giovedì 19 dicembre 2019

L'uomo che fuggì dal futuro (THX 1138, George Lucas, 1971)


Se proviamo a mettere insieme la parola «fantascienza» e il nome «George Lucas», quello che ci viene in mente è senza ombra di dubbio la saga di Star Wars. Eppure le strade del cineasta di Modesto e del genere narrativo tra i più identificativi del ventunesimo secolo si erano incrociate almeno dieci anni prima di quel fatidico 1977. Nel 1967, infatti, l'allora studente della University of Southern California aveva fatto molto parlare di sé con il corto Electronic Labyrinth: THX 1138 4EB, che aveva vinto il primo premio nella categoria dedicata ai film drammatici al terzo National Student Film Festival, dove, tra l'altro, catturò l'attenzione di un giovanissimo Steven Spielberg, determinando così l'inizio della lunga amicizia tra i due registi. Nel 1970 Lucas poté trarne un lungometraggio grazie ad un accordo tra la Warner Bros. Pictures e la American Zoetrope, da lui fondata insieme a Francis Ford Coppola. La trama fu ampliata e la sceneggiatura redatta dallo stesso Lucas e da Walter Murch; i due curarono anche, rispettivamente, il montaggio della pellicola e del sonoro (Murch diventò in seguito uno dei pionieri del sound design, conosciuto in particolare per il lavoro svolto su Apocalypse Now).

Non è difficile comprendere perché L'uomo che fuggì dal futuro fu, all'epoca, un insuccesso commerciale; il film è quanto di più lontano si possa immaginare dall’altra e più celebre creatura di Lucas, una vivace space-opera popolata da alieni stravaganti e droidi chiacchieroni, avvicinandosi molto di più alle dure distopie sociopolitiche più tipiche della fantascienza degli anni settanta. L'estratto che apre la pellicola, tratto da Tragedy on Saturn, episodio del 1939 del serial cinematografico Buck Rogers, decanta le meraviglie tecnologiche del futuro, e si pone così in stridente contrasto con quello che segue. THX 1138 (Robert Duvall) è un individuo che vive all'interno di una società futura chiusa su se stessa e stretta nella morsa di un rigido e disumanizzante conformismo, dove le macchine soffocano del tutto l'inventiva e l'iniziativa personale. Ogni essere umano è obbligato ad assumere droghe per essere più produttivo ed integrato, e l'amore e il sesso sono severamente vietati. I dialoghi risultano spesso piuttosto difficili da seguire e presumibilmente fortemente intrecciati con l'attualità dell'epoca in cui sono stati scritti: alcune battute di SEN 5241, per esempio, citano direttamente dei discorsi tenuti da Richard Nixon, allora presidente in carica degli Stati Uniti. A costruire la narrazione sono le immagini e il montaggio, che mostra, nella sua pura e rigorosa bellezza, quanto il cineasta di Modesto lo abbia sempre tenuto nella massima considerazione. La vicenda è esposta con la stessa freddezza che si riserverebbe alla dimostrazione di un teorema, elemento che certo non ha contribuito ad alzare l'interesse del pubblico del 1971 nei confronti della pellicola. Tuttavia, se la storia nel suo insieme risulta lontana e un po' gelida, L'uomo che fuggì dal futuro trabocca di idee interessanti, che torneranno a fare capolino nell'universo narrativo abitato da cavalieri, principesse e contrabbandieri: ologrammi, strani macchinari, sigle e cifre modellate alla guisa di nomi, androidi, grandi sale di comando. Anche gli stormtrooper, a ben pensarci, sono tutti uguali e vestiti di bianco come gli esseri umani del film. Forse ciò che più risulta d'impatto è il confessionale elettronico, in un cui una voce registrata rappresentata visivamente da una riproduzione in bianco e nero del Cristo benedicente di Hans Memling ascolta i tormenti del protagonista senza – ovviamente – la minima partecipazione emotiva, concludendo ogni sessione con l'invito ad essere un consumatore gaudente ed un lavoratore efficiente. Interessante è anche il fatto che i canali degli ologrammi siano suddivisi per temi, come la violenza, il sesso o le notizie, anticipando i futuri sviluppi delle reali reti televisive. Il film, dopo l'iniziale insuccesso, divenne un piccolo cult ed ottenne una grande notorietà a seguito dell'uscita del primo Star Wars. Agli spettatori più attenti e agli appassionati di cinema non sarà sfuggito, inoltre, quanto spesso ricorrano le lettere THX e i numeri 1138 nelle opere prodotte dalla Lucasfilm.

Dopo L'uomo che fuggì dal futuro, Lucas diresse American Graffiti (1973, George Lucas), una lettera d'amore alla sua gioventù segnata dalla passione per le corse in macchina ed una scommessa vinta contro Coppola, che non lo riteneva capace di scrivere e mettere in scena una commedia tenera e nostalgica; la pellicola fu un grande ed insperato successo e aprì le porte alla realizzazione della saga galattica che avrebbe rivoluzionato il cinema e colonizzato la cultura popolare degli anni a venire. Star Wars appare, a ben vedere, come la felice unione dei tratti dominanti delle due precedenti opere del cineasta: da una parte la fantascienza popolata da tecnologia ed organizzazioni dittatoriali, dall'altra un occhio rivolto al passato e alla sua ingenua purezza. Aggiungiamo al mix un po' di film d'avventura degli anni quaranta, i cicli arturiani, l'interesse per le filosofie orientali, per i samurai e per Kurosawa, ed ecco che il panorama inizia a diventare decisamente familiare.

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