venerdì 12 dicembre 2014

La noia del sabato sera

Il sentimento più diffuso del sabato sera è la noia. La ragazza seduta sul divanetto più lontano dalla pista da ballo sorride di sottecchi, tira fuori lo smartphone e twitta immediatamente l'aforisma appena pensato: non finirà su Facebook perché lì lo leggerebbero anche gli amici con cui è uscita questa sera.
Il locale è semplicemente brutto: un quadrato di cemento nella periferia della città, senza neppure una finestra. Gli arredamenti kitsch cozzano tremendamente con le pareti spoglie, una mera illusione di ricchezza ed esclusività. Se lei ed il suo gruppo fossero entrati in un qualunque altro locale in qualunque altra periferia del paese, nulla sarebbe stato sensibilmente diverso, neppure il terrificante ed assordante impianto audio che le sta massacrando i timpani. Per quanto le è possibile, considerato il volume, non sta più prestando attenzione alla musica: sempre le stesse dieci canzoni di stagione che ha sentito milioni di volte in altri locali, remixate senza fantasia dal DJ di turno con l'unico scopo di offrire agli avventori un ritmo sul quale regolare il proprio ciondolare sulla pista, boom boom boom. I resti del suo cocktail annacquato giacciono sul fondo di un bicchiere di plastica opaca, abbandonato su un tavolino basso in mezzo ad altri dodici bicchieri vuoti e tre mezzi pieni (li ha contati). Si rimprovera il toast mangiato un'ora prima di uscire, forse se fosse stata digiuna l'alcol avrebbe fatto effetto e sarebbe riuscita a divertirsi; invece il rum è passato nelle sue vene come acqua.
Accende lo schermo luminoso del suo cellulare: sono passati solo dieci minuti dall'ultima volta che ha controllato l'ora. È troppo presto perché sia educato essere così tanto annoiati. Il suo vestito, comprato in un negozio del centro e cucito frettolosamente da qualche sarta sottopagata, le sembra terribilmente inutile, così come perse le sembrano le ore passate a stirare accuratamente i capelli ed a truccarsi il viso. Domani il sole sorgerà illuminando spietato le sue doppie punte, le sue occhiaie e le smagliature delle sue calze. Bisogna che trovi qualcosa da fare.
Ha perso di vista i suoi amici da un bel po', inghiottiti dal gorgo della folla sulla pista da ballo, e non le dispiace particolarmente: una volta scattata l'obbligatoria trentina di foto buie e sfocate con cui colonizzare il sonnolento pomeriggio domenicale dei social network non rimane molto altro da fare, tranne guardarsi attorno con aria imbarazzata. Alle undici di sera, dopo una giornata di stati, condivisioni, mi piace, foto, selfie, commenti, video, chi ha più effettivamente qualcosa da dire? Anche le domande più ovvie (come stai, dove hai comprato quel vestito, dicono che stasera faccia brutto) diventano superflue.
Nella penombra soffocante del locale piccole luci azzurrine spuntano qua e là, come piccoli fuochi fatui. Gli smartphone sono perennemente in funzione, ribollenti di parole, pixel, emoji, tarme fameliche capaci di divorare il mondo fisico in tempo reale. Le dita della sua mano destra si sono addormentate intorno alle superfici lisce del suo cellulare. Osservare il flusso incessante di aggiornamenti dei suoi contatti è allo stesso tempo estremamente piacevole e vagamente inquietante.
Qualcuno le sfiora un braccio: un ragazzo si è seduto accanto a lei e la guarda in modo interessato. Gli sorride stirando le labbra, lui le prende la mano e la fa alzare. Vuole ballare con lei: e sia. Strisciano in mezzo alla folla alla ricerca di un pezzo di pavimento da conquistare.
Incastrata insieme al suo cavaliere tra un gruppo di quindicenni in equilibrio sui tacchi a spillo e una coppia troppo occupata in una sequenza metodica di preliminari per far caso alla musica, ha modo di osservarlo meglio nella tenue luce rosata. Porta una camicia chiara, proveniente con ogni probabilità dal falsamente originale negozio di una multinazionale spagnola dell'abbigliamento. Il tessuto è troppo sottile ed è pieno di pieghe, le cuciture non sembrano migliori di quelle – estremamente economiche – del suo vestito. Porta una collana di perline di legno, certamente il residuo di una qualche vacanza in una località balneare con gli amici. Le sembra quasi di poter scorgere il volto dell'uomo di colore che gliel'ha venduta, le contrattazioni sul prezzo sotto il sole cocente. Ricambia con un mezzo sorriso lo sguardo languido di lui, impegnato in un corteggiamento stereotipo da film muto. Rodolfo Valentino precipitato in mezzo ad un tumulto di corpi sudaticci. Gli pesta un piede per sbaglio ed alza una mano in segno di scusa: lui non se n'è neppure accorto, troppo preso dall'interpretazione del suo copione. Si avvicina al suo orecchio destro e gli chiede, urlando, il suo nome. Dopo aver ascoltato la sua risposta le grida all'orecchio qualcosa che lei non riesce ad afferrare. Le mani sui suoi fianchi le accarezzano la schiena, strisciando contro le paillette del suo vestito. Stanno entrambi ballando fuori tempo.
Improvvisamente la tasca destra dei pantaloni di lui si illumina: con perizia ne estrae uno smartphone della dimensione di un piccolo libro tascabile. Il suo account Whatsapp è pieno di messaggi. Inizia a rispondere a tutti, una mano sulla sua schiena e l'altra sullo schermo. Lei osserva i suoi capelli, la sua fronte, il viso rivolto verso il basso illuminato dalla luce fredda del cellulare, le occhiaie ben in vista, un graffio da rasatura su una guancia. Sposta delicatamente la mano di lui e gli comunica, a gesti, che deve andare, la scusa più generica che riesce a trovare. All'inizio l'ingannato resiste, scuote la testa, cerca di riafferrarla, alla fine si arrende e la saluta con un cenno, avanzando faticosamente tra la folla. Lei inciampa su piedi sconosciuti nella direzione opposta.
Attraversa l'intera sala, scende qualche scivoloso gradino ed entra in una stanza più piccola e meno affollata. La musica è ancora meno invitante ma i divanetti sono sufficientemente liberi. Non ha proprio idea di dove siano i suoi amici, dovrà mandargli un messaggio. Tira fuori il cellulare dalla borsetta e digita velocemente un “dove siete” telegrafico che invia a più persone con la speranza che almeno una lo legga. Attendendo la risposta apre Twitter, quasi senza pensarci. Qualcuno ha retwittato il suo pensiero e lei sorride compiaciuta tra sé e sé; però i profili di chi ha trovato interessante la sua considerazione riguardo al sabato sera non sono granché, non abbastanza da renderli davvero interessanti. Migra allora su Facebook ma la sensazione di noia perdura. Una sua ex-compagna di liceo ha pubblicato le foto della sua serata e sembra che si stia divertendo, anche se lei in quel locale è già stata e sa che non ha nulla di diverso da quello in cui si trova ora. Tap-tap: due colpi sullo schermo e la foto si ingrandisce, come pronta su un metaforico tavolo operatorio governato dalle sue dita. La palpa con attenzione e con abilità. Purtroppo la risoluzione non è molto alta, ma, osservando bene, le sembra che il sorriso della sua conoscente sia un po' tirato.

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