mercoledì 26 febbraio 2020

Memorie di un assassino (살인의 추억, Sar-in-ui chu-eok, Bong Joon-ho, 2003)


Lungo una stradina sterrata che costeggia una miriade di campi verdi e rigogliosi, sotto un cielo azzurro intenso, un trattore avanza lentamente; un nugolo di bambini lo insegue festante. Memorie di un assassino si apre con immagini agresti, amene, ma la tranquillità è presto squassata; l’agricoltore che guida il mezzo, infatti, non si avvia ad una lunga giornata di lavoro, ma accompagna l’investigatore Park Du-man (Song Kang-ho) sulla scena di un tremendo delitto. All’interno di un canale di scolo poco lontano è stato rinvenuto il cadavere di una ragazza stuprata e uccisa. Si tratta di un evento inaudito e disturbante nella tranquilla provincia in cui il film è ambientato, che le locali forze dell’ordine sono del tutto impreparate ad affrontare. A coadiuvarle giunge da Seul il giovane e laureato detective Seo Tae-yun (Kim Sang-kyung), i cui metodi finiscono per scontrarsi con quelli, decisamente meno scientifici, di Du-man e del suo irascibile collega Cho Yong-gu (Kim Roe-ha).

Nel contrasto tra il provinciale Park Du-man e il cittadino Seo Tae-yun è visibile, in trasparenza, lo scontro tra classi al centro dei successivi Snowpiercer e Parasite; le accurate e meticolose procedure del secondo sono apertamente derise dal primo, che indaga affidandosi al proprio istinto e alle proprie gambe, confidando che i criminali, in un’area così periferica e ristretta, dove tutti si conoscono, saltino fuori quasi da sé. Il disprezzo è, del resto, reciproco. Mentre Tae-yun scartabella documenti e analizza dichiarazioni e prove, andando scrupolosamente alla ricerca di una pista affidabile che possa indicare la via verso la risoluzione del caso, Du-man si affida alle voci di paese e persino alla magia, identificando dei possibili sospettati in alcuni soggetti dai comportamenti eccentrici, interrogandoli e torturandoli nei sotterranei della centrale, estorcendo dichiarazioni poco o per nulla veritiere. Più che una rigorosa indagine, si tratta dell'individuazione di un capro espiatorio a cui addossare la colpa delle disgrazie della comunità, che Tae-yun osserva con sufficienza e distacco.

Un’ironia feroce, tuttavia, si accanisce su entrambi i personaggi e, se all’inizio i suoi effetti portano a momenti e sequenze venate di efficace comicità, con il procedere della trama – e l’inarrestabile proseguire delle uccisioni – gli eventi assumono un tono sempre più cupo (una dinamica riproposta anche nel già citato Parasite), acuito dall’evidente scarsità di mezzi e personale qualificato con cui la forza di polizia della zona si trova ad affrontare l’emergenza. Le convinzioni lentamente si sgretolano e conflagrano con il susseguirsi dei buchi nell’acqua: Du-man, dopo una serie di clamorosi abbagli, scopre quanto inaffidabili possano essere il proprio intuito e il proprio sguardo, mentre Tae-yun subisce una cocente e amarissima sconfitta proprio a causa dei documenti ai quali si affida ciecamente. La cattura dell’assassino rimane un miraggio che scompare non appena si è convinti di essersi avvicinati ad esso, e consuma progressivamente la forza d’animo di chi tenta di affrontarlo, indebolendone le convinzioni e la morale. È un abisso che, come in Zodiac (David Fincher, 2007), attira, imprigiona e ossessiona senza mostrare nulla di sé se non poche e sparute tracce.

Il luogo in cui è ambientato il confronto finale contiene l’immagine che in un certo senso esemplifica e riassume sullo schermo il terribile potere di un crimine irrisolto: l’imbocco oscuro di una galleria ferroviaria, all’interno della quale i binari si perdono in una tenebra che la luce del sole non riesce a penetrare. È il portale verso la parte nascosta dell’animo umano, la più profonda e allo stesso tempo la più inconoscibile, dove dimorano le emozioni più intime, violente e, spesso, inconfessabili, che dovrebbero restare per sempre celate (e irrealizzate) e che invece le azioni ribelli dell’omicida portano alla luce. L’opera degli investigatori, quindi, è in fondo un arduo scavo nell’altrui e propria personalità, che mette alla prova la coscienza individuale e destabilizza, rivelando forse ciò che si preferirebbe continuare a non conoscere. È un mondo sommerso – un concetto che Parasite esplora a fondo con un’accezione forse più apertamente sociologica – la cui esistenza è suggerita e richiamata in molte altre ambientazioni del film, come il sotterraneo della centrale dove i sospetti vengono condotti per essere interrogati e seviziati, o il famigerato alloggio segreto scavato sotto i bagni pubblici accanto alla scuola, dove vivrebbe un folle che, secondo una leggenda, emergerebbe di notte per violentare ed uccidere le ragazze. Il ritrovamento della prima vittima, in effetti, già anticipa la presenza di questa dimensione parallela: per osservare il punto dove è stato abbandonato il cadavere, infatti, Du-man si inginocchia a terra e guarda all’interno della buia e profonda canaletta.

I corpi delle sventurate donne sono gli unici indizi di atti orribili perpetrati all’imbrunire e sotto una cortina di fitta pioggia, i soli segni che il colpevole lascia dietro di sé, enigmi che parlano indirettamente del proprio creatore senza però, paradossalmente, rivelarne abbastanza per comprenderlo davvero. Un uomo capace di atti tanto efferati può avere un’apparenza normale, comune, mimetizzarsi perfettamente in mezzo al resto della comunità e quindi, in un certo senso, disciogliersi in essa, contaminarla tutta. Se un assassino può nascondersi dietro le sembianze di un qualunque individuo, allora qualunque individuo può, in potenza, essere un assassino. A nulla vale concentrarsi su atteggiamenti e azioni non conformi, su compaesani per qualche ragione ai margini della società: il male è perfettamente integrato in essa, a tal punto da scomparire. È la definitiva sconfitta dell’indagine, che si scontra con l’impossibilità materiale di essere portata a termine, e che spinge verso la follia chi la conduce. L’unico modo di sopravvivere è allontanarsi dal vortice per quanto sia possibile; l’irresistibile fascino di un’impresa quasi irrealizzabile, tuttavia, è sempre pronto a risorgere, e con esso la delusione della disfatta, mai veramente accettata.

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