giovedì 18 dicembre 2014

Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate, ma non solo

Voglio mettere subito in chiaro una cosa: questa non sarà una recensione, sarà una sperticata ed imbarazzante lettera d'amore. È altresì necessario che specifichi subito che parlerò de Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate e che, pur non entrando troppo nel dettaglio, qualche spoiler potrebbe sfuggire. Pertanto se non volete sapere nulla di quello che vedrete in quelle due ore e mezza, vi consiglio di non continuare la lettura per il momento.


Let me not to the marriage of true minds
Admit impediments. Love is not love
Which alters when it alteration finds,
Or bends with the remover to remove:
O no; it is an ever-fixed mark,
That looks on tempests, and is never shaken;
It is the star to every wandering bark,
Whose worth's unknown, although his height be taken.
Love's not Time's fool, though rosy lips and cheeks
Within his bending sickle's compass come;
Love alters not with his brief hours and weeks,
But bears it out even to the edge of doom.
If this be error and upon me proved,
I never writ, nor no man ever loved.

Shakespeare, Sonetto 116


Ogni volta che parlo con qualcuno della Terra di Mezzo di Peter Jackson mi premuro sempre di ricordare al mio interlocutore che su questo argomento sono la persona meno obbiettiva del mondo. Provo per questa - ormai - esalogia un amore profondo, un sentimento che per la sua propria natura mi porta ad amarne anche i difetti, allo stesso modo in cui della persona amata si ama una piccola ruga, una smorfia od un grosso neo. Sappiamo che per altri, più obbiettivi, potrebbero essere dei segni di bruttezza: ma è solo perché non possono guardarli con i nostri occhi, non li sanno amare come li amiamo noi, noi innamorati, che sappiamo coglierne la bellezza, goderne come nessun altro. Anche in ciò che è irregolare ed in qualche modo sbagliato riusciamo a vedere una parte dell'oggetto del nostro amore. Sarà insano? Se essere pazzi è così pieno di passione, così bruciante, così vivificante, lasciate che lo sia.
Ricordo di aver visto La compagnia dell'Anello per la prima volta in un giorno qualunque del 2002, a scuola, in una classe piena di studenti annoiati e su un piccolissimo televisore. Ho riempito pagine di quaderno scrivendo febbrilmente quello che succedeva mentre il nastro della videocassetta si svolgeva (dovevamo appuntarci la trama per una relazione: quando si tratta di scrivere sono sempre stata un'esagerata). Anche ad una bambina di undici anni era chiaro che quel film era diverso da qualunque altro, anche se ero troppo piccola per comprenderlo veramente in tutta la sua interezza. Vidi Le due torri in una simile condizione l'anno dopo, almeno per la prima parte: il percorso sui cicli bretoni e sulle leggende arturiane che avevamo svolto si era concluso da un bel pezzo e la professoressa aveva bisogno delle sue ore. Affittai la videocassetta e sul televisore della camera da letto dei miei (sempre piccolo e quadrato) potei vedere la battaglia del fosso di Helm e meravigliarmi che tanta grandezza e tanta potenza potessero essere contenute in una serie di immagini. Aspettai con trepidazione l'uscita del terzo film in DVD (i miei genitori sono sempre andati poco al cinema ed io ero troppo piccola per poterci andare da sola), pensando tra me e me che più di quella battaglia, di quell'assedio fradicio di sangue, di pioggia e di disperazione non si potesse fare. Guardai il trailer trasmesso da Mtv milioni di volte e poi, finalmente, nell'estate del 2004 mi feci regalare, per la fine della scuola, il cofanetto della trilogia in widescreen. Mi ritrovai a tremare sconvolta di fronte alla carica dei rohirrim. Passai la battaglia dei campi del Pelennor con le mani giunte di fronte al naso, in preghiera (lo faccio tutt'ora), sperando per la vittoria. Trattenni il fiato durante il discorso di Aragorn - finalmente re di Gondor - alla battaglia del Nero Cancello. La forza d'animo di Sam mi stupì e mi coinvolse, partecipai intensamente al suo dolore per Frodo. Mi scordai dell'ora e del giorno. Sapevo che Il ritorno del re sarebbe stato bello, ma non credevo così tanto; nemmeno credevo che si potesse immaginare - e tanto meno realizzare! - un film così. Era tutto quello che nei miei sogni più folli avrei desiderato, forse addirittura meglio, ed era tutto reale.
A coronare tutto questo arrivò infine, a notte fonda (tutti erano andati a dormire da un bel po', tutte le luci erano spente, solo lo schermo del televisore brillava nel buio), l'illuminazione. Non so dire se per tutti arriva: l'irripetibile momento in cui in una manciata di secondi tutto cambia. Per me arrivò alla fine de Il ritorno del re. Dentro il mio cuore di spettatrice sapevo che, per quanto mi dispiacesse, sarebbe arrivato il momento degli addii. Sapevo che avrei dovuto salutare Gandalf, Aragorn, Legolas e Gimli: sono personaggi delle leggende e ad esse appartengono, non alla calma serenità della Contea. Potevo accettare, sebbene con un po' di malinconia, che Frodo, Merry e Pipino si separassero: quello che davvero mi spezzò il cuore fu l'addio tra Frodo e Sam, il caro Sam, l'instancabile Sam che avanza fino alla fine sostenuto dalla forza del suo buon cuore di semplice hobbit. Mi resi conto d'improvviso che non vedevo più nulla: battei le palpebre e due lacrimoni enormi e bollenti, gonfi di tristezza, scivolarono giù. Non avevo mai pianto davanti ad un film prima di allora. La persona che rimosse il DVD dal lettore non era la stessa che ce lo aveva messo: in tre ore - e soprattutto in quei minuti finali - era cambiato tutto. Scoprii con il tempo e con le visioni che avevo solo iniziato ad amare quelle nove ore di film.
Potrei scrivere temi su ogni personaggio, su ogni battuta, su ogni inquadratura. Ho imparato ad amare la mano registica di Peter Jackson, così nuova, così personale, così follemente visionaria, nello stesso tempo barocca ed intimista, capace di tenere insieme l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo. Tutta la gigantesca costruzione di questa esalogia crolla se si estromette dal suo centro la comprensione dell'ossessione per il potere. Io credo che Peter Jackson capisca profondamente il cuore di questa grande storia ed ami profondamente i suoi personaggi, tutti, anche quelli più immorali ed indegni, col risultato che anche noi, che li vediamo in un certo senso con i suoi occhi, finiamo per amarli. Pur in mezzo a roboanti ed avveniristici effetti speciali, i suoi personaggi restano intimamente e profondamente umani.
Questa nuova trilogia è stata per me il rialzarsi del sipario per un bis. Avevo letto intorno al 2007 che Lo Hobbit era molto lontano dal realizzarsi e comunque non in mano a Peter Jackson e mi ricordo che pensai che era un gran peccato, perché - almeno per me - gran parte del fascino de Il signore degli Anelli cinematografico sta nella mano registica, così lontana dallo stile letterario di Tolkien - misurato, elegante, controllato - eppure così perfetta per descriverlo (vi insinuo il dubbio: potrebbe essere perché Tolkien e Jackson condividono una certa tendenza ossessiva). Accolsi la notizia dell'inizio della produzione con considerevole apprensione. A settembre 2012 vidi il primo trailer ed iniziai a contare febbrilmente i giorni.
Per quanto mi riguarda Un viaggio inaspettato, La desolazione di Smaug e La battaglia delle cinque armate mi hanno pienamente soddisfatto: c'è molto di cui godere in questa trilogia, tantissime trovate visive eccezionali, tantissimi momenti memorabili e meravigliosi. Sono sicura che ho ancora molto da scoprire su questi tre film - come del resto sull'intera esalogia - e non aspetto altro che il cofanetto per poter fare la maratona definitiva. La mano di Peter Jackson è tutt'altro che stanca, anzi, per quanto mi riguarda, è più viva - e pazza - che mai. La macchina da presa danza instancabile. Potrei parlare di ogni inquadratura di quest'ultimo film - come dei cinque precedenti - ma non finiremmo più. Mi limiterò giusto a qualche accenno: quei primi piani intensi e bellissimi di Bilbo e Thorin; Richard Armitage in grado di passare dalla gioia alla rabbia cupa, comunicando quasi soltanto con gli occhi; tutti quei quadri organizzati in modo chirurgico, i movimenti di macchina estremi; quel dialogo tra Thorin e Bard orchestrato con un occhio scenico impagabile; l'uccisione del drago, che sì, mi aspettavo che sarebbe stata un grande spettacolo ma non che avesse così tanto cuore, che fosse così commovente, che potesse stupirmi così; la morte di Thorin tra le braccia di Bilbo, una scena stupenda, perfetta, struggente; i momenti slapstick che solo un pazzo come Peter Jackson potrebbe osare infilare in una mitologia tanto solenne, che pure la umanizzano ed avvicinano a noi spettatori; la follia di Thorin, che da sola giustifica la scelta di passare da due a tre film; il dialogo tra Thorin e Bilbo in cui sulla voce del nano si inseriscono, in modo allucinatorio, le parole di Smaug; il rinsavimento di Thorin in una scena fortemente onirica e di grandissimo impatto visivo e sonoro; lo scontro tra Galadriel e Sauron, genuinamente e puramente visionario; l'attenzione alle conseguenze della guerra, l'indugiare sui cadaveri; l'ultima battuta di Saruman, che lascia in sospeso senza rovinare la sorpresa del successivo tradimento dello stregone; la bravura di Martin Freeman nel rendere le movenze e lo spirito di uno hobbit; e si potrebbe andare avanti ancora un bel po', scena per scena. Dirò ancora soltanto una cosa, il risultato più incredibile di questa trilogia, almeno per me: onestamente non credevo possibile che si riuscisse a collegare le due trilogie in modo che i punti di sutura fossero invisibili. Ero convinta che, per quanto belle e per quanto ambientate nello stesso mondo, un muro le avrebbe separate per sempre, soprattutto nel mio cuore. Invece arriviamo alla fine del film ed a separarle c'è soltanto una porta, tredici anni ed un fuoricampo invertito: ed è subito La compagnia dell'Anello. Tutti i sei film narrano un'unica grande storia il cui finale è sempre Il ritorno del re, punto di termine che ora, invece di sbiadire, diventa più fulgido che mai, ancora più pregno di significato. I personaggi e gli eventi beneficiano di un ulteriore approfondimento, il disegno è più esteso e ancora più maestoso. Ancora una volta Peter Jackson mi stupisce: non credevo che avrei potuto amare di più la sua Terra di Mezzo. 

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