lunedì 16 gennaio 2017

Sherlock 4x03, “The Final Problem”, la recensione


Attenzione: in questo articolo sono presenti spoiler

Steven Moffat e Mark Gatiss amano disseminare, lungo le puntate di Sherlock, innumerevoli colpi di scena. In qualche caso sono un’aggiunta piacevole, ma nella grande maggioranza dei casi finiscono per distruggere il peso emotivo delle sequenze e addirittura, in certi casi, il loro stesso significato. The Six Thatchers si apriva con una piuttosto improbabile passata di spugna sull’omicidio commesso dal protagonista al termine della stagione precedente, e dopo una prolissa introduzione si incentrava sul passato da agente segreto freelance di Mary (Amanda Abbington) che, come dicevo nella mia recensione, non si è mai davvero integrato con gli altri elementi della sua personalità, risultando piuttosto una sorta di corpo estraneo infilato a forza all’interno della vicenda. The Lying Detective, pur presentando una cospicua dose di ribaltamenti improvvisi, si reggeva piuttosto bene sulle proprie gambe: al suo centro c’era infatti uno scontro piuttosto lineare, ma non per questo meno intrigante, tra un tormentato detective ed un antagonista inquietante. Certo, alcune deduzioni erano piuttosto arzigogolate, ma è qualcosa che ci si può aspettare quando si parla di Sherlock Holmes. La scena conclusiva sembrava promettere interessanti sviluppi, ma purtroppo The Final Problem finisce per essere, almeno a parere di chi scrive, uno degli esempi più eclatanti di come una storia possa autodistruggersi nel tentativo di sconvolgere continuamente il proprio pubblico.



L’idea che Mycroft (Mark Gatiss) e Sherlock (Benedict Cumberbatch) potessero avere una sorella, apparentemente scomparsa dalle loro vite, non era di per sé malvagia: indubbiamente assurda tanto quanto altre già messe in atto nel corso dei precedenti episodi, ma capace nondimeno di condurre l’ultimo episodio verso sviluppi interessanti. Tuttavia, l’inizio di The Final Problem risolve in due battutine umoristiche il cliffhanger di The Lying Detetective e, invece di permetterci di conoscere Eurus Holmes tramite la sua viva voce, preferisce affogare il suo primo terzo in un oceano di spiegazioni, contravvenendo ad una delle più basilari regole della narrazione cinematografica, ovvero mostrare e non raccontare. Peggio ancora, pur essendo abilmente interpretata da Sian Brooke, la donna è semplicemente un personaggio inverosimile, onnipotente ed onnisciente nonostante abbia passato gran parte della sua vita rinchiusa in una cella. Lo svelamento finale del suo reale scopo, inoltre, rende del tutto inutile la sezione centrale dell’episodio: se tutto ciò che Eurus desiderava era che Sherlock passasse del tempo con lei, perché costringerlo ad affrontare una serie di torture psicologiche? Perché uccidere così tante persone che nulla avevano a che fare con la questione? Se il problema finale – e l’unico che contava davvero – era contenuto all’interno della canzone, che sappiamo fin dalle prime scene essere la chiave di volta del dilemma di Redbeard, che scopo ha tutto il resto? Perché la donna dovrebbe decidere di ambientare lo scontro all’interno di Sherrinford, se la reale soluzione si trova a Musgrave? La metafora della bambina sull'aeroplano è indubbiamente efficace, ma perché impegnarsi così tanto a farla sembrare una reale minaccia, lasciandole occupare così tanto minutaggio e mettendola in scena in maniera così realistica, se poi è tutt'altro? È decisamente troppo facile giustificare ogni incongruenza con l’incredibile intelligenza e distacco emotivo di Eurus.


Un altro grandissimo problema, non solo di quest’ultimo episodio ma dell’intera serie, è l’incapacità di lasciarsi alle spalle personaggi che ormai hanno terminato il proprio scopo all’interno della storia. La morte di Moriarty (Andrew Scott) era un elemento di grande effetto in The Reichenbach Fall: il fatto che ciò non impedisca al criminale di ricomparire ogni volta che sia necessario, riparandosi dietro la scusa di un’incredibile pianificazione a lungo termine, la rende del tutto irrilevante, e lo stesso può dirsi, a questo punto, per la scomparsa di Mary (un messaggio registrato è accettabile, ma due iniziano a diventare troppi). La povera Molly (Louise Brealey) non ha più un’utilità narrativa da quando il St Bartholomew’s Hospital ha smesso di essere uno dei luoghi cardine della serie, e nonostante ciò continua ad apparire, svolgendo funzioni che avrebbero potuto essere affidate senza nessuna difficoltà ad un gruppo di comparse. Rimane inspiegabile, inoltre, come una donna adulta e apparentemente piuttosto intelligente possa continuare per anni ad essere follemente innamorata di un uomo che l’ha spesso trattata con arroganza e superbia e che, in ogni caso, non ha mai mostrato alcun interesse romantico verso di lei. La scena a lei dedicata in The Final Problem sembra implausibile ed inutilmente crudele. Altrettanto superfluo è il continuo fare capolino dell’ispettore Lestrade (Rupert Graves), visto quanto poco Sherlock abbia collaborato con Scotland Yard nel corso delle ultime due stagioni.


The Final Problem avrebbe potuto funzionare se si fosse accontentato di mettere in scena un dramma psicologico all’interno di una stanza chiusa: Sherlock, Watson e Mycroft con le spalle al muro ed una pistola con un solo proiettile, costretti ad una scelta impossibile: è questa infatti, in maniera piuttosto prevedibile, l’ultima prova che essi devono affrontare. Invece di arrivare a questo punto in maniera logica, Moffat e Gatiss temporeggiano, complicando eccessivamente ed inutilmente il gioco, e ciò è ancora più vero se si pensa al finale dell’episodio (creato per funzionare anche come eventuale conclusione dell’intera serie): ciò che The Final Problem voleva provare, ovvero che Sherlock è in realtà migliore dei suoi più intelligenti fratello e sorella proprio a causa della sua capacità di provare emozioni, sarebbe forse risultato più chiaro e più evidente. Oltretutto, la scena in cui Sherlock è costretto a decidere se sparare al suo migliore amico o a suo fratello è troppo lunga e prolissa, soprattutto visto che alla fine, grazie ad un colpo di mano per nulla sorprendente, nessuno muore. La dipartita (definitiva) di Mycroft, per esempio, avrebbe potuto aprire a scenari interessanti, eliminando inoltre, sebbene troppo tardi, il più grosso e fastidioso deus ex machina presente all’interno della storia. Il «e vissero per sempre felici e contenti», che apparentemente conclude il racconto di come Sherlock Holmes ed il dottor Watson sono diventati quelli che conosciamo dai romanzi e racconti di A.C. Doyle, sembra del tutto fuori luogo dopo quanto successo: Eurus li pone in situazioni terribili e perpetra crimini tremendi, eppure tutto torna esattamente com’era prima, perfino l’appartamento al 221B di Baker Street, nonostante al suo interno sia scoppiata una bomba che, pur essendo una delle più letali mai ideate, è riuscita nella non trascurabile impresa di non ferire nessuno dei suoi obbiettivi, nemmeno per sbaglio.

L’idea alla base di Sherlock era molto buona, come ottima era l’intenzione di esplorare l’umanità del freddo detective tramite il suo rapporto con il dottor Watson e gli altri personaggi: era indubbiamente possibile, però, fare questo con più eleganza e realismo, senza accumulare disordinatamente colpi di scena su colpi di scena, finendo per smarrire il senso della storia raccontata.

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