gelido sguardo e la figura longilinea dello Sherlock Holmes di Cumberbatch, tanto a suo agio negli invisibili percorsi della pura ragione quanto ignaro delle norme non scritte della società, manipolatore e pronto a qualsiasi cosa per arrivare alla soluzione di un caso che appare irrisolvibile, pervaso da un malcelato compiacimento quando espone le proprie deduzioni con sicurezza, nella propria voce calda e bassa, ad una media di trenta parole al secondo. Ciò che più di ogni altra cosa sembra accomunare questi due esseri umani tanto diversi è la necessità quasi morbosa e in fondo un po’ romantica di andare alla ricerca del rischio, contro ogni buon consiglio. Watson, invece di affrancarsi dalla sua esperienza nella guerra in Afghanistan, pare sentire il continuo bisogno di ritrovare esperienze similmente pericolose all’interno del tessuto urbano della capitale britannica, come se non fosse in grado di adeguarsi alla piatta esistenza da comune cittadino; Holmes, che la natura ha benedetto e insieme maledetto con il dono di una mente eccezionale, rischia la propria vita nel tentativo di combattere la soffocante noia che suscita in lui un mondo troppo poco intellettualmente stimolante. Proprio questo senso di insofferenza verso la placida stupidità del resto degli esseri umani lo porta a scontrarsi con Jim Moriarty, suo doppio che però ha scelto di schierarsi con il crimine invece che con la giustizia. L’irlandese Andrew Scott interpreta la nemesi del detective più famoso al mondo come una sorta di Joker privo del trucco, animato da una lucida follia sempre pronta ad esplodere in cantilene e urli rabbiosi e, pur non avendo una gran quantità di scene, lascia certamente il segno. 


Per quanto riguarda i ruoli secondari, Ruper Graves esprime con semplicità la schiettezza e il senso pratico dell’ispettore Lestrade. I personaggi femminili, rappresentati principalmente dalla signora Hudson (Una Stubbs), dalla dottoressa Molly Hooper (Louise Brealey), da Mary Morstan (Amanda Abbington) e da Irene Adler (Lara Pulver), sembrano meno curati rispetto a quelli maschili, e in alcuni casi quasi macchiettistici, spesso definiti unicamente da un legame amoroso, più o meno concretizzato, il che è decisamente un peccato, al quale c’è comunque il tempo di rimediare. Il cupissimo trailer della quarta stagione è già visionabile su YouTube.

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