lunedì 8 febbraio 2016

The Revenant – Redivivo (The Revenant, A.G. Iñárritu, 2015)



The Revenant – Redivivo è un film bifronte. Da una parte c'è una natura purissima, incontaminata e pericolosa, un distillato di wilderness che sembra provenire da altri tempi grazie all'arte fotografica di Emmanuel Lubezki (candidato sette volte al premio Oscar e due volte vincitore, per Gravity e Birdman); cieli, fiumi, rocce, alberi e montagne dipinti sullo schermo con colori ricercati e stesi con una cura prodigiosa. La coscienza si perde nei dettagli, nelle piccole onde tremolanti intrise di luce, nella morbida pastosità di un immacolato manto nevoso, nel rosso acceso delle fiamme, nell'umidità puntiforme della nebbia. È un mare in cui è dolce smarrirsi per un po', cullati da un sonoro che contribuisce in maniera decisiva a rendere il più immersiva possibile l'esperienza della visione, catturando addirittura il suono della neve che cade, quasi sulla soglia del silenzio. Gli esseri umani, l'altra parte dell'equazione, si spostano arrancando su un terreno difficile ed ostile da cui sembrano continuamente respinti. Gli indiani Arikara li attaccano alla maniera di geni del luogo. Rapiti dallo spettacolo di nuvole in lento movimento, di un'aurora sospesa sopra un cielo stellato, ci disinteressiamo dei loro destini, ed è proprio qui che il film forse manca il bersaglio. 

Sul fatto che ci si trovi davanti ad un lungometraggio narrativo non possono sorgere dubbi: protagonisti, antagonisti ed eventi sono chiaramente delineati. Il film prende spunto in parte da una vicenda realmente accaduta: nell'America quasi vergine del 1823 un uomo, Hugh Glass, venne abbandonato dai suoi compagni di spedizione dopo essere stato lasciato apparentemente in fin di vita da un grizzly, trovandosi così costretto ad iniziare un'ardua battaglia per la propria sopravvivenza.


La sceneggiatura rende il Glass interpretato da DiCaprio un vedovo con figlio per metà indiano al seguito, tentando, credo, di aumentare l'impatto emotivo dell'intera vicenda dando all'uomo, tramite un terribile omicidio, un ulteriore motivo per vendicarsi. In realtà un approccio più diretto alla vicenda avrebbe forse giovato di più: non si riesce comunque ad empatizzare davvero con i personaggi, dei quali quel poco che sappiamo non è sufficiente a suscitare in noi qualche emozione per le loro sventure. Gli intermezzi onirici, che dovrebbero aprirci uno spiraglio sul mondo e sul passato di Glass, risultano criptici ed inefficaci, tanto quanto la voce over della moglie, che con la sua metafora trita sull'albero e sul vento finisce per risultare fastidiosa. Solo il John Fitzgerald di Tom Hardy spicca veramente: violento e animalesco, integrato con l'ambiente circostante più di ogni altro, borbottante e logorroico, l'avversario di Glass si aggira tra gli uomini come una bestia in cerca di cibo, pericoloso e affamato ma mai veramente cattivo; l'attore londinese, aiutato anche da un maggior numero di battute rispetto a DiCaprio, dà vita ad un personaggio semplice ma chiaramente delineato, offrendoci la migliore interpretazione del film.


I virtuosismi di Iñárritu, per nulla inaspettati, sono presenti in forze: la macchina da presa sfrutta ogni scampolo di movimento del profilmico per sbizzarrirsi in movimenti incredibilmente complessi, staccando il meno possibile e privilegiando piano sequenza e long-take, e ciò dà vita in certi momenti a scene di particolare spettacolarità, come nel caso del primo attacco degli indiani, anche se in altri finisce per risultare un esercizio di stile eccessivamente insistito, in cui l'imperativa necessità di protrarre la ripresa il più possibile si scontra con l'effettiva economia del racconto. Perfino la tanto anticipata scena dell'attacco dell'orso, pur essendo un notevole prodigio tecnico, è risultata ai miei occhi talmente votata ad un supposto realismo estremo da superarlo, giungendo al surrealismo e mettendo a dura prova la mia sospensione dell'incredulità. 
La prima parte del film, in cui ad essere al centro dell'attenzione è un gruppo di compagni, trovo che funzioni meglio di quella centrale, in cui tutto è riposto sulle spalle di DiCaprio, che si esibisce, più che in una prova di recitazione, in un esercizio di ascesi mistica che si rivela presto un po' monocorde, più per colpa della regia che dell'attore. 



The Revenant – Redivivo presenta allo spettatore momenti di grande bellezza e raffinatezza tecnica, come la sequenza incentrata sulla carcassa del bisonte oppure i fotogrammi in cui, dall'oscurità nebbiosa di una foresta emergono lentamente, ovattati dalla foschia, gli aloni rossastri di alcune torce; tuttavia spesso e volentieri la pesante macchina cinematografica messa in piedi dal regista messicano finisce per soppiantare la storia, per nulla complessa tra l'altro, relegandola nella posizione di nota a margine all'interno della maestosità della natura selvaggia restituita dallo schermo, senza però che questo si tramuti in precisa scelta narrativa. Nulla ci fa pensare, infatti, che alla natura sia affidato effettivamente il ruolo di divinità indifferente al genere umano; sembra piuttosto procedere su binari paralleli a quest'ultimo, senza mai toccarlo veramente. 


L'idea che mi sono fatta, in conclusione, è che The Revenant – Redivivo sia più un'esperienza sensoriale da fare in una sala cinematografica ben attrezzata che un film vero e proprio da guardare per apprezzare lo sviluppo della vicenda; sicuramente l'intenzione del regista era la seconda ma il risultato finale, ai miei occhi, propende decisamente di più verso la prima opzione, il che non è in sé un male, ma lo qualifica forse, piuttosto, come un film riuscito soltanto a metà.

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