mercoledì 25 dicembre 2019

Star Wars: L’ascesa di Skywalker (Star Wars: The Rise of Skywalker, J.J. Abrams, 2019)


Attenzione: nell'articolo sono presenti spoiler

Così nella narrativa come in molti altri ambiti della vita, giungere ad un dato risultato – in questo caso, il finale della storia narrata – è tanto più semplice quanto più si è lavorato bene in precedenza, introducendo e svolgendo con la dovuta cura i punti cardine, prestando attenzione alla graduale evoluzione dei personaggi e facendo in modo che l’arrivo del loro viaggio risulti significativo sia per loro che per gli spettatori che ne hanno seguito fedelmente le gesta. Naturalmente, più la vicenda messa in campo è grande e complessa, maggiori saranno le difficoltà da affrontare e i dilemmi da svolgere e se la saga da concludere, apparentemente in maniera definitiva, è quella di Star Wars, l’impresa che ci si trova davanti è quasi impossibile.

In un certo senso è la stessa natura della creatura di George Lucas a respingere una conclusione assoluta; uno degli elementi più caratterizzanti ed innovativi della struttura del primo film del 1977 è infatti il suo aprirsi in medias res come quarto episodio di un serial cinematografico alla stregua di Buck Rogers o Flash Gordon, dove il testo iniziale riassume le puntate precedenti e l’inizio e la fine sono in fondo relative rispetto al susseguirsi delle avventure dei personaggi. A riprova di ciò, non è bastato neppure il finale de Il ritorno dello Jedi nel 1983, che pure sembrava abbastanza definitivo, a saziare definitivamente la fame degli appassionati: le vite dei personaggi principali sono continuate per decenni all’interno di romanzi e fumetti. L’uscita della trilogia prequel, pur con tutte le diatribe e le critiche che ha generato, ha aperto uno spiraglio su un altro momento storico della galassia, ancora più vasto e popolato, generando serie animate e innumerevoli altre storie, successive, precedenti o parallele. Una nuova speranza è stato il big bang di un universo in continua espansione da quarantadue anni.

Prendendo in considerazione tutto ciò, l’incarico che J.J. Abrams si è trovato a sorpresa ad ereditare da Colin Trevorrow dopo il suo allontanamento dal progetto era tutt’altro che semplice. Il metodo scelto per affrontarlo è quello dell’accumulo: a livello di scrittura e di montaggio si predilige la quantità sulla qualità, focalizzandosi più sulla spettacolarità visiva e sonora che sulla cura del dettaglio. Gli eventi, i ritrovamenti, le rivelazioni e gli spostamenti da un pianeta all’altro si susseguono velocissimi, tanto che c’è pochissimo tempo – sia per gli spettatori che per gli stessi personaggi – di processare emotivamente quanto accade. La sceneggiatura sembra puramente funzionale, un mero strumento per mettere in ordine un susseguirsi di situazioni e scontri più che il fondamentale scheletro su cui ogni momento dovrebbe reggersi e trovare il proprio significato. Ciò che appare sullo schermo è un grande e roboante spettacolo pirotecnico che finisce per perdere di vista, in mezzo al bagliore e al fracasso, i propri personaggi e lo stesso sviluppo della sua storia, troppo impegnato ad ingrandire le dimensioni del conflitto e le possibilità dei poteri dei propri protagonisti fino ad arrivare all’eccesso.

Pur essendo stato percepito da molti spettatori come in netto contrasto con l’episodio precedente, in realtà condivide con esso, e in un certo senso addirittura esaspera, un elemento che chi scrive aveva identificato come un difetto piuttosto pesante: la mancanza di ricadute emotive di quanto accade sullo schermo, non in tutte ma in parecchie occasioni. Nel nono episodio due comprimari sembrano incontrare la propria fine, ma l’addio viene smentito dopo pochi minuti, vanificando quanto avvenuto poco prima. Non si tratta di per sé di un meccanismo particolarmente scandaloso, se non altro perché ampiamente e da lunghissimo tempo utilizzato nella cultura popolare; ciò che disturba è la velocità vertiginosa con cui viene rivelata la sopravvivenza del personaggio, che non permette di creare una qualche minima suspence, o almeno un po’ di curiosità per le svolte della trama.

Anche se la complessità drammatica non è mai stata una delle caratteristiche principali di Star Wars, ne L’ascesa di Skywalker la si evita in ogni modo possibile, semplificando e scansando ogni difficoltà narrativa senza prendersi la briga di affrontarla, affidandosi spesso e volentieri a risoluzioni che sembrano precipitare dal cielo senza una vera spiegazione. Il ritorno dell’Imperatore è dato per assodato fin dai primi minuti della pellicola e mai veramente giustificato; i combattenti della Resistenza, pur essendone stati informati indirettamente, lo accettano senza farsi troppe domande e senza mettere in dubbio la veridicità di una possibilità tanto assurda, che modifica profondamente l’accadimento più importante messo in scena in precedenza.

L’arco dei personaggi principali, introdotto in modo tutto sommato soddisfacente nel settimo episodio, non arriva davvero a compiersi per la maggior parte di essi: Finn nel complesso rimane uguale a se stesso, dal finale de Il risveglio della Forza non mostra di essere cambiato significativamente. Le relazioni con Rey, Rose e Jannah non approdano a nessuno sviluppo di per sé pregnante. Poe mostra in alcuni momenti di riconoscere i propri limiti al di là dell’arroganza che altrimenti lo contraddistingue nella maggioranza delle circostanze, ma non si tratta di una vera e completa evoluzione e, esattamente come per Finn, la sua relazione (passata e presente) con Zorii Bliss è esposta frettolosamente e senza particolare cura; quest’ultima è, peraltro, un personaggio che sembra esistere puramente per traghettare i personaggi da un punto all’altro del loro percorso senza comportare nessun nuovo sviluppo. Alla fine dei conti e al netto delle numerose scene umoristiche di cui sono protagonisti, sia l’ex assaltatore che il miglior pilota della Resistenza risultano personaggi poco memorabili, quasi anonimi, che non compiono o dicono nulla di unico (cioè, che non poteva essere associato a nessun altro personaggio) e che sia di per sé memorabile.

Rey affronta una volta per tutte il grande dilemma che la caratterizza fin dalla sua comparsa, ma il suo svolgimento non è, per chi scrive, particolarmente soddisfacente: per quanto l’influenza malefica dell’Imperatore sia sentita da tutti e in ogni luogo dell’universo narrativo, con Rey nello specifico non ha alcun legame al di là della parentela. Potrebbe sembrare una sottigliezza, ma si tratta di una questione che ha un certo peso nello svolgimento del conflitto tra i due, che finisce per avere una scarsa eco emotiva, mancando altri elementi che potrebbero creare un rapporto più personale ed interessante da dipanare. Si pensi alla sconvolgente rivelazione del finale de L’Impero colpisce ancora: Darth Vader, per Luke, non è soltanto il capo delle forze del male, ma è anche l’uomo che ha ucciso il suo maestro, Obi-Wan Kenobi, e che ha cercato di ucciderlo durante la battaglia sulla Morte Nera. Scoprire che la sua nefanda figura coincide con quella di suo padre, ammirato da molti e da lui stesso, è profondamente disturbante per il personaggio e per gli spettatori. Inoltre la scoperta avviene durante un dialogo diretto tra i due personaggi, alla fine di un difficile duello. Ne L’ascesa di Skywalker, invece, è un terzo personaggio estraneo al legame di sangue, Kylo Ren, a rivelare la parentela della protagonista, in una scena tra l’altro gestita in maniera piuttosto fredda per quanto riguarda la regia, rendendo perciò piuttosto difficile sentirsi davvero emotivamente coinvolti nella contesa. La simpatia per Rey rimane, in fondo, ad un livello piuttosto superficiale; tutta la sua storia, alla fine dei conti, si lega a questa parentela e al suo affrancarsi da essa, senza però permettere di guardare davvero ai suoi sentimenti, anche negativi o spiacevoli, se non in uno scambio di battute con Finn di per sé piuttosto blando e poco integrato all’interno dell’insieme. A differenza di Luke, che ne L’Impero colpisce ancora tralasciava i consigli dei propri maestri, peccava di arroganza e pagava il prezzo della sua avventatezza, la ragazza rimane una granitica paladina del bene in grado di cavarsela miracolosamente in ogni occasione, senza commettere veri errori, senza subire reali conseguenze e senza cedere alla paura se non per un breve momento, e questa incapacità di sbagliare o tentennare le impedisce di svilupparsi realmente come personaggio.

È Kylo Ren, in realtà, a presentare l’evoluzione più importante – si trattava, del resto, del più complesso e meglio descritto dei nuovi personaggi introdotti in quest’ultima trilogia, fin dall’inizio quello più ricco di spunti interessanti. Lo sviluppo del suo conflitto interiore trae in fondo più giovamento dall’ottima e accurata interpretazione di Adam Driver che dalla sceneggiatura, che non fa nessuna eccezione e tratta sbrigativamente il suo arco esattamente come quello degli altri, senza dargli un grande spazio e subordinandolo spesso alle scene di azione e combattimento, e che per portare sulla scena lo snodo centrale si risolve a riproporre e rielaborare lo stesso identico dialogo che ne Il risveglio della Forza sanciva l’adesione all’oscurità del figlio di Han Solo e Leia Organa. Non è di per sé la peggiore delle soluzioni possibili, ma non si tratta di certo della più originale. Per buona parte del film, inoltre, Kylo Ren svolge sostanzialmente il ruolo dell’emissario di Palpatine, nonostante egli stesso lo neghi, minando così l’importanza dell’uccisione di Snoke nell’ottavo episodio, con la quale aveva apertamente dichiarato di non voler più sottomettersi a nessun altro anziano signore oscuro ma di perseguire soltanto i propri scopi. Più che dalla scrittura, la grande umanità e vulnerabilità del personaggio emerge dalla recitazione, mai sopra le righe, sensibile e intelligente nel cogliere gli stati d’animo profondi e nel trovare il modo più adatto per portarli sulla scena.

Arrivati al termine di quest’ultima trilogia, infine, è forse giunto il momento di prendere in considerazione un ulteriore, fondamentale argomento, che non è possibile tralasciare se si ha intenzione di tirare le somme: la natura intimamente metacinematografica di Star Wars. La saga creata da George Lucas è infatti composta da un fitto gioco cinefilo di rimandi ai serial cinematografici di cui si parlava nel primo paragrafo, ibridati con alcuni elementi del genere western e molti altri ispirati da La fortezza nascosta di Akira Kurosawa. L’eclettico insieme di riferimenti viene tenuto insieme da un soggetto che, ispirandosi al saggio L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell, si articola attorno alle situazioni e alle figure tipiche del viaggio dell’eroe, che si ripresenta nelle sue tappe fondamentali in numerosissimi miti e fiabe in tutto il mondo. Lo svolgimento della vicenda è, perciò, volutamente formulare e arcaico. Una nuova speranza è un film che riflette e rielabora i classici e finisce per diventarlo esso stesso, che gioca con il concetto di serialità e si tramuta nel suo più fulgido esempio. È lo spericolato esperimento di un giovane e promettente laureato della University of Southern California che si rivela a sorpresa il perfetto blockbuster che centinaia di produttori non avrebbero saputo ideare.

I film prodotti negli ultimi anni hanno tentato apparentemente di fare a meno di questo substrato tradizionale, forse perseguendo l’obiettivo di porsi maggiormente in comunicazione con la cultura popolare moderna, ma ne soffrono e finiscono per risultare spesso banali e ripetitivi perché non affondano più le proprie radici nel brodo primordiale da cui traevano il proprio nutrimento e la propria vitalità, risultando alla fine riproposizioni svuotate del significato originario e incapaci di trovarne uno autonomo. Se un approccio modernizzante in certi casi può rivelarsi congeniale agli spin-off (come per esempio Rogue One), che sono effettivamente racconti a sé stanti che possono non adeguarsi alle regole generali proprio in virtù della loro maggiore indipendenza dal quadro generale, non lo è affatto per quanto riguarda la saga principale, che deve collegarsi al corpus già presente in maniera organica. L’unico riferimento che J.J. Abrams sembra prendere davvero in considerazione è la trilogia originale, finendo così per rendere spesso e volentieri sia Il risveglio della Forza che L’ascesa di Skywalker eccessivamente autoreferenziali e privi di un respiro innovativo. Alla fine dei conti, pur avendo portato ad un film tutt’altro che perfetto e di difficile gestione all’interno di una serie, l’approccio anarchico adottato da Rian Johnson ne L’ultimo Jedi aveva almeno il pregio di mettersi in relazione con quanto venuto prima provando a proporre riflessioni inedite e qualche punto di vista inusuale. Al di là degli inciampi, aveva un suo messaggio da comunicare e si poneva come obiettivo un radicale allontanamento dal passato per gettarsi nel futuro. L’ascesa di Skywalker, invece, pare ambientato in un mausoleo: fin dal crawl iniziale si presenta come una storia di morti che ritornano, e verrebbe da chiedersi se non sia anche ed involontariamente un commentario sullo stato attuale della settima arte, almeno di quella pensata per la fruizione all’interno della sala cinematografica, che in un momento di profonda crisi si aggrappa alle glorie del suo passato senza avere il coraggio di lasciarle andare per creare qualcosa di veramente nuovo.

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