venerdì 2 dicembre 2016

Prisoners (Denis Villeneuve, 2013), la recensione



In un tipico sobborgo americano due bambine scompaiono nel nulla, come inghiottite dal terreno; mentre il detective Loki (Jake Gyllenhaal) porta avanti le indagini ufficiali, Keller Dover (Hugh Jackman), il padre della bionda Anna, intraprende un pericoloso e immorale percorso di ricerca della verità.
È difficile stabilire chi sia davvero in gabbia all’interno di Prisoners, primo film americano del canadese Denis Villeneuve (regista in seguito di Sicario e Arrival): tutti i personaggi, ad un certo punto, si muovono lungo le stradine ghiacciate che si fanno largo tra ampie distese di villette a schiera come incatenati, condannati a portare avanti un’indagine che sembra continuamente sfuggire dalle mani, in cui la soluzione appare sempre così vicina da poterla percepire, ma non abbastanza da poterla afferrare. Anche quando delle prove vengono raccolte, esse rimangono enigmatiche: più interpretazioni sono possibili, ma nessuna è inconfutabile. Il freddo e l’umido della pioggia scrosciante entrano nelle ossa insieme alla frustrazione.


Alla base della sceneggiatura di Prisoners – scritta da Aaron Guzikowski – non c’è una storia particolarmente originale: di vicende simili il panorama del genere thriller è pieno. Ciò che è encomiabile in questo caso è la capacità di confondere le acque abbastanza da continuare ad insinuare dubbi ed aprire percorsi, tendendo l’elastico della tensione fino ai titoli di coda. Villeneuve costruisce l’impalcatura del film su inquadrature lunghe e ben studiate, dentro le quali i personaggi vagano alla ricerca dell’indizio che scioglierà il mistero. Richiamando i celebri versi che Sofocle mette in bocca a Tiresia ne L’Edipo re, essi vedono, ma sono ciechi e, seppure non lo diventeranno mai letteralmente come lo sfortunato sovrano di Tebe, la strada su cui dovranno incamminarsi per sperare di trovare una qualche risposta è tetra ed ingannevole, sommersa nei toni freddi e spenti di cui la ammanta il direttore della fotografia Roger Deakins. Sulle vecchie e sporche casette prefabbricate che scorrono accanto ai protagonisti non splende mai il sole; esse paiono abbandonate in una landa desolata dove persino la voce dello speaker di un notiziario sembra quella di uno straniero chiaramente fuori posto, l’emissario di un’America lontana anni luce in ogni senso possibile.

Un cuore disperato e rabbioso batte dentro i fotogrammi di Prisoners. Esso è latente dietro lo sguardo distaccato del detective Loki di Gyllenhaal, i cui trascorsi violenti sono suggeriti dai numerosi tatuaggi che spuntano dai polsini e dal colletto della camicia intonsa, come le macerie di un passato che non è dato sapere quanto sia lontano; è invece dichiarato apertamente nei muscoli sempre contratti del Keller di Hugh Jackman, divorato da una furia continuamente sul punto di esplodere che da preda lo rende cacciatore. I pugni, le torture e i colpi di pistola sono l’ineluttabile conseguenza dell’estrema, ossessiva determinazione con cui si percorrono le piste d’indagine, aggrappandosi ad ogni particolare, cercando di zittire più o meno efficacemente la legge morale che secondo le teorie di Kant risiede in ogni essere umano. Il microscopico, squallido universo di Prisoners trasforma i carnefici in vittime e le vittime in carnefici, le maschere passano da un proprietario all’altro mentre il tempo passa, inesorabile, rendendo sempre più certa una possibile e temuta tragedia. Ai margini di questo scavo nell’oscurità interiore di una cittadina di provincia rimane il padre dell’altra bambina scomparsa, Franklin Birch (Terrence Howard), divorato dal dolore ed incapace, anche di fronte alla più grande disgrazia, di allontanare da sé il proprio senso etico. Più volte nel film ritornano preghiere ed immagini religiose, in particolare il simbolo della croce, come se ogni personaggio fosse impegnato in un proprio percorso di penitenza, forse a causa di un peccato che ci è permesso soltanto intuire, o magari perché, come ad un certo punto la voce della radio declama all’interno dell’abitacolo di una macchina, la vita è sofferenza. Anche un cervo libero in una foresta, come nella prima inquadratura della pellicola, è in realtà intrappolato in una gabbia di alberi, pronto ad essere colpito da un proiettile.

Molti thriller cercano invano di suscitare un brivido mettendo in pratica tutte le convenzioni del genere; Prisoners, nonostante la lunga durata che dovrebbe giocare a suo sfavore, mantiene l’attenzione grazie a una regia impeccabile e ad una storia che rivela sempre meno di quanto noi ed i personaggi desidereremmo, lasciandoci sulle spine quasi oltre i limiti del sopportabile, e poco importa che gli snodi centrali della trama non siano, in fondo, particolarmente originali, quando la potente ed atmosferica suspence creata da Villeneuve ci avvolge nelle sue spire come una serpe spietata.

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