giovedì 3 dicembre 2020

The Mandalorian – Capitolo 13: La Jedi


Scritto e diretto da Dave Filoni, La Jedi (The Jedi) introduce nella sfera del live action Ahsoka Tano, portando alla luce nel contempo tutta l’influenza del cinema giapponese nell’universo di Star Wars. A fare da riferimento principale sono due pietre miliari intimamente connesse tra loro, La sfida del samurai (Yojimbo, Akira Kurosawa, 1961) e Per un pugno di dollari (Sergio Leone, 1964), che del primo è praticamente un rifacimento non autorizzato. La struttura dell’episodio e in particolare alcuni momenti dell’ultimo atto richiamano fortemente questa coppia di pellicole, anche se è doveroso notare come sia Kurosawa che Leone facciano da riferimento ideologico ed estetico all’intera serie sin dalla sua concezione. L’ambientazione della vicenda, però, e alcuni elementi della trama suggeriscono anche ulteriori parentele

Una cittadina fortificata nel bel mezzo di una foresta devastata, governata da una signora della guerra; c’è qualcosa, in questa immagine, che richiama La principessa Mononoke (Mononoke-hime, Hayao Miyazaki, 1997). La stessa apparizione di Ahsoka, interpretata da Rosario Dawson, rafforza il paragone: l’ex-Padawan di Anakin Skywalker è una presenza cupa e misteriosa che emerge dalla nebbia e abbatte gli avversari uno ad uno, implacabilmente e velocemente. Uno spettro guerriero, come San nel film di Miyazaki – che, del resto, è stata una delle principali ispirazioni di Dave Filoni nell’ideazione della sua creatura. Quella che il mandaloriano (Pedro Pascal) si trova davanti è una persona che mostra i segni psicologici di quanto successo durante The Clone Wars e Rebels, portatrice di una conoscenza che è molto lontana dalla serena saggezza di Obi-Wan Kenobi o di Yoda, ma che invece è frutto di conquiste giornaliere sul campo, sintomo di una vita intera vissuta lottando e soffrendo in prima linea, senza cedere alle lusinghe del potere. Nelle parole e nei gesti di Ahsoka è appena nascosta una dolorosa e pensosa tristezza

La scenografia de La Jedi, in particolare per quanto riguarda la foresta, è caratterizzata da una semplicità che ha, in un certo senso, una qualità pittorica; più che uno scenario reale sembra una quinta teatrale, ma non in un’accezione negativa. È presente a più riprese un certo gusto per la composizione con punto focale centrale, geometrica, rigida come una rappresentazione sacra. Ammetto di non essere affatto un’esperta di cinema orientale, ma diverse inquadrature mi hanno ricordato l’estetica rarefazione di Kwaidan (Masaki Kobayashi, 1964). È una scelta stilistica che ben si sposa con il minimalismo della sceneggiatura e della regia, che non dice e non mostra niente di più (o pochissimo di più) di quanto necessario. Non che gli episodi precedenti perdessero tempo in chiacchiere superflue, ma nell’insieme mi erano parsi paradossalmente più rapidi e allo stesso tempo più rilassati. La Jedi, invece, pur avendo in molte parti un ritmo non troppo concitato, è animato da una tensione sotterranea che forse si nutre dell’attesa di uno scontro che è annunciato fin dalle prime battute, di cui in fondo soltanto i dettagli devono essere rivelati. Quando infine avviene, la sua gestione risponde alla stessa logica dell’essenzialità adottata in precedenza: i due conflitti paralleli – tra il mandaloriano e il mercenario (Michael Biehn), e tra Ahsoka e la signora della città (Diana Lee Inosanto) – sono collegati dal rapporto tra suono e silenzio. I due uomini, intenti a squadrarsi in quella che è a tutti gli effetti una sfida tra pistoleri, ascoltano il clamore delle armi delle due donne, impegnate invece in una lotta all’arma bianca che sostituisce le katane con un paio di spade laser e un bastone di puro Beskar. Su entrambi i fronti è comunque evidente come Filoni sappia dare la giusta importanza a tutto ciò che sta intorno al combattimento vero e proprio, e che è altrettanto se non più importante di esso: tra guerrieri esperti, del resto, è più importante prevedere e valutare l’avversario piuttosto che colpire alla cieca. 

All’interno di questo quadro complessivamente votato alla sobrietà sorge spontaneo spendere – forse anche con un certo colpevole ritardo – qualche parola sulla prova attoriale di Pedro Pascal, che di tale linea è forse l’espressione più fulgida. Din Djarin è un personaggio che scherma allo sguardo altrui non soltanto le proprie fattezze, ma anche le sue emozioni; far arrivare a chi guarda una traccia di ciò che si cela sotto la superficie è un intenso e accurato lavoro sui movimenti e sulla voce, una sintesi tra naturalezza ed astrazione tutt’altro che semplice da ottenere, dove ogni parola ed ogni gesto devono essere calcolati quel tanto necessario a superare la barriera della corazza, senza diventare forzati. Il successo dell’interpretazione è evidente: basti pensare alla penultima scena dell’episodio, dove la malinconica riluttanza del mandaloriano a lasciare il Bambino trapela da una manciata di parole, un paio di gesti e qualche pausa tra le battute, arrivando comunque con una tale chiarezza da commuovere. Al peso emotivo dell’episodio contribuisce indubbiamente anche la colonna sonora di Ludwig Göransson, che come mai prima d’ora imbastisce una ricca tela sonora di richiami a brani prelevati da altre opere del canone di Star Wars e allo stesso tempo rielabora quelli scritti appositamente per The Mandalorian fino a trasformarne completamente il significato – il tema principale, da eroico ed avventuroso qual è in partenza, si tramuta in un dolcissimo brano per flauti. 

La Jedi ovviamente si chiude con l’inizio di un altro viaggio: non può certo essere Ahsoka, tormentata dal passato e dalla terribile caduta di Anakin, ad addestrare Grogu (finalmente Baby Yoda ha un nome), nel cui attaccamento verso il proprio padre adottivo rivede l’inizio della fine del suo passato maestro. Un ultimo, misterioso sorriso, poi l’ex-apprendista si incammina nuovamente verso altre avventure, lasciando la Razor Crest e i suoi passeggeri alla loro missione.

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