mercoledì 22 gennaio 2020

Un sogno chiamato Florida (The Florida Project, Sean Baker, 2017)


Un colore in particolare domina i fotogrammi di Un sogno chiamato Florida: è il lilla delle pareti del Magic Castle, uno dei tanti motel sparsi lungo le strade che portano a Disney World a Orlando. La tinta sgargiante e il nome evocativo (che richiama spudoratamente il Magic Kingdom) sono meri mezzi per sfruttare la popolarità del parco e fare presa nella mente di quei turisti alla ricerca di una sistemazione più economica rispetto ai costosi e rinomati alberghi presenti nei dintorni del complesso. In realtà, tuttavia, al di là della mano di vernice fresca, si tratta di una struttura vecchia e piuttosto squallida, popolata da un variegato insieme di persone che risiedono in maniera più o meno stabile al suo interno poiché troppo povere per permettersi l’affitto di una casa vera, disoccupate o, più di frequente, impegnate in lavori saltuari o attività criminose. Il panorama è abbastanza desolante, dominato dalle strade, lunghe e piatte strisce di cemento grigie. Una moltitudine di insegne affastellate freneticamente l’una sull’altra promette la soddisfazione dei propri desideri, qualunque essi siano, velocemente e a buon prezzo – l’apoteosi dell’urbanistica capitalista. I negozi, al di là dell’estetica appariscente, sono dimessi, banali. Eppure gli occhi di Moonee (Brooklynn Prince), la bambina protagonista, che vive con la madre in una delle stanze del Magic Castle, riescono a scovare bellezza, magia e promesse di avventura anche in un luogo così poco adatto a stimolare l’immaginazione infantile.

Il fiabesco universo architettato dal colosso dell’intrattenimento californiano appare per lo più di sfuggita, ai margini, spesso solo suggerito; tra esso e i miseri abitanti dei motel c’è un muro invisibile ma molto concreto, composto dal denaro necessario a comprarsi il biglietto e, soprattutto, gli agi e la tranquillità di una vita normale all’interno della società. Appena oltre le porte del luogo concepito specificatamente per essere un paradiso terreno in cui esprimere o ritrovare appieno la spensieratezza dell’infanzia (purché se ne possa pagare il prezzo) stanno i perdenti del grande sogno americano, tutti coloro che non riescono ad elevarsi dalla propria condizione di indigenza, resa ancora più evidente, a livello figurativo e narrativo, dalla prossimità ad un luogo così fortemente associato a sensazioni di meraviglia e felicità. Tutto quello che possono permettersi è una sbirciata da lontano allo spettacolo pirotecnico, ai fuochi d’artificio che si alzano sopra le recinzioni e le cime degli alberi.

Halley (Bria Vinaite), la giovanissima madre di Moonee, un passato recente come spogliarellista, vive alla giornata, racimolando attraverso piccole truffe quanto basta per saldare il conto settimanale al motel; il suo passatempo principale è fumare una canna dopo l’altra sdraiata sul letto, lo sguardo perso nelle televendite e nei programmi di un qualche oscuro canale televisivo. Alla radice del suo comportamento distaccato, arrogante e disinteressato sembra di scorgere la rassegnazione di chi è convinto di essere stato sconfitto dalla vita e ha perso ogni intenzione di combattere. Al contrario della sua amica Ashley (Mela Murder), infatti, non cerca davvero di migliorare la propria condizione economica per garantire un’esistenza più agevole e meno precaria alla figlia, che pure ama intensamente, nonostante si comporti come una poco affidabile sorella maggiore. Halley è in fondo una ragazza che ha vissuto in fretta senza avere avuto il tempo di crescere e non è in grado di guidare ed educare Moonee, che spesso e volentieri è lasciata a se stessa insieme ai suoi amici, tra i quali, essendo la più intraprendente ed esperta, ricopre il ruolo di capobranco, guidando le scorribande del manipolo durante le lunghe giornate estive e combinando una marachella dietro l’altra con un variabile livello di gravità. La protagonista, in realtà, mette ingenuamente in pratica le poche e spesso diseducative lezioni ricevute osservando il comportamento della madre. Ad assumere il ruolo di surrogato paterno sia per Halley che per Moonee è Bobby (Willem Dafoe), il supervisore del motel, sul quale regna bonariamente, occupandosi appassionatamente dello stabile e di tutti i suoi inquilini nonostante le frustrazioni e le difficoltà di ogni giorno, ingiuriato quando si verifica un guasto e acclamato come una star subito dopo la riparazione. Si intuisce, durante una sequenza, quali siano le motivazioni che lo portano a sentire questo forte istinto di cura nei confronti dei suoi ospiti, un sentimento che probabilmente in un altro contesto, più personale, non può più esprimere.

Durante una gita in mezzo al verde Moonee spiega all’amica Jancey (Valeria Cotto) perché ama particolarmente l’albero su cui si sono inerpicate per divorare pane e marmellata: pur essendo così obliquo rispetto al terreno da essere praticamente capovolto, infatti, continua a crescere. Lo stesso fanno, in un certo senso, la bambina e i suoi coetanei: nonostante le condizioni difficili delle loro famiglie vivono giornate felici, continuando ad esprimere l’entusiasmo e la gioia del loro animo infantile nonostante le circostanze. Sean Baker mette in scena la vicenda attraverso i loro occhi, lascia piena libertà ai piccoli attori e ne cattura la dirompente e irriverente spontaneità.

L’estate raccontata attraverso una miriade di brevi episodi in Un sogno chiamato Florida inizia come una festa chiassosa e colorata sulle note di Celebrate dei Kool & The Gang e rimane tale per gran parte della sua durata, grazie soprattutto alla vivace fantasia di Moonee, che le permette di trovare un rifugio dalle crescenti complicazioni che minacciano la sua serenità; la sua salvezza sta proprio nella sua immaginazione, un filtro che la rende in grado di trovare il bello in ciò che ha attorno a sé, per quanto ordinario o brutto possa essere. Il suo punto di vista aleggia lungo tutta la pellicola ammantando di leggerezza una storia altrimenti piuttosto cupa, almeno nei suoi snodi più significativi. Nonostante l’impossibilità di accedere agli opulenti divertimenti di Disney World, la protagonista è in grado di costruirsi il proprio parco dei divertimenti personale inventandosi attività nei luoghi che conosce, sfruttandone le caratteristiche; una villa abbandonata diventa una casa infestata, delle mucche al pascolo si tramutano in un safari. Il maggior pregio del film è del resto proprio la sua capacità di mettersi allo stesso livello di Moonee e dei suoi amici, cogliendone i comportamenti con grande realismo, senza sporcarli con una sensibilità troppo matura. La pressione della drammatica realtà in cui abita, tuttavia, si fa via via più opprimente ed infine impossibile da ignorare, ed è proprio allora che la necessità di rifugiarsi nei propri sogni ad occhi aperti diventa più forte. La frenetica sequenza finale è, sotto un certo punto di vista, la manifestazione del disperato desiderio di non perdere la propria innocenza nonostante gli sconvolgimenti che le decisioni degli adulti comportano; nell’ultimo sguardo è dichiarata silenziosamente la volontà di mantenere i propri occhi di bambino, una supplica giusta ma irrimediabilmente vana e per questo profondamente struggente.

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