domenica 16 febbraio 2020

Note su Snowpiercer



Uno degli elementi più interessanti di Snowpiercer (Bong Joon-ho, 2013) è certamente il mondo nel quale la sua storia si svolge. L’avvento di una glaciazione estrema ha causato nel 2014 l’estinzione di gran parte della popolazione umana, provocata – in maniera piuttosto ironica – da un tentativo di scongiurare gli effetti del riscaldamento globale, rilasciando un agente chimico nell’atmosfera. I pochi superstiti rimasti viaggiano a bordo dello Snowpiercer, un avveniristico treno costruito dal magnate Wilford (Ed Harris), continuamente in movimento lungo un percorso che abbraccia l’intero pianeta. Il mezzo costituisce un ecosistema chiuso, in grado di produrre da sé il necessario per la sopravvivenza, anche se non senza grandi sacrifici

I vari ambienti del treno sono suddivisi rigidamente per classi, tra le quali non c’è – apparentemente – nessuna forma di comunicazione diretta. Come spiega Mason (Tilda Swinton) durante la sua prima apparizione, la divisione è stata operata inizialmente sulla base del tipo di biglietto acquistato dai passeggeri (prima classe, seconda, o nessuno), venendo poi reiterata negli anni con lo stesso vigore di una legge divina. Come un piccolo pezzo di un grande motore, ogni persona ha un suo posto assegnato all’interno del treno, che deve rispettare per evitare il nascere del caos. Per chi sfortunatamente si trova alla coda del treno, però, questo significa accettare una vita di stenti, violenze e soprusi perpetrati da chi si trova alla testa del veicolo. C’è una certa affinità tra questi relitti di umanità e quelli protagonisti della saga di Mad Max: entrambi vagano in un mondo post-apocalittico dove non esiste più un domani, cercando di sfuggire alla disperazione e sopravvivendo grazie a quel poco che resta della ormai estinta civiltà umana, raggruppandosi sotto la guida di personalità tanto carismatiche e (apparentemente) generose quanto aggressive e prevaricanti. Wilford, in fondo, è un padre-padrone tanto quanto Immortan Joe in Mad Max: Fury Road (George Miller, 2015), soltanto in maniera più raffinata. 

L’invalicabile confine tra le classi, che separa poveri e ricchi a tal punto che solo una violenta rivoluzione può tentare di oltrepassarlo, riporta alla mente anche la città di Metropolis (Fritz Lang, 1927), dove gli operai faticano in un inferno di vapore e metallo mentre chi trae guadagno dal loro lavoro vive in un giardino dell’Eden incastonato tra avveniristici grattacieli. Al contrario di quest’ultima pellicola, tuttavia, Snowpiercer non si conclude con un’intesa tra il cervello e le mani grazie alla mediazione del cuore; a bordo del treno, l’esistenza di un futuro diverso dal presente è resa impossibile dall’invariabile ripetitività con cui la vita scorre nei vagoni, grazie ad un sistema insieme razionale e crudele, che combatte l’estinzione arrogandosi il diritto di prendere il posto occupato in precedenza dalla natura, sfruttando, uccidendo ed ingannando innocenti nel nome della sopravvivenza a tutti i costi. L’unico modo di spezzare questo ciclo di abiezione è l’azione di un uomo «fatto anche lui come tutti gli altri», come dice Italo Svevo nell’ultimo paragrafo de La coscienza di Zeno, «ma degli altri un po’ più ammalato», quale potrebbe essere, più di Curtis (Chris Evans), Namgoong Minsoo (Kang-ho Song), disposto a rischiare l’autodistruzione per porre fine alle sofferenze di un’umanità ormai irrimediabilmente corrotta fin nel midollo, dando la possibilità alla Terra – e alla stessa umanità, almeno in Snowpiercer – di ripartire completamente da zero.

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