lunedì 20 febbraio 2017

Split, la recensione


L’ultimo film di M. Night Shyamalan non ha tempo da perdere: l’incipit di Split è rapido e funzionale. Le tre ragazze protagoniste ci vengono brevemente presentate e poi immediatamente gettate nelle fauci del loro carceriere, dotato di ben 23 (o forse 24) diverse personalità, più o meno pericolose. Mentre loro cercano disperatamente di liberarsi dalla sua presa, qualcuno, al di là delle quattro mura in cui sono confinate, inizia a nutrire dei sospetti.

Dopo il buon The Visit, Shyamalan torna nuovamente ad affidarsi alla Blumhouse Productions di Jason Blum, l’uomo dietro un buon numero di film horror usciti negli ultimi anni, tra cui Sinister, Insidious e Paranormal Activity, che può inoltre vantarsi di aver collaborato alla realizzazione di Whiplash, il film d’esordio dell’astro nascente Damien Chazelle. La ricetta di Blum è semplice ed efficace: budget ridotto, amore per il genere, indipendenza dai grandi studi (tranne che per la distribuzione). È una strategia che per ora si è rivelata vincente: Split è costato appena nove milioni di dollari, ma ne ha già incassati più di un centinaio in tutto il mondo. La piccola, ennesima dimostrazione di come sugli schermi delle sale cinematografiche ci sia ancora spazio per storie popolari e dal gusto artigianale, capaci di parlare ad un pubblico ampio senza dover farsi carico delle attese (e dei rischi) che i blockbuster colossali portano inevitabilmente con sé. 


La regia di Shyamalan è ispirata, pulita e pragmatica, ma non rinuncia mai a cercare il punto di vista inusuale; la composizione delle inquadrature riesce a mantenere un ottimo equilibrio tra regolarità e stravaganza, mettendo al centro i personaggi, accompagnandoli docilmente lungo le scene, e concedendosi ogni tanto un guizzo d’inventiva che non passa inosservato. La sceneggiatura, firmata dallo stesso regista, flirta con il soprannaturale all’interno di una struttura da thriller che gradualmente muta in quella di un horror, mantenendo una vibrante tensione di fondo. Il finale riserva al pubblico un imprevedibile colpo di scena che strizza senza vergogna alcuna l’occhio ai cinecomic. 

Al centro di Split, indubbiamente, si trova James McAvoy, che affronta l’impresa di rappresentare più personalità all’interno di un solo corpo dando ad ognuna di esse un insieme di tic ed espressioni ben definite e riconoscibili, lavorando con ampie pennellate impressioniste; a presentazioni avvenute, è impossibile confondere anche solo per un secondo Patricia con Dennis, o Hedwig con Barry. Kevin è un buco nero, un pozzo profondissimo dal quale può emergere di tutto. A rapportarsi con questa specie di moderno Proteo è soprattutto la taciturna e scontrosa Casey, la cui interiorità trasuda dai grandi occhi da bambola di Anya Taylor-Joy e si concretizza nei numerosi flashback, che aprono una porta sul suo mistero portando avanti, insieme, una chiara metafora visiva sullo scontro al centro della vicenda. 

Split è perfettamente a suo agio con il suo animo commerciale; vuole parlare ad un pubblico ampio e per farlo sfrutta saggiamente i meccanismi del cinema di genere, senza lasciare che i tipi degenerino in puri stereotipi. Non ha nessun altro interesse se non quello di raccontare una storia avvincente, e proprio per questo motivo riesce nel suo intento.

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