Tra le armi create dall’uomo, nessuna è più potente ed
efficace del
linguaggio. Sin dall’antichità le parole sono state
molto più che semplici emissioni di voce a cui è attribuito un significato: incantesimi e formule, una volta pronunciati, hanno un
effetto tangibile sulla realtà. Al dio della Bibbia, per illuminare
la sua creazione, è bastato dire «fiat lux». Il mago Merlino di
Excalibur (John Boorman, 1981) è il saggio custode della magia del
fare, in grado di alterare le sembianze e saturare l’aria con il
denso respiro del dragone.
Una popolazione è caratterizzata ed identificata dal proprio
linguaggio: l’insieme dei vocaboli rappresenta la scala dei suoi
valori ed il modo in cui essa viene interpretata. Tramite i tempi
verbali si può ricostruire la maniera in cui il tempo è frazionato,
e la struttura delle frasi dà, a chi ne possiede un'accurata conoscenza, la
possibilità di intuire i metodi di ragionamento sottostanti. La
pratica semplicità dell’inglese rivela la lunga esperienza di
commercianti e navigatori degli abitanti delle isole britanniche; la
convoluta raffinatezza dell’italiano ne sottolinea le origini
letterarie. Una lingua è il risultato di una specifica visione del
mondo, e soltanto comprendendola a fondo è possibile conoscere
davvero chi la utilizza.
Queste riflessioni sembrano piuttosto lontane dall’universo
estremamente moderno della
fantascienza: in realtà, però, non è
così. In un certo senso è del tutto possibile interpretare il
linguaggio come un’avanzatissima tecnologia, perfezionata nel corso
dei secoli, data così per scontata all’interno della nostra vita
quotidiana da passare inosservata. Si potrebbe dire, anzi, che esso
sia un ottimo argomento per le opere narrative che trattano di
futuro: nel punto in cui razionale ed irrazionale si toccano, dando
modo ai fantasmi dell’età scientifica di apparire, il misterioso
potere delle parole, studiato ed analizzato accuratamente da manipoli
di esperti, si trova perfettamente a suo agio.
La sceneggiatura di
Arrival (Denis Villeneuve, 2016) è tutta
imperniata sul linguaggio e sulla sua capacità di dare forma alla
realtà in cui viviamo. Il debito nei confronti di
Incontri
ravvicinati del terzo tipo (
Close Encounters of the Third Kind,
Steven Spielberg, 1977) è chiaro e riconosciuto, tanto che una delle
sequenze iniziali lo cita esplicitamente; ma lo svolgimento è tanto
diverso che la parentela è presto dimenticata. Il viaggio –
mentale, più che fisico – che la linguista
Louise (Amy Adams)
compie all’interno del film è immenso, sconfinato, rivoluzionario.
Le creature aliene hanno corpi completamente diversi da quelli
terrestri, ma non è in essi che si trova la differenza più
importante, quanto piuttosto nel ragionamento, nella visione del
mondo, che solo il linguaggio è in grado di scandagliare, in maniere
che surclassano perfino l’avanzata fisica teoretica dello
scienziato
Ian (Jeremy Renner). La scrittura è l’unica forma di
comunicazione che supera l’incredibile distanza tra umani ed
ectapodi; solo tramite la comprensione del significato profondo che
si cela dietro la struttura di ogni segno si è in grado di
attraversare un confine altrimenti invalicabile. Il montaggio
dichiara, forse in maniera più esplicita rispetto a molti altri
film, la sua natura di strumento per la riorganizzazione del tessuto
della realtà. Inizialmente,
Arrival sembra in continua espansione,
una linea retta a cui vengono sempre aggiunti segmenti; quando il suo
percorso giunge alla fine, però, esso si chiude ad anello, con una
pulizia ed una chiarezza prima quasi insospettabili. Louise, un po’
come Prometeo, porta agli uomini una luminosa innovazione, ma ciò
che davvero interessa a Villeneuve – e a noi spettatori – è il
suo universo emotivo, messo a nudo dai tanti primi e primissimi
piani, e raccontato con discrezione, quasi con riserbo, senza la
pretesa di esporre tutta l’interiorità di una persona in una
manciata di battute. Nonostante la dimensione delle rivelazioni al
suo interno sia quasi inconcepibile, l’animo di Arrival è
sorprendentemente intimo.
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