lunedì 2 novembre 2020

The Mandalorian – Capitolo 9: Lo sceriffo

Se, per amore della conoscenza, si tentasse di determinare l’esatta composizione di Star Wars nel suo complesso, cercando di trovarne le componenti essenziali, si scoprirebbe che la formula è semplice soltanto in apparenza; si comprenderebbe, in realtà, quanto essa è delicata e tutt’altro che facile da ottenere senza un’ottima capacità di analisi e un abbondante affetto per la materia. Jon Favreau, che s’interessa anche di cucina oltre che di cinema, pare aver ben chiare quantità e dosi, e serve al suo affezionato pubblico un primo piatto delizioso e ben congegnato.

La sequenza che apre Lo sceriffo (in originale The Marshal), il primo episodio della seconda stagione di The Mandalorian, porta subito all’attenzione un aspetto che i creatori della serie sanno cogliere ed utilizzare con maestria: la scenografia. Le prime inquadrature mostrano il protagonista e il Bambino procedere attraverso una strada malfamata e periferica di una qualche città spersa in un punto della galassia; nell’insieme l’immagine è familiare, imparentata con tante altre provenienti dallo sconfinato universo cinematografico al di fuori dei confini della Lucasfilm, ma a fare la differenza sono i dettagli. Le forme dei grattacieli in lontananza sono esotiche, i muri dei palazzi sono coperti di graffiti che richiamano assaltatori e droidi, dall’ombra si alza un coro di ringhi e riluce una pletora di minacciosi occhi rossi. L’atmosfera cupa è quella dei bassifondi di una qualunque grande città, ma gli animali non sono cani, gli scarabocchi sui muri non si rifanno a nulla di reale, e le costruzioni non sono rapportabili a quelle che siamo abituati a vedere. Procediamo: il mandaloriano entra in un localaccio dove sta avvenendo un incontro di lotta per un pubblico in visibilio. Il suo obiettivo è incontrare Gor Koresh (John Leguizamo), boss della malavita; la posizione di potere del personaggio non è apertamente dichiarata, ma è chiaramente suggerita dal contesto e dal costume che, al netto della pelle verde e dell’unico grande occhio, è ideato in un modo tale da richiamare una lunga tradizione di mafiosi non reali, ma cinematografici. Star Wars, del resto, non fonda le sue radici nel mondo vero, ma in quello immaginario che esiste soltanto all’interno dello schermo, con una sua propria fisica e con le sue proprie regole. La caratteristica principale dell’universo narrativo creato da George Lucas è difatti l’esistere all’interno di una stratificazione di generi differenti e spesso normalmente piuttosto lontani l’uno dall’altro, che nel loro collidere all’interno di una cornice fantascientifica creano nuovo materiale, contemporaneamente tradizionale nei concetti di base e innovativo nel modo in cui le sue singole componenti sono messe in relazione tra loro. 

Dopo la sequenza introduttiva, il cui ambiente malfamato e pericoloso si rifà alle atmosfere tipiche del noir, si ritorna su Tatooine, pianeta lontanissimo dal cuore della galassia eppure suo epicentro ideale e ideologico; e non è un caso, osservandolo sotto questo punto di vista, che le suggestioni dominanti sui suoi terreni roventi e sabbiosi provengano dal western, da sempre fondamentale all’interno di Star Wars e ancora di più in The Mandalorian, in cui assurge a ispirazione principale. Mos Pelgo è l’archetipica città di frontiera in disgrazia, diffidente e sospettosa, sempre costretta a difendersi da tutto ciò che sta all’esterno dei suoi fragili confini, patria d’elezione di diseredati, vagabondi, avventurieri e cacciatori di taglie. In virtù di ciò è del tutto logico, quindi, che proprio qui faccia la sua ricomparsa uno degli oggetti più preziosi di tutta la mitologia di Star Wars che, proprio in quanto tale, è ricolma di sacre reliquie: l’armatura di Boba Fett. Nonostante sia ormai separata dal suo legittimo proprietario, essa basta da sola a evocare una storia, che è suggerita dal racconto di come sia giunta in possesso di Cobb Vanth, fascinoso sceriffo interpretato con gusto e una buona dose di arroganza da Timothy Olyphant. Favreau sa che le grandi figure del passato non possono tornare in scena tutto d’un colpo, piombando sotto la luce dei riflettori senza un minimo di preparazione; vanno svelate poco alla volta, giocando con il pubblico, seducendolo con ogni nuovo, piccolo indizio. 

L’improvviso attacco di un gigantesco predatore – un drago krayt, che nuota nella sabbia e si abbatte sulle prede come un cataclisma – cambia nuovamente il genere di riferimento: dal western, che pure non è interamente abbandonato, si passa ora al fantasy, l’altro cardine principale su cui tutto Star Wars si impernia, che è l’habitat naturale di cavalieri erranti impegnati in coraggiose battaglie contro le forze del male. Il finale dell’episodio è una spettacolare caccia al mostro con blaster, bombe e balestre che riporta alla mente quella che si trovava al centro de Lo squalo (Jaws, Steven Spielberg, 1975); i movimenti e la ferocia della bestia non sono poi così lontani da quelli del vorace animale marino che terrorizzava le spiagge di Amity. Il richiamo si fa dichiarato nell’inquadratura che segue l’uscita del drago dalla caverna: la combinazione di carrello all’indietro e zoom in avanti – il cosiddetto Vertigo shot, perché estensivamente utilizzato da Alfred Hitchcock nell’omonimo film del 1958 – che Spielberg genialmente impiegava per sottolineare il terrore dello sceriffo Brody di fronte al temibile avversario, è citata apertamente da Favreau, pur senza esagerare. Il movimento infatti è appena accennato: una chicca per quanti riusciranno a coglierla. 

I coprotagonisti dell’ultima parte dell’episodio sono vecchissime conoscenze dell’universo di Star Wars: i sabbipodi, minacciosi predoni che infestano le grandi piane desolate di Tatooine, pronti ad avventarsi su ignari viaggiatori, poveri abitanti e sprovveduti malcapitati. Il loro corpo è nascosto addirittura più di quello dei Jawa, di cui è almeno possibile cogliere il brillio degli occhi (per quanto inquietante) e gli arti scuri e pelosi; i Tusken, seppure di forma umanoide, sono interamente celati da bende, e la posizione di occhi, naso e bocca è intuibile solamente da accessori metallici e inespressivi. La loro lingua è brusca e primitiva, una serie di suoni gutturali, stridii e grugniti alquanto sgraziata. Tutto li allontana e li separa dallo spettatore; sono resi più disumani possibile, e proprio per questo semplici da odiare. Non hanno identità né, apparentemente, sentimenti che non siano la volontà di nuocere al prossimo. Preso in considerazione tutto questo, è del tutto sensato che il compito di avvicinarli allo spettatore, di spingerci a empatizzare con essi, ricada sull’altrettanto mascherato protagonista, Din Djarin (interpretato da Pedro Pascal e da una serie di stunt man), il cui volto abbiamo potuto vedere soltanto una volta, almeno per il momento, ma che abbiamo imparato a conoscere nel corso della scorsa stagione come individuo con una sua propria storia e pieno di emozioni, spesso perfino nobili, in controtendenza con la sua veste di spietato cacciatore di taglie. È in questo ribaltamento del ruolo tipico dei sabbipodi che, ancora una volta, Favreau dimostra di aver profondamente compreso come gestire un materiale narrativo ricco e intricato come quello di Star Wars, che ha una storia quarantennale di figure, eroi e leggende; per non risultare noioso e ripetitivo il punto di vista deve rimanere dinamico e innovativo all’interno di pochi, e tuttavia molto rigorosi, limiti – che chi scrive riconosce nella precisa commistione di un certo numero di generi e archetipi cinematografici. La tradizione va rispettata e, allo stesso tempo, rimessa continuamente in discussione, rigenerata, vivificata. I sabbipodi, allora, non sono creature scolpite nel granito, sempre uguali a se stesse, ma si rivelano in grado di giocare ruoli inaspettati a seconda della situazione in cui sono calati, svelando così nuovi aspetti. L’invito alla cooperazione tra schieramenti opposti in vista del raggiungimento di un benessere comune che è alla base dell’episodio rompe con una lunga tradizione che partiva dall’assalto a Luke Skywalker in Una nuova speranza e proseguiva con la sanguinaria vendetta di Anakin ne L’attacco dei cloni, portandoci a rivedere i nostri pregiudizi e a osservare con occhi diversi personaggi ai quali eravamo abituati ad attribuire in automatico un ruolo negativo simile a quello degli indiani nei western; un cambiamento di senso ingegnoso e interessante che dà nuova linfa a quanto già stabilito, e che fa ben sperare per ciò che verrà che, stando a quanto preannunciato dall’ultima inquadratura dell’episodio, promette di andare a scavare ancora più a fondo nelle peripezie del primo mandaloriano introdotto nella galassia lontana lontana, dato per spacciato sullo schermo del cinema e ritornato dall’abisso un gran numero di volte nell’universo espanso. Jon Favreau e il suo degno compare Dave Filoni, che pare ingiusto non citare nemmeno una volta dato il suo ruolo determinante nelle sorti televisive di Star Wars, hanno le carte in regola per cimentarsi con questa sfida: solo le prossime puntate ci sapranno dire se ne usciranno vincitori o perdenti. Per ora, tuttavia, i pronostici sono a loro favore.
 
 

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