domenica 12 gennaio 2020

Under the Skin (Jonathan Glazer, 2013)

 
Il primo atto che la protagonista di Under the Skin compie sullo schermo è spogliare un cadavere per indossarne i vestiti. Non sappiamo nulla di lei: è introdotta completamente nuda accanto alla donna morta in un ambiente bianco, irreale, asettico. L’apparenza che ruba non nasconde un’identità determinata, ma al contrario colma uno spazio vuoto, maschera un corpo e un volto misteriosi, che esistono in quanto tali senza comunicare nulla di sé e della propria storia. Il film fornisce una labile spiegazione a questa presentazione lasciando supporre che si tratti di una forma di vita aliena giunta sulla Terra per compiere una missione che non viene mai chiaramente esplicitata. Per tale ragione, quindi, lo sguardo della protagonista sull’umanità sarebbe distaccato e apatico; gli abitanti del pianeta non sembrerebbero, per lei, nient’altro che prede da irretire con il proprio fascino e consumare. Le sue vittime sono principalmente di sesso maschile: la creatura, infatti, passa meticolosamente in rassegna le strade scozzesi a bordo del suo furgone, fermando i passanti fingendo di essersi persa e di aver bisogno di indicazioni, cercando di convincerli ad accettare un passaggio, così da poterli sedurre. Quando essi accettano di seguirla in un posto tranquillo, ammaliati dalla promessa di un rapporto sessuale, si condannano a finire invischiati in una trappola mortale.  
 
La caccia è condotta con assoluta freddezza: la protagonista, almeno inizialmente, non mostra apertamente né gioia né orrore per le sue azioni, che sono portate a termine con estrema determinazione e grande pragmatismo. I muscoli del volto di Scarlett Johansson si muovono in maniera quasi impercettibile attorno alle sue labbra carnose e ai suoi occhi spalancati, su cui le palpebre calano raramente. Quando è alla ricerca di una preda nel suo sguardo impassibile e calcolatore c’è una frenesia appena celata, una fame insaziabile. La sequenza ambientata su una spiaggia incuneata tra ripide scogliere è, sotto questo punto di vista, esemplare: la creatura osserva una terribile tragedia che si svolge silenziosamente sotto i suoi occhi senza cercare altro che il modo per trarne vantaggio, intervenendo violentemente, ma in maniera minimale, solo per ottenere ciò di cui ha bisogno. Non è poi così dissimile da un avvoltoio, che rimane in disparte ad attendere che le crudeli leggi della natura gli presentino un pasto senza richiedergli uno sforzo eccessivo. Il terribile destino delle vittime è messo in scena tramite uno stratagemma visivo di particolare potenza ed efficacia: in uno spazio completamente nero, apparentemente al di fuori delle coordinate spaziali del reale, gli sventurati seguono la protagonista che procede in avanti lanciando loro sguardi allusivi, spogliandosi e spingendo loro a fare lo stesso. Mentre cercano di raggiungerla, però, a differenza di lei gli uomini vengono inghiottiti dalla superficie su cui camminano. La colonna sonora di Mica Levi distorce una melodia sensuale fino a trasformarla in un suono freddo e inquietante; il ritmo dei colpi regolari ricorda un tamburo rituale durante un sacrificio. Come un ragno nella sua tela, in quell’ambiente la creatura ha l’assoluto controllo sulla situazione, esercita un dominio incontrastato. Nonostante tutto questo, però, durante il suo incessante vagare emerge a tratti un’irrequietezza data forse dall’impossibilità di raggiungere una definitiva soddisfazione. Ad ogni uccisione ne segue un’altra, in una ripetizione continua e quasi forzata. In una delle sequenze più affascinanti viene mostrato il processo attraverso il quale le vittime vengono assimilate: abbandonando ogni apparenza di realismo per tornare all’astrattismo del segmento introduttivo, Glazer lo rappresenta come una catena di montaggio, dipinta a tinte rosso sangue, che trasforma la materia umana in nutrimento per una misteriosa energia.

Si potrebbe pensare, a questo punto, che nella protagonista non ci sia nulla di umano: la si potrebbe vedere come un predatore che non ha nulla in comune con le sue vittime. Tuttavia ciò non corrisponde necessariamente alla verità. Dopo aver indossato i vestiti sottratti al cadavere, probabilmente necessari solamente a permetterle di uscire all’aperto mescolandosi alla folla, la creatura si reca in un centro commerciale per acquistarne altri, che sceglie con cura. Lungo la sequenza la protagonista compone il travestimento che indosserà per il resto del film e che le permetterà di mandare il messaggio desiderato alle sue prede. Non è, dopotutto, completamente ingannevole: il cappotto di pelliccia marrone richiama in fondo il suo comportamento selvaggio e predatorio. Entra poi in una profumeria per acquistare matita per gli occhi e rossetto, e la scena si chiude su una serie di inquadrature incentrate su altre clienti che si fanno truccare dalle commesse. A ben guardare è suggerito un certo parallelismo tra le sue azioni e quelle delle altre donne presenti nel negozio; sia lei che loro costruiscono un’apparenza artificiale che le rende migliori e più belle e che serve ad attrarre e sedurre, comunicando al prossimo una certa idea di sé non del tutto corrispondente al reale. Non è forse, vero, dopotutto, che la manipolazione e lo sfruttamento del prossimo per trarne vantaggi personali sono comportamenti molto comuni tra gli esseri umani? Il plautino «homo homini lupus» è in ogni tempo rilevante. La caccia della protagonista si articola attorno alla continua ricerca di rapporti occasionali, in cui alla base non c’è né affetto né tanto meno amore per chi si sceglie, ma puramente l’egoistica volontà di prendere dall’altro ciò che è necessario alla soddisfazione dei propri bisogni; ciò vale tanto per lei che per i suoi accompagnatori che, seppur meno letali, non sono più altruisticamente orientati. La loro sconfitta è da imputarsi, alla fine, soltanto al minore controllo che hanno sulla situazione in cui finiscono per trovarsi.

Il meccanismo di sfruttamento appena descritto s’incrina fatalmente nel momento in cui la protagonista incontra un ragazzo deforme ma dall’animo puro e innocente che, a differenza degli uomini precedenti, non si lascia attirare nella trappola convinto di poterne ricavare un qualche vantaggio personale, ma accetta lo strano dono di una sconosciuta con incredulità e, addirittura, una certa riluttanza, nonostante per tutta la vita non abbia desiderato altro che il contatto con un altro essere umano e in particolare con una donna. All’interno della casa diroccata che utilizza come base, in cui ha condotto il giovane, la creatura si riflette in uno specchio, costretta ad osservare il proprio volto e forse a vedervi impressa l’ombra del male perpetrato e del proprio profondo egoismo, reso tanto più evidente dalla delicata ingenuità dell’ultima vittima. Non si può essere il carnefice di qualcuno verso cui si prova compassione; concede al malcapitato di fuggire e, sommersa dai dubbi, interrompe la propria caccia. Durante il successivo rapporto che instaura, con un uomo generoso e gentile, attratto da lei ma non volto soltanto alla soddisfazione dei propri istinti, non è più lei a condurre il gioco; al contrario di quanto accadeva in precedenza si lascia timorosamente guidare da lui fino ad un momento di grandissima vulnerabilità. A quel punto, presa dal terrore, si tira indietro e ricomincia a fuggire, inoltrandosi in un bosco e facendo un ultimo incontro che avrà tragiche conseguenze.

È possibile trovare una chiave di lettura di quanto accade in Under the Skin pensando a cosa significhi provare empatia verso il prossimo. Essere in grado di entrare in contatto emotivamente con l’altro passa attraverso l’abbattimento dei muri invisibili che si ergono per difendersi dal mondo, essere cioè più vulnerabili, termine che deriva dal verbo latino «vulnero» che significa «ferire»; aprire uno spiraglio nell’armatura che ci ricopre e ci protegge per darsi la possibilità di guardare al di sotto, più in profondità dentro se stessi, ponendo le basi per instaurare con l’altro un dialogo onesto, aperto e sincero, privo di inganni. Il comportamento del giovane sfigurato spinge la creatura al cambiamento; la protagonista scopre gradualmente la propria capacità di provare sentimenti. All’interno della stanza che l’uomo innamorato di lei le offre la protagonista si specchia una seconda volta e il modo in cui guarda a se stessa, una volta iniziato a sbloccare il suo universo emotivo, è sintomatico di come si attribuisca un nuovo significato; se prima infatti il suo corpo non era nulla più che uno strumento al servizio di uno scopo (la sopravvivenza e la sopraffazione), il cui travestimento o la cui nudità era unicamente funzionale al raggiungimento dello stesso, ora è qualcosa da scrutare con meraviglia, un oggetto non soltanto sessuale ma una parte del sé, un’espressione personale, in grado di provare sensazioni autentiche, di cui prendere possesso e a cui voler bene. È una scoperta, quasi una seconda nascita.

Essere vulnerabili, tuttavia, è spesso pericoloso; passa attraverso emozioni intense e difficili da sopportare e soprattutto porta, naturalmente, a correre il rischio di essere feriti terribilmente da chi invece si pone nei confronti del prossimo pensando solo a cosa ricavarne, come sottolinea il cupo finale. Essere privi di difese può essere fatale, a maggior ragione per una donna. Il trauma subito distrugge definitivamente l’identità della protagonista così come appariva; l’abbattimento delle difese diventa una ferita reale nella sua pelle, che rivela ciò che era nascosto al di sotto, invisibile e sconosciuto (forse anche a lei stessa) ma sempre presente. È una verità ardua da comprendere, che viene rifiutata e data alle fiamme dall’uomo che si trova ad assistere al suo disvelamento. Nelle volute di fumo che salgono verso il cielo si può vedere sia la dimostrazione di un pessimismo cosmico che punisce chi non aggredisce per primo, sia una rinascita. Per quanto terribile sia, l’esperienza dolorosa, se superata, permette infatti di ascendere ad una dimensione più pura, ad una maggiore comprensione del mondo e di sé. Come il fuoco ardendo trasforma la materia, così la sofferenza porta al cambiamento, e in questo, l’esperienza della protagonista di Under the Skin è profondamente umana.

Nessun commento:

Posta un commento