venerdì 1 luglio 2016

Ai confini della realtà (Twilight Zone: The Movie, John Landis, Steven Spielberg, Joe Dante, George Miller, 1983)


Nel 1982 John Landis e Steven Spielberg, al culmine del loro successo commerciale, decisero di realizzare un film sulla serie tv statunitense Ai confini della realtà (The Twilight Zone, 1959-1964), pietra miliare della fantascienza e molto amata da entrambi. La pellicola avrebbe dovuto essere suddivisa in quattro episodi, curati ognuno da un diverso regista, incorniciati da un prologo e da un epilogo. Alcuni personaggi avrebbero dovuto essere ricorrenti e nel finale tutte le storie avrebbero dovuto risultare collegate tra loro. Ad accettare di essere coinvolti furono Joe Dante e George Miller. Un terribile incidente occorso sul set di Time Out, il primo segmento ad essere girato e l'unico inedito, scritto e diretto dallo stesso John Landis, portò tuttavia ad una parziale modifica del piano e gettò una pesante ombra sull'intera operazione, che risultò infine, per la critica, per lo più fallimentare



La trama di Time Out gira attorno ad un comune e frustrato uomo americano (Vic Morrow) che, dopo aver dispensato ingiurie razziste verso ebrei, neri ed asiatici (Trump e Salvini sarebbero fieri di lui), si trova a sperimentare le loro stesse sofferenze, viaggiando apparentemente nel tempo e nello spazio. Strutturalmente, questo primo episodio è anche il più debole, in quanto completamente articolato sulla ripetizione variata di una stessa situazione, che sfocia in una conclusione non molto soddisfacente. La causa di ciò, però, è certamente in parte imputabile all'incidente occorso durante le riprese della scena finale, in cui un elicottero, finito fuori controllo a causa di alcune esplosioni maldestramente detonate, uccise l'attore protagonista e due bambini, assunti in nero, tra l'altro, per aggirare le rigide leggi californiane sul lavoro minorile nel cinema. 


Le tre morti pesarono a lungo sulla carriera di Landis e posero fine alla sua amicizia con Spielberg, che restò , in maniera del tutto comprensibile, profondamente scosso dall'accaduto, disamorandosi del progetto; forse tali luttuosi eventi possono spiegare perché l'episodio da lui diretto, Il gioco del bussolotto (Kick the Can), fu l'ultimo ad essere realizzato, e potrebbero anche fare luce sul suo peccato capitale. Non sarebbe giusto affermare che si tratti di un segmento mal gestito o sgraziato: la regia, com'è ragionevole attendersi, è pulita, personale e ragionata. L'idea alla base è semplice ma originale a sufficienza: un gruppo di anziani in una casa di riposo rimpiange la perduta giovinezza. Un sorridente stregone di colore realizzerà le loro fantasie, ma gli attempati pensionanti dovranno fare i conti con gli svantaggi che una ritrovata gioventù comporta. Il finale della storia, rispetto alla fonte originale, è modificato ed in gran parte epurato della sua amarezza, finendo così per distanziarsi enormemente, nei toni e nelle intenzioni, dall'episodio che lo precede e da quelli che lo seguono. Quella che si dipana è una vicenda dai toni idilliaci, financo commovente, ma irrimediabilmente fuori posto nell'economia dell'opera completa e in rapporto alla serie dalla quale è tratta. 


Molto più adeguato si rivela, invece, Prigionieri di Anthony (It's a Good Life), che tra le mani di un regista da sempre a suo agio nelle atmosfere degli horror di serie B come Joe Dante riesce ad esprimersi con libertà. L'idea alla base, ripresa da uno degli episodi originali della serie, non è particolarmente originale: una giovane insegnante finisce in un paesino sperduto della provincia americana ed incontra un bambino molto particolare, finendo per conoscere anche la sua famiglia. Un sorprendente elemento sovrannaturale, tuttavia, rende le scene insieme terrificanti e ridicole. Dante si muove con agilità negli anfratti di una scenografia leziosa e caricaturale, capace però di diventare profondamente inquietante appena girato l'angolo.


A completare il poker pensa l'australiano George Miller, al timone di Terrore ad alta quota (Nightmare at 20.000 Feet), remake di un episodio originale della serie, nel quale un passeggero decisamente agitato, in preda alla paranoia, crede di vedere un gremlin intento a distruggere i motori dell'aereo su cui sta viaggiando. La macchina da presa si concentra sulle espressioni stralunate del signor Valentine (John Lithgow), facendo crescere lentamente la tensione per poi schizzare via a gran velocità quando infine l'essere misterioso appare. Attorno all'agitato protagonista si muove un piccolo universo di personaggi quasi caricaturali, indifferenti prima e infastiditi dopo dal suo terribile dramma, per loro incomprensibile. L'obbiettivo è pienamente centrato; l'atmosfera, all'interno di questi fotogrammi cupi e fortemente contrastati, è palpabilmente angosciosa. 

 
Sarebbe difficile considerare Ai confini della realtà un'operazione realmente riuscita: probabilmente, il tragico incidente che ne ha squassato la produzione ha inciso pesantemente sull'uniformità del tono e sul progetto di fondo, dando origine ad un primo tempo decisamente disomogeneo per quanto ben diretto, riscattato da una seconda parte molto più centrata – forse anche perché affidata ai due registi che meno hanno avuto a che fare con le conseguenze di quanto accaduto sotto la supervisione di John Landis. Almeno da un punto di vista, però, il film va a segno: fa sorgere negli spettatori che già non conoscevano la serie televisiva una voglia bruciante di recuperarla e vederla nella sua interezza. Ai confini della realtà è forse, alla fine, un biglietto da visita con molte sbavature ma con una regia complessivamente più che buona.

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