mercoledì 25 dicembre 2019

Madre! (Mother!, Darren Aronofsky, 2017)


La struttura circolare di Madre! si apre e si chiude con la stessa parola: «baby», pronunciata con intonazione interrogativa dalla donna protagonista, che si sveglia nel proprio letto, allunga un braccio e scopre accanto a sé un inaspettato spazio vuoto. Di primo acchito, considerata anche l’ambientazione della scena, si sarebbe portati a ritenerla riferita al marito; ma una volta arrivati al termine del film ci si chiede se non le si debba attribuire un altro senso. Del resto, l’uomo della coppia è di almeno una ventina d’anni più grande della protagonista (un dettaglio che viene sottolineato in più occasioni lungo la pellicola): la scelta di un simile vezzeggiativo, per quanto di uso estremamente comune, potrebbe suonare in effetti un po’ strana. Il significato letterale, «bambino», alla luce di quanto accade nell’ultimo atto, non appare così fuori luogo. Madre! è, in un certo senso, la storia di una prole ciclicamente ed inesorabilmente perduta.

L’intreccio sceneggiato da Aronofsky al suo livello di lettura più superficiale appare fin dall’inizio piuttosto assurdo: una coppia si è da poco trasferita in una grande villa immersa nel verde, la casa di famiglia del marito, distrutta completamente da un incendio tempo prima e ricostruita grazie agli amorevoli sforzi della moglie. Intorno ad essa non c’è né una strada, né un qualunque segno di civilizzazione, soltanto alberi e silenzio. L’uomo è un famoso poeta impegnato nella scrittura della sua nuova composizione, mentre la ragazza si occupa di lui e delle riparazioni della casa, ancora in corso ed eseguite personalmente da lei. Sebbene l’occhio della macchina da presa osservi i personaggi con un taglio piuttosto realistico, l’assoluto isolamento in cui essi vivono sembra fin da subito così estremo da apparire innaturale. Inoltre, la protagonista toccando le mura visualizza un cuore pulsante, che rappresenta lo stato dell’edificio e di lei stessa; ella è infatti profondamente collegata ad esso in una sorta di rapporto simbiotico, come se fossero uniti da un invisibile cordone ombelicale. Per quasi tutta la durata della pellicola cammina a piedi nudi, la propria pelle a diretto contatto con il pavimento. Tra le assi di legno si aprono ferite, esse sono organiche e vive come i muri in Repulsione (Repulsion, Roman Polanski, 1966), ma a differenza di quanto mostrato in quest’ultima pellicola non è possibile ricondurre definitivamente il fenomeno ad un dichiarato squilibrio mentale della persona che lo osserva. La forma che più spesso ritorna, associata a lei e alla villa, è quella del cerchio, che rimanda all’immagine del mondo, e forse anche all’utero materno e alla protezione che fornisce.

La vicenda raccontata sembrerebbe la storia dal taglio onirico di un amore distruttivo, in cui un uomo cannibalizza la donna che ama per trarne il nutrimento per la propria arte. Aronofsky ha dichiarato in un comunicato rilasciato poco prima della presentazione del film l’ispirazione all’origine della sua creazione: il grande e nefasto impatto del genere umano sullo stato del pianeta, la violenza e l’odio che continuamente vengono riversati sugli uni, sugli altri e più in generale sull’ambiente. Tutto ciò è rappresentato visivamente tramite chiarissimi richiami al racconto biblico della creazione: i personaggi che appaiono nel film e gli avvenimenti hanno un corrispettivo piuttosto evidente e per nulla celato. Il poeta è Dio; se non bastasse il divieto di toccare il cristallo nello studio – un rimando al frutto proibito nel giardino dell’Eden – la stessa scelta del mestiere attribuitogli rende inequivocabile l’identificazione. L’origine della parola «poeta», infatti, è da ricercarsi nel corrispettivo in greco antico «ποιητής », che deriva a sua volta dal verbo «ποιέω», ovvero «fare», «fabbricare», oppure, con accezione più cristiana che pagana, «creare»; Dio è del resto il creatore per antonomasia e, nel libro della Genesi, separa la tenebra dalla luce e poi procede immediatamente ad attribuire ad esse un nome, notte e giorno. L’atto della creazione passa perciò anche attraverso l’uso delle parole. La moglie, invece, è la personificazione della Terra: una forza fertile e vivificante che si pone al servizio del dio e rigenera ciò che era andato distrutto. La coppia di estranei che viene accolta in casa richiama Adamo ed Eva (l’uomo mostra addirittura in una scena una ferita sul costato, un rimando alla nascita della prima donna), e i figli litigiosi che vengono introdotti successivamente sono Caino e Abele; le seguenti irruzioni della folla via via sempre più incontrollabile rimanderebbero al fiorire dell’umanità e la rottura del lavandino al diluvio universale. Il volere e il benessere della protagonista sono continuamente inascoltati ed ignorati, portando a conseguenze sempre più gravi per la casa e per lei stessa, fino a giungere ai terribili estremi delle sequenze finali del film, che sfociano nell’orrore mettendo in scena una rappresentazione letterale del rituale cristiano dell’eucarestia, che passa attraverso il sacrificio di un innocente. La macchina da presa rimane incollata al volto e al corpo della madre al centro del film, ne segue le sofferenze psicologiche ma soprattutto corporee. Nella sua carne ferita, picchiata e portata allo stremo della propria resistenza è concentrato il dolore di un pianeta intero di fronte ad un umanità egoista e dannosa. Il dio di Madre! è, in fondo, fragile e vanesio, incapace di accettare i pesanti difetti della sua creazione e di porre un freno alla sua distruzione, bisognoso di approvazione e venerazione, pronto ad ignorare e addirittura sacrificare la propria compagna per giungere al risultato desiderato.

L’allegoria è tracciata sullo schermo con pennellate pesanti e sanguinose, senza prestare particolare attenzione alla verosimiglianza e neppure all’eleganza, che infatti è spesso tralasciata per inseguire con una determinazione addirittura eccessiva il messaggio da trasmettere. Madre! pare un cupo e violento incubo prodotto da una mente febbrile, poco equilibrato e addirittura fastidioso a tratti nel suo mettere in scena un ciclo di morte, risurrezione e morte a cui sembra impossibile sottrarsi, ma morbosamente affascinante nella sua inquietudine, sgraziato ma proprio per questo potente in un modo che richiama in certi momenti il Saturno che divora i suoi figli di Goya, il suo buio e la sua assoluta mancanza di speranza.

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