domenica 20 dicembre 2020

The Mandalorian – Capitolo 16: Il salvataggio


Lo dichiaro subito, senza girarci troppo intorno, in modo da fugare fin dall'inizio qualunque ambiguità: il finale di stagione di The Mandalorian non mi ha convinto per tutta una serie di ragioni. Mi rendo conto che si tratta di un’opinione impopolare e probabilmente molto personale: proprio per questo ho deciso di usare molto più che in passato la prima persona, invece di sforzarmi di ammantare di obiettività questo articolo. Beninteso: il cambiamento è necessario a tutte le storie, è la spinta che le muove in avanti, ed era dagli ultimi sei episodi che si intuiva che una grossa modifica allo status quo era in arrivo. Il salvataggio (The Rescue) è a tutti gli effetti il culmine di questo processo; è solo che la sua realizzazione e, soprattutto, le conseguenze che porta con sé, mi hanno lasciato con più di qualche dubbio

Iniziamo dalla regia: Peyton Reed, che aveva già firmato quella de Il passeggero, fa un lavoro pulito e funzionale, ma nel complesso non particolarmente ispirato, soprattutto per quando riguarda le scene d’azione, che occupano gran parte del minutaggio. La sceneggiatura offre una grandissima varietà di armi e combattimenti: praticamente ogni situazione è possibile, eppure molto spesso la macchina da presa si accontenta di seguire la coreografia senza aggiungere molto di suo o sottolineare qualcosa con la scelta dell’inquadratura. Un po’ di camera a mano, qua e là, che comunque impatta molto poco sulla resa complessiva. Le dinamiche tra le quattro componenti del team d’assalto che prendono il ponte di comando dell’incrociatore non sono sfruttate più di tanto; alla fine, è un percorso lineare senza trovate visive di rilievo. Forse a un episodio simile avrebbe giovato un occhio più pronto a tradurre le parole sulla pagina in movimento continuo. Il duello all’arma bianca tra Din Djarin (Pedro Pascal) e Moff Gideon (Giancarlo Esposito), ampiamente anticipato, in fondo non è ripreso in modo da avere un suo carattere specifico: finisce per mescolarsi a tutto il resto senza emergere davvero come meriterebbe. Basta confrontarlo con lo scontro tra Ahsoka e il magistrato de La Jedi: si trattava ugualmente di una sequenza molto breve e dove venivano scambiate pochissime battute, ma moltissimo veniva raccontato visivamente, con le azioni dei personaggi, il sonoro e la scelta dei piani e dei tempi, ammantandolo di un’aria di ieraticità che ben si adattava all’ambientazione e ai personaggi in gioco. Ovviamente, questo non vuol dire che Il salvataggio avrebbe dovuto sottomettersi alle stesse regole, ma solo trovarne di proprie, magari più legate all’urgenza di abbattere l’avversario che a una nobile tenzone tra virtuosi. Un dettaglio che ho apprezzato molto, invece, è l’animazione a scatti del dark trooper con cui il protagonista è costretto a fare i conti, che richiama in modo molto appropriato il Terminator originale del 1984. Ciò che, in ogni caso, rimane di altissimo livello è la colonna sonora composta da Ludwig Göransson, che non si adatta semplicemente all’immagine ma la arricchisce, aggiungendo suggestioni e riferimenti. 

Passando alla sceneggiatura, l’impressione che ho avuto è che la responsabilità di inserire nella trama innumerevoli agganci alle varie altre serie che saranno prodotte nei prossimi anni abbia finito per intralciare lo sviluppo dell’arco narrativo principale. Tenere insieme in un’unica storia un gran numero di elementi differenti e destinati ad essere principalmente anticipazioni non era un compito semplice, e bisogna comunque dire che gli episodi precedenti svolgevano tutto sommato piuttosto bene il loro lavoro di collocare The Mandalorian all’interno del canone preesistente creando contemporaneamente nuovi spazi di espansione. I personaggi traghettati da altre opere, in fondo, giustificavano la loro presenza perché effettivamente utili a far progredire la storia dei protagonisti. Soprattutto, rimanevano visitatori che restavano sulla scena per un tempo limitato. È chiaro, d’altronde, che introdurre Ahsoka servisse a preparare il terreno per una sua serie, ed è indubbio che rubasse un po’ il centro della scena al protagonista, ma funzionava perché permetteva di instaurare un primo collegamento con i Jedi senza implicazioni troppo pesanti, visto che si trattava di una fuoriuscita dall’ordine che rifiutava di prendersi cura di Grogu, preferendo andare per la sua strada, lasciando libero il mandaloriano di andare per la sua e procedere quindi con il suo viaggio in autonomia. Avere inserito una pletora di personaggi all’interno dell’episodio finale, invece, finisce per creare un panorama sovrappopolato dove quasi nessuno riesce davvero ad avere il giusto spazio in un momento in cui più semplicità avrebbe invece permesso di portare a termine l’intreccio in maniera meno faticosa. Alla fine è principalmente una questione di tempistiche: era ovvio che la sottotrama legata a Bo-Katan e alla riconquista di Mandalore dovesse collidere con l’inevitabile scontro con Moff Gideon, ma inserire tutto negli ultimi minuti di un episodio il cui obiettivo principale sarebbe – almeno in teoria – risolvere, temporaneamente o definitivamente, il rapporto tra Din e Grogu finisce per creare più che altro confusione, aprendo un’altra linea narrativa incentrata sulla Spada Oscura che, per quanto interessante, non ha il tempo di essere davvero introdotta, restando un accenno sospeso nell’aria. È una difficoltà di cui ravvedo le tracce nel dialogo scritto per Moff Gideon, che è principalmente espositivo e, alla fine, poco influente, quando in realtà sarebbe il personaggio da sconfiggere, non solo sul piano tattico ma anche ideologico. Invece di lasciarlo libero di eseguire il suo compito di antagonista, la sceneggiatura gli chiede di essere colui che spiega agli spettatori e ai personaggi le implicazioni di quello che succede sulla scena, un ruolo decisamente poco interessante. Il suo destino, inoltre, come quello degli altri, rimane in bilico, perché la risoluzione del conflitto è affidata a un personaggio esterno che nulla aveva a che fare con esso, e che spezza l’azione dei personaggi principali con il suo inserimento: Luke (Mark Hamill e Max Lloyd-Jones). Ora, era molto probabile se non certa una sua apparizione, fin da quando si è iniziato a parlare di Jedi nel finale della scorsa stagione; trovo però che rendere così centrale il suo personaggio proprio in quel momento, facendone il salvatore ultimo, finisca per soffocare l’indipendenza e l’identità di The Mandalorian. Se c’è qualcosa che l’insieme dei sedici capitoli ha dimostrato è che può esistere una storia ambientata nel mondo di Star Wars che non sia necessariamente intrecciata alla saga principale o ai suoi interpreti, e che forse è addirittura meglio così, perché ciò la rende libera di esplorare ambiti e concetti differenti senza rimanere imbrigliata da quanto è venuto prima. A renderla unica era proprio il suo punto di vista ridotto, il concentrarsi emotivamente sulla formazione di una strana famiglia tra due creature che a prima vista non avrebbero potuto essere più lontane e che finivano per salvarsi a vicenda, all’interno di un’ambientazione lontana anni luce dai grandi conflitti per i destini della galassia, popolata da personaggi minori che nei film non avrebbero avuto più che una manciata di inquadrature e che invece avevano finalmente lo spazio di respirare e di raccontare la loro storia, il tutto tenuto insieme da un aspetto visivo che manteneva la nostalgia cinefila delle pellicole originali per il western e il cinema giapponese pur sapendo trovare un suo carattere definito. Era lampante che la storia di Din e Grogu non potesse andare avanti uguale a sé stessa per molto: una separazione era inevitabile e forse, sotto un certo punto di vista, anche necessaria. La scena dell’addio è indubbiamente la migliore dell’episodio; Pedro Pascal dimostra una volta di più di saper esattamente come comunicare tantissimo con molto poco, ed è ancora più vero considerando che le sue controparti sono un animatronic e la ricostruzione digitale di un attore che, per quanto accurata, non ha certo l’espressività di un volto umano. Credo, però, che avrebbe funzionato ancora meglio se non fosse stata infilata a metà tra due esigenze esterne alla narrazione, cioè la necessità da un lato di ricondurre The Mandalorian all’interno del grande disegno della saga, e dall’altro di farne contemporaneamente il punto di partenza per tutta una lista di altre storie possibili per adesso soltanto accennate. È un big bang in cui a smarrirsi è proprio l’unicità della serie: più si avvicina ai film e ai loro protagonisti, più risponde ad esigenze esterne, più perde se stessa, quando invece in un’ottica di universo espanso sarebbe fondamentale lasciare che ogni pezzo del puzzle abbia un suo carattere specifico e una dimensione sua propria. È la diversità delle singole parti, del resto, a giustificare l’esistenza di più racconti in uno stesso spazio narrativo, non l’uniformità. Se le opere finiscono per assomigliarsi, allora un buon numero non ha senso di esistere perché diventa ripetizione di quanto già visto. Considerata la quantità di serie e spin off annunciati dalla Disney, c’è solo da sperare che all’interno del team produttivo ci si ricordi di questa massima.    



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