giovedì 6 febbraio 2020

Jojo Rabbit (Taika Waititi, 2019)


Maschere e travestimenti fanno da sempre parte dei giochi infantili; assumere identità ed esplorarle è una componente fondamentale del processo che porta a trovare la propria, e che spesso passa attraverso il riconoscersi come membri di un gruppo dagli specifici valori e obiettivi, un istinto che si raffina in età adulta ma che in un certo senso non scompare mai del tutto. Alla radice del fervente nazismo del giovane protagonista di Jojo Rabbit e dei suoi coetanei vi è in fondo uno spasmodico desiderio di appartenenza, di cui la dittatura si serve crudelmente per i propri scopi bellici. Johannes Betzler (Roman Griffin Davis), del resto, ha dieci anni nel 1945; tutta la sua carriera scolastica si è svolta all’ombra della croce uncinata e del mito del Führer, che idealizza come suo amico immaginario. Ai suoi occhi la propaganda del regime è verità, e il grande carnevale delle divise, delle regole e dei complessi rituali non è una folle recita, della quale Taika Waititi enfatizza la tragicomica assurdità, ma la realtà.

La guerra raccontata alle ingenue reclute della Gioventù hitleriana è un eroico e glorioso sforzo per la patria, del quale anche gli aspetti più cruenti e controversi sono idealizzati o celati. I valori celebrati sono il coraggio nell’affrontare il nemico e la freddezza nell’eliminarlo; non c’è spazio per la pietà, neppure verso un animale innocente. L’indottrinamento è completo e assoluto, e il suo unico scopo è creare irriducibili sostenitori e soprattutto piccoli soldati che possano farsi carico dell’ultima, disperata difesa del Terzo Reich, che si sta inesorabilmente sgretolando sotto la crescente pressione degli Alleati. L’inevitabilità della sconfitta non è mai lasciata trasparire da nessuno degli adulti responsabili dell’educazione dei bambini: non c’è spazio per i dubbi o per le sfumature. La più cieca obbedienza è ottenuta attraverso proclami e dichiarazioni la cui certezza è, per i bambini, inebriante e rassicurante, l’espressione di una definita e familiare lettura della realtà che appare inevitabile ed incrollabile. Dietro le esercitazioni e le lezioni non c’è nessun intento didattico, anzi; l’unico obiettivo è propagare e rinforzare le menzogne del regime, in particolare per quanto riguarda la questione razziale. Fräulein Rahm (Rebel Wilson) dà ampio credito agli stereotipi e alle ridicole fandonie che i bambini raccontano sugli ebrei, anche quando sfociano nella pura fantasia. Tutto ciò che conta è rinfocolare l’odio e celebrare la violenza in nome della patria. Ciò non significa, tuttavia, che la fede nel nazismo sia completa ed assoluta in tutti i supervisori; il capitano K (Sam Rockwell), in particolare, sotto la divisa nasconde un’anima meno nera di quello che appare, e un’identità spiccata che appare in contrasto con il conformismo dell’ideale virile ariano.

All’apparato di regime si contrappone l’amorevole e coraggiosa Rosie (Scarlett Johansson), la madre di Jojo. Vestita di colori brillanti, sorridente e speranzosa nonostante le difficili condizioni di vita, la donna si oppone come può alla dittatura, senza coinvolgere il figlio per proteggerlo dalle conseguenze, ma allo stesso tempo senza mentirgli. Le sue battute e le sue azioni sono oneste e spontanee; in esse c’è l’intenzione di trasmettere a Jojo, che non ha conosciuto altro che la guerra o i suoi prodromi, la bellezza di un mondo in pace. Nel suo insistere perché il bambino veda i cadaveri impiccati dei dissidenti c’è un vero intento educativo, la volontà di mostrargli la brutalità del regime e la prova tangibile del coraggio di chi si ribella, che è molto maggiore di quello necessario a lanciare una granata in un bosco o a diffondere frottole. Non gli nasconde l’estrema pericolosità del mondo oltre la soglia della porta di casa, ma lo invita umoristicamente a tenerlo a mente e ad affrontarlo; non è una madre perfetta, ma è capace di discutere con il figlio del vuoto lasciato dal padre – disperso in Italia e probabilmente unitosi alla resistenza – con sincerità e dolcezza. È spesso associata alla musica e alla danza, simboli della liberazione dall’oppressione fisica e psicologica della dittatura, il naturale contrario del rigido e artificioso passo dell’oca dei soldati. Non indossa divise e non porta maschere, ma rimane se stessa, senza accettare l’interpretazione nazista della realtà ma anzi, battendosi contro di essa con gli strumenti che possiede. All’ideologia del rifiuto sprezzante della debolezza e della diversità, celebrata dal partito nazionalsocialista, si oppone l’affettuoso sostegno e la tenera comprensione con cui la donna sprona Jojo ad affrontare le difficoltà, e il suo porre l’accento sul fare ciò che si può, secondo le proprie possibilità, per incentivare la sopravvivenza della giustizia e della libertà, mossi dall’amore e non dall’odio.

Anche Elsa Korr (Thomasin McKenzie), l’adolescente ebrea che Rosie accoglie in casa all’insaputa del figlio, non risponde all’immagine femminile propagandata dal regime, ma anzi ne è il suo esatto contrario. Cresciuta nella paura e indurita dalle enormi avversità che si è trovata ad affrontare, è una creatura selvatica, rabbiosa e aggressiva, che si difende attaccando e che risponde con irritazione alle domande di Jojo, che cerca di ritrovare in lei, senza riuscirci, lo stereotipo razziale che gli è stato inculcato. La normalità della ragazza, in nulla diversa dalle sue coetanee giudicate ariane, risulta sempre più evidente anche agli occhi del protagonista, per il quale è sempre più difficile ignorarne la natura umana e non mostruosa, rendendo progressivamente più arduo il considerarla altro da sé e nemica, e pertanto continuare ad avvallare il sistema di valori che ha appreso. Con la sua stessa esistenza Elsa porta sulla scena l’ovvia e lampante verità che il Reich tenta di nascondere in ogni modo: non c’è nessuna reale differenza tra un ariano ed un ebreo. La brusca schiettezza della ragazza contrasta fortemente con l’apparenza giocherellona ed affabile dell’immaginario Hitler (interpretato dallo stesso regista), prodotto degli effetti della propaganda sulla mente di un bambino; il modo di fare bonario, tuttavia, è soltanto un velo posto sopra ai messaggi della dittatura e al suo sempre più insistente e disperato appello ai suoi seguaci perché rimangano fedeli ad essa nell’ora della resa dei conti.

Le drammatiche conseguenze di un simile e prolungato indottrinamento emergono a piena potenza in alcune sequenze della parte finale di Jojo Rabbit; la furia dei molti bambini e adolescenti che lottano contro l’inevitabile sconfitta è l’espressione massima del sistema di valori che è stato loro imposto fin dalla più tenera età, e che li ha plasmati in irriducibili sostenitori del nazismo, l’unico sistema sociale che abbiano mai conosciuto. La scrittura e la regia di Waititi affrontano un tema così complesso con grande delicatezza e leggerezza, e pur mantenendo un tono per lo più allegro per la maggior parte della vicenda, l’intento morale della storia raccontata emerge chiaramente, senza perdere forza ma anzi acquistandone, in quanto è proprio il punto di vista infantile a far risaltare la violenza e la pervasività della persuasione operata dal totalitarismo su una mente innocente. Nel fare ciò dimostra di essere in possesso di un dono non comune: far riflettere con il sorriso.

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