mercoledì 11 gennaio 2017

Sherlock 4x02, “The Lying Detective”, la recensione


Attenzione: in questo articolo sono presenti spoiler, siete avvisati.

C’è una premessa da fare, prima di parlare nello specifico di The Lying Detective: le trame di Sherlock non sono mai perfettamente logiche, anche quando ad una prima visione possono sembrarlo. Se le si osserva da vicino, concentrandosi sui singoli snodi narrativi, è facile trovare le crepe: coincidenze fortuite, deduzioni difficilmente distinguibili da premonizioni, collegamenti esistenti unicamente per necessità di trama e quasi ingiustificati altrimenti. Le sceneggiature scritte da Steven Moffat e Mark Gatiss non sono mai davvero gialli inappuntabili, dove alla fine sia possibile ricostruire perfettamente le cause e gli effetti di ogni avvenimento. Si tratta di sceneggiature mal scritte? Si può ragionevolmente sostenere di sì, in un certo senso. D’altro canto, i due autori hanno a più riprese sostenuto che il punto focale della serie non sono le singole indagini, ma i personaggi. Al di là delle mie opinioni a riguardo – sono dell’idea che si possa scrivere dell’evoluzione del personaggio di Sherlock Holmes senza doversi privare del gusto di osservare lo svelamento plausibile di un vero mistero – è un elemento che va preso in considerazione, quanto meno per farsi un’idea più completa di quello che ci si trova davanti.



Rispetto a The Six Thatchers e, per quanto mi riguarda, alla terza stagione nella sua interezza, The Lying Detective è di molto migliore: il primo elemento che lo rende tale, probabilmente, è la presenza di un antagonista forte, con delle caratteristiche chiare ed interessanti quasi quanto quelle del Jim Moriarty di Andrew Scott. Il Culverton Smith portato sulla scena da Toby Jones, ispirato a Jimmy Savile e H.H. Holmes, è repellente, inquietante, grottesco. C’è il retrogusto della satira nella maniera sopra le righe con cui viene presentato lungo l’episodio, negli estratti dalle numerose interviste che si inseriscono a tradimento nel corso della vicenda. Ancor più del Magnussen interpretato in His Last Vow da Lars Mikkelsen, Smith suscita un senso fisico di disgusto con la sua risata sguaiata e i suoi scherzi macabri.

Il rapporto di Sherlock con le droghe è già emerso più volte nel corso della serie: inizialmente soltanto come riferimento al suo burrascoso passato, riportato poi nel presente (in maniera piuttosto umoristica) nell’ultimo episodio della scorsa stagione, e ancora ribadito nello speciale The Abominable Bride, che è in gran parte costituito da una fantasia allucinata dell’investigatore. Mai prima di The Lying Detective, però, questo elemento era stato dipinto con tratti così cupi e nichilisti: lo squilibrio del protagonista è tangibile nell’alternanza disordinata di apatia, esaltazione e furia ribollente, con un tocco schizofrenico che fornisce a questa discesa all’inferno di Holmes un apprezzabile brivido aggiuntivo, dando a Benedict Cumberbatch nuovi colori da sfruttare nel proprio ritratto. La situazione messa in scena nella prima mezz’ora dell’episodio, in cui uno Sherlock pesantemente drogato tenta faticosamente di dedurre il senso delle osservazioni e dei suggerimenti che il suo cervello inconsciamente gli invia, è decisamente interessante.


Il tema principale della puntata è quello della confessione: quella di Smith, ovviamente, ma non meno importante è quella di John Watson verso la fine dell’episodio. Steven Moffat – che firma la sceneggiatura di The Lying Detective – è stato più volte accusato, nel corso della sua carriera, di essere un misogino: una veloce ricerca su Google restituirà un’ampia raccolta di articoli che riportano le sue controverse dichiarazioni sul sesso femminile. Ciò può forse spiegare, a mio parere, il perché Mary funzioni meglio in qualità di proiezione della mente di un uomo tormentato piuttosto che come donna reale. Ancora una volta, Martin Freeman incarna con abilità un Watson animato da una corrente sotterranea di nervosismo e Amanda Abbington porta sulla scena il suo inconscio represso e sofferente. L’ultima scena ambientata nel salotto di Baker Street è tra le migliori mai condivise da John e Sherlock nel corso della serie: è presente un vero senso di evoluzione, segreti vengono confessati, rimorsi dichiarati e, per quanto possibile, accettati. Abbandonando per qualche minuto la caccia al crimine, due uomini complicati e – in maniere diverse – feriti riescono ad aprirsi l’uno con l’altro come mai prima d’ora grazie al fantasma di due donne assenti. Un’altra donna, invece, è stata astutamente presente lungo tutto l’episodio dopo essere apparsa brevemente in quello precedente, rivelando, nel finale, la propria vera identità: si parlerà certamente molto di lei e del suo mistero nell’ultimo episodio della stagione, The Final Problem, che verrà trasmesso dalla BBC domenica 15 gennaio (in Italia approderà su Netflix alle 23.59 dello stesso giorno). Nel bene o nel male, Steven Moffat ha fatto del colpo di scena scioccante la sua cifra stilistica, perciò a questo punto esso non giunge inaspettato: necessario o no, è indubbiamente parte del pacchetto Sherlock e, in ogni caso, l’episodio che chiude è abbastanza solido da non esserne danneggiato.

L’ultima – ma non meno importante – donna di cui è necessario parlare è la Mrs. Hudson interpretata da Una Stubbs, che dopo essere rimasta per molto tempo in secondo piano, reclama il suo posto al centro della scena a bordo di un’Aston Martin rossa fiammante, occupandosi di fornire un po’ di comic relief in un episodio piuttosto cupo e mostrando a tutti che, nonostante la sua apparenza da simpatica pensionata, è perfettamente in grado di domare un drogato impazzito e armato di pistola, onorando il proprio passato di moglie di un signore del crimine (e danzatrice esotica). Viene messo in luce, inoltre, quanto acutamente sia in grado di decifrare il comportamento di Sherlock, molto più dell’algido Mycroft, incapace di comprendere la sfera emotiva del fratello.


Nick Hurran dirige The Lying Detective in maniera convincente, senza farsi travolgere eccessivamente dalla vasta pletora di effetti speciali e scritte in sovrimpressione che caratterizzano la serie sin dal suo esordio, giungendo ad un risultato molto migliore di quello, piuttosto confuso e non molto ispirato, ottenuto da Rachel Talalay con The Six Thatchers. I primissimi piani abbondano, e le varie espressioni dei personaggi sono catturate fino all’ultimo dettaglio. L’unica vera nota di demerito va alla colonna sonora, a mio parere troppo invadente nei punti caldi dell’episodio: quando la recitazione, i dialoghi e la regia sono così espliciti, inserire composizioni musicali altamente drammatiche ed improntate ad orientare emotivamente gli spettatori sembra eccessivo.

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