lunedì 22 febbraio 2016

The Hateful Eight (Quentin Tarantino, 2015)


È impossibile, parlando di The Hateful Eight, prescindere dalla tecnica: il fatto che Taratino abbia scelto di optare per un formato poco utilizzato e legato ai grandi kolossal del passato come il 70 mm, a cui fu sempre preferito, piccola parentesi storica, il più economico anche se meno dettagliato 35 mm a causa delle alte spese che la produzione e la proiezione del primo comportavano, è parte integrante della sua costruzione e del suo senso cinematografico. Le copie in pellicola che stanno girando il mondo nel roadshow appositamente approntato, provviste di scene aggiuntive rispetto alle loro compagne digitali, rappresentano l'autentica visione del regista, il modo in cui auspica che la sua opera sia fruita. Ho avuto modo di assistere ad una delle proiezioni di tale versione al cinema Arcadia di Melzo, insieme ad un gruppo di amici cinefili quanto e più di me. Le mie conoscenze tecniche attuali non sono, purtroppo, particolarmente estese e non mi forniscono il necessario discernimento per parlare con coscienza di causa di questa decisione; quello che posso dire a riguardo è interamente legato alle informazioni che ho racimolato e alle mie reazioni sensoriali ed emotive.


Sembra difficile, in astratto, trovare afflati romantici nell'universo tarantiniano, eppure il suo ottavo film, per quanto riguarda la forma, ne trabocca: al fondo dell'opera c'è una struggente nostalgia per un mondo che sembra, almeno nella percezione, sempre più lontano. C'è stato infatti un tempo in cui in 70 mm venivano proiettati, come abbiamo sopra accennato, in spettacoli che erano veri e propri eventi, maestosi e costosissimi kolossal come Lawrence d'Arabia (Lawrence of Arabia, David Lean, 1962), I dieci comandamenti (The Ten Commandments, Cecil B. DeMille, 1956), Ben-Hur (William Wyler, 1959), Via col vento (Gone with the Wind, Victor Fleming, 1939) e Cleopatra (Joseph L. Mankievicz, 1963). Andare a vederli era un'esperienza eccezionale, un evento da ricordare grazie ai programmi stampati su carta patinata che era possibile acquistare fuori dalla sala; Tarantino ricalca tutto questo con amorevole perfezione, con una appassionata immersione nel vintage. Prima della proiezione, quando le luci in sala ancora non si sono spente, quasi tutti gli spettatori sono impegnati a sfogliare il programma, sbocconcellando fatti e curiosità. Anche per me, che per ragioni anagrafiche non posso dire di provare un particolare affetto per la celluloide, è affascinante osservare lo scorrere meccanico dei fotogrammi nel proiettore, il loro continuo sfarfallare e tremolare, così distante dal fluire digitale del cinema moderno, provando ad apprezzarne al meglio la resa dei colori, delle luci e dello sconfinato paesaggio montano immerso nella neve.


Tarantino è un narratore divertente e compiaciuto: lo stesso spirito divertito mi pare di scorgere nella scelta, apparentemente contraddittoria, di girare un film western in un lussuoso 70 mm – appositamente creato, in origine, allo scopo di immortalare al meglio i deserti sconfinati e le rocce polverose del deserto americano, sfondi prediletti per le avventure di carovane, diligenze, indiani e cowboy – ambientandolo quasi tutto in claustrofobici spazi chiusi. The Hateful Eight è un romanzo pop scritto in maniera accurata e stampato su carta preziosa; la divisione in capitoli mi sprona ulteriormente a visualizzarlo con questa metafora. I dialoghi, come sempre, sono fondamentali, brillanti, eccessivi e pieni di excursus. Ognuno degli odiosi otto, a suo modo, indossa una maschera, che tiene ben stretta, e tenta, tramite estenuanti duelli verbali, di scovare le crepe in quella dell'altro, nel tentativo di distinguere l'amico dal nemico. Il silenzio è temuto e guardato con sospetto. I paragoni con La cosa (The Thing, John Carpenter, 1982) e soprattutto con Le iene (Reservoir Dogs, Quentin Tarantino, 1992) sono, sotto questo punto di vista, giustificati. Ognuno degli attori principali trova pane per i suoi denti, e l'unica donna tra loro, Jennifer Jason Leigh, incarna un vero demonio fattosi femmina che nessuna violenza sembra in grado di spezzare o intimorire veramente. Rintracciare una figura veramente positiva nel mucchio è del tutto impossibile, come il titolo fa effettivamente ben presagire: banditi e cacciatori di taglie hanno comportamenti in fondo simili, e a dividerli resta soltanto la fortuita appartenenza all'uno o all'altro schieramento. 


Le nuvole si addensano a lungo, rombi di tuono echeggiano per tutto il teso primo tempo, esplodendo solo alla fine; nel secondo tempo la tempesta infurierà con violenza e con la necessaria – e prevedibile – abbondanza di sangue. La colonna sonora del maestro italiano Ennio Morricone, che grazie ad essa ha la possibilità, quest'anno, di vincere il suo primo premio Oscar oltre a quello alla carriera assegnatogli nel 2007, si snoda su toni molto cupi affidati agli archi, con un tema principale ripreso più volte e dalla cadenza ossessiva. Più che sulla complessità dell'orchestrazione, il compositore punta, io credo, ad evocare un'atmosfera inquieta che ben si adatta alle immagini che accompagna e sottolinea, assumendo, in alcune scene, come quella subito precedente alla scoperta dell'avvelenamento, un ruolo preponderante. 


The Hateful Eight è uno spettacolo, seppure presumibilmente non rivoluzionario, sontuoso, ben diretto e ben recitato. La vicenda narrata non è in nessun modo innovativa, ma l'abilità con cui è messa in atto sulla scena la rende interessante ed attraente. Tarantino, dopo un ventennio di grandi successi di critica e di pubblico, può permettersi di portare in scena una pellicola che è una lettera d'amore ad una forma di cinema appartenente al passato (o come tale percepita), esorcizzando, forse, il trauma vissuto dal cinefilo dell'epoca della celluloide, innamorato del grande schermo della sala cinematografica, nello scontro con l'odierna abbondanza digitale di formati, streaming e home video. Se è destino che la pellicola muoia lentamente, il regista americano pare determinato, con il suo ottavo film, a celebrarne degnamente la bellezza.

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