martedì 10 novembre 2020

The Mandalorian – Capitolo 10: Il passeggero

«Filler» non è mai usato in maniera troppo lusinghiera quando si parla di serie televisive; è il termine a cui si ricorre ogniqualvolta si vuole tacciare un particolare episodio di essere superfluo nell’economia complessiva della storia. Sotto un certo punto di vista Il passeggero (The Passenger in originale) potrebbe rientrare in tale definizione; almeno al momento attuale i suoi eventi non sembrano essenziali alla trama generale. Eppure non mi sembra corretto considerarlo inutile o, peggio ancora, una perdita di tempo narrativo; se ci si libera della spasmodica necessità di arrivare alla grande rivelazione che sempre si attende dalle vicende che appassionano, ci si riesce a godere il viaggio senza concentrarsi troppo sul traguardo, e ad apprezzare ciò che si incontra lungo la strada.

Sorge spontaneo mettere in correlazione la spiccata vena umoristica de Il passeggero con il suo regista, Peyton Reed, che nell’universo Marvel si sta occupando di Ant Man; la direzione è nel complesso molto pulita, forse leggermente confusionaria durante il combattimento corpo a corpo nella sequenza introduttiva, ma si tratta, ad ogni modo, di finezze di montaggio. Dove brilla, invece, è nella gestione dei tempi comici, decisamente azzeccati. Anche il comprimario principale – il passeggero del titolo – è in linea con il tono lieve dell’episodio, trattandosi di una buffa signora dalle fattezze anfibie che vorrebbe ricongiungersi al marito con il suo carico di uova, e che per riuscirci è disposta a fare un patto con il protagonista: condurlo fino al nascondiglio di alcuni mandaloriani in cambio del trasporto di sé e dei suoi futuri pargoli. A mettere i bastoni tra le ruote all’improbabile coppia e alla rispettiva prole penserà una pattuglia di X-Wing della Nuova Repubblica, per nulla intenzionata a lasciarsi sfuggire una nave vetusta e sospetta. A seguito del fallimento di ogni tentativo diplomatico di trarsi d’impaccio, ai nostri eroi non resta che la fuga; ma l’inseguimento, che dallo spazio aperto si sposta nei cieli di un pianeta ghiacciato, si conclude in modo infausto, con un rovinoso tonfo in una caverna di ghiaccio che danneggia molto gravemente la Razor Crest.

Ciò che colpisce in modo particolare durante la parte centrale dell’episodio è come al centro della scena non ci sia un solo volto umano; gli unici personaggi presenti sono infatti il Bambino (un animatronic), l’aliena (un’attrice un costume), e Din Djarin (il cui volto è sempre ed interamente coperto dal casco), dei quali, tra l’altro, solo l’ultimo parla in un linguaggio comprensibile allo spettatore. In tale scelta c’è un esotismo che nelle uscite cinematografiche di Star Wars, almeno le più recenti, spesso è mancato; nulla rende più l’idea di una galassia multiculturale come il mescolarsi di linguaggi, fattezze e idiomi diversi, popolazioni sconosciute e lontane che interagiscono tra loro e non costituiscono soltanto uno sfondo multicolore. Meritano di essere lodate, inoltre, le capacità di mimo sfoggiate da chi si trova sotto l’armatura del protagonista (sia esso Pedro Pascal o uno degli stunt man), in grado di comunicare un’emozione con un cenno del capo o un movimento del corpo, senza lasciare il compito alla sola voce, che pure è espressiva quanto più possibile.

Se la settimana scorsa la pietra miliare del cinema presa come riferimento per il finale era Lo squalo (Jaws, Steven Spielberg, 1975), ne Il passeggero la citazione più evidente rimanda a Alien (Ridley Scott, 1979); impossibile, infatti, non pensare all’inquietante apertura dell’uovo di Xenomorfo di fronte alla rottura di quello, molto più piccolo, che il Bambino incautamente disturba, mangiandone il contenuto e irritando un’intera e ben nutrita comunità di ragni giganti, aggressivamente decisi a vendicarsi per il torto subito. A risolvere la spinosa situazione, che ben presto si tramuta in un soffocante assedio, è il provvidenziale arrivo dei due piloti di X-Wing, che decidono di dare una mano e chiudere un occhio sulla partecipazione del mandaloriano all’organizzazione dell’evasione dalla nave prigione della Nuova Repubblica, mostrata nel sesto episodio della scorsa stagione, Il prigioniero, in virtù della difesa da parte di quest'ultimo del tenente Davan, avvenuta nella stessa occasione, e della sua cattura di tre pericolosi criminali. È una decisione che evidenzia, in controluce, la profonda instabilità politica della galassia nel momento storico in cui The Mandalorian è ambientato: i confini morali tra legge e crimine sono sfumati, spesso affidati all’interpretazione dei singoli che si trovano ad agire in un panorama privo di modelli universalmente accettati e che, per la sua stessa struttura spaziale, rifugge l’unitarietà, soprattutto nei quadranti dell’Orlo Esterno, immensa frontiera che perfino il dominio dell’Impero - certamente più organizzato del neonato governo repubblicano - faticava a controllare capillarmente. È la sua stessa sconfinata estensione ad incentivare continue lotte per il potere ad ogni livello, come già sottolineato, nell’episodio precedente, dal racconto di Cobb Vanth dei primi, convulsi momenti dopo l’arrivo della notizia della distruzione della seconda Morte Nera. Rispetto al gioioso finale de Il ritorno dello Jedi, che con afflati fiabeschi annunciava un «e vissero felici e contenti» duraturo e utopico, il cambiamento è decisamente significativo e forse comunicato con maggiore incisività e minor confusione che nella trilogia sequel conclusasi poco meno di un anno fa al cinema.

Non è del tutto sbagliato considerare Il passeggero come un episodio di transizione; nonostante ciò, però, non è privo di elementi di interesse, soprattutto se si osservano i dettagli. Il grande vantaggio che The Mandalorian ha rispetto ad altre opere pensate non per la televisione ma per la proiezione è che, incentrandosi su dei personaggi più periferici nella gerarchia della saga, ed essendo inoltre composto da più ore di narrazione, può permettersi di prendere tempo e respirare, di osservare i mondi e le creature che incontra, un intento che forse eredita da molte puntate delle due serie animate che l’hanno preceduta, The Clone Wars e Rebels. Ciò non si applica soltanto alle ambientazioni e ai comprimari, ma anche ai protagonisti. Durante la puntata, infatti, il rapporto tra Din Djarin e il Bambino è approfondito attraverso tante piccole interazioni che portano alla luce l’affetto e l’attaccamento reciproco, minuti tocchi di pennello che, per quanto insignificanti possano apparire se osservati da vicino, contribuiscono a costruire una storia organica e coesa. Per iniziare a vedere il quadro più da lontano e comprenderne davvero le dimensioni dovremo probabilmente aspettare i prossimi sei episodi: personalmente, poco importa, se nell’attesa si può godere di quasi un’ora di intrattenimento raccontato bene. 
 
 
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