domenica 28 febbraio 2016

Mad Max: Fury Road (George Miller, 2015)


Il minimo comun denominatore del cinema, l'elemento senza il quale non potrebbe esistere in quanto tale, è, a mio parere, l'atto di guardare un'azione su uno schermo. Parole, musica e rumori sono elementi collaterali, utili ma non imprescindibili; un film inizia ad esistere nel momento in cui una serie di immagini prende, trasferendosi dal montaggio alla mente dello spettatore, le fattezze di una storia. Il godimento giunge quando ci si perde nei fotogrammi, nell'attimo fuggevole in cui la realtà trascolora in rumore di fondo e la propria coscienza si discioglie in un ribollente agglomerato di sensazioni, prigioniera di un riquadro ed insieme liberata da esso.
Mad Max: Fury Road è un perfetto esempio di questa maniera di intendere la settima arte. 
I dialoghi che vadano oltre i monosillabi e i grugniti si contano sulle dita di una mano; la storia è, alla base, quella di una lunga fuga ad alto livello di pericolosità in una sezione di mondo devastata dal solito antefatto di guerre nucleari e scarsità di risorse. Uno dei primi generi cinematografici a stabilizzarsi, d'altronde, fin dall'epoca dei cortometraggi muti, è quello del film a inseguimenti, e potremmo tracciare, barando un po' con la storia del cinema, una linea ideale che arrivi fino al western e poi, successivamente, al cinema d'azione. L'influenza del genere western all'interno del reboot diretto e ideato dall'originario creatore e regista della serie, l'australiano George Miller, è, peraltro, più che evidente anche a chi, come la sottoscritta, abbia poca dimestichezza con indiani e cowboy, probabilmente ancora di più che nei tre film precedenti. I cavalli sono diventati meccanici, le carovane enormi mostri di metallo e benzina, il pistolero solitario si è tramutato in un cavaliere su quattro ruote, un vagabondo impegnato a scappare sia dai vivi che dai morti, catturato da un branco di malaticci esseri umani con un trucco facciale simile a quello dei Thug di Indiana Jones e il tempio maledetto (Indiana Jones and the Temple of Doom, Steven Spielberg, 1984), sudditi di un tiranno dal grugno animalesco, custode dell'acqua e, di conseguenza, dei destini dei suoi sottoposti. L'immane meccanismo sopra il quale si erge la sua reggia, azionato a forza di braccia, ricorda, forse non per caso, le grandi macchine di Metropolis (Fritz Lang, 1927).


Tutto è nelle immagini. Conosciamo i personaggi con gli occhi, analizzando il loro corpo, i vestiti che portano, le armi che usano. Gli attori recitano più con il corpo che con le battute, Max (Tom Hardy) e Furiosa (Charlize Theron) sono iconici, disegnati più che scritti. Immortan Joe (Hugh Keays-Byrne) non ha bisogno di aprire bocca per farsi identificare come antagonista, e gli angelici veli bianchi delle sue giovani mogli valgono più di ogni altra caratterizzazione. Il personaggio di Nux (Nicholas Hoult) delinea, tramite la sua persona e le sue farneticazioni, i contorni del folle universo che ruota attorno alla Cittadella, la sua folle mitologia post-apocalittica, un culto che ricostruiamo tramite frammenti sparsi e per questo ancora più affascinante. 


Tutto è letteralmente esposto nelle luci e nelle ombre delle inquadrature. La fotografia è splendida, brillante, nitida, contrastata: una presa di distanza dalla tendenza di tanto cinema moderno ad affidarsi a toni spenti. A grandi esplosioni corrispondono altrettanto grandi eruzioni di colore. Le scene in notturna, girate nel sole cocente del deserto namibiano e poi elaborate in post-produzione, hanno un piacevole retrogusto di tintura da film muto, il loro blu è tanto innaturale quanto attraente. Il montaggio è un motore al massimo dei giri, sfreccia al limite sfidando la sensibilità dei nostri nervi ottici, una tempesta controllata e che riesce a non scivolare mai nella gratuità, come pure sarebbe facile fare considerata la freneticità degli eventi, rendendo ogni sezione della lunga corsa allettante per la vista. 


Pare che George Miller abbia espressamente voluto una donna al montaggio, Margaret Sixel, per evitare che Mad Max: Fury Road finisse per sembrare come ogni altro film d'azione. La componente femminile (e anche parecchio femminista) della vicenda narrata è degna di nota: raramente ci è capitato di vedere una tribù di amazzoni priva dei soliti stereotipi che le donne si trovano a dover subire in certo cinema. Non ci scorderemo tanto presto l'anziana cecchina. Anche le (ex)mogli di Immortan Joe evitano il rischio di diventare dei bellissimi e vuoti mezzi per portare avanti la trama e, seppure inizialmente in balia degli eventi, dimostrano con il tempo di essere in grado di battersi per la loro libertà. L'imperatrice Furiosa ha tutti gli elementi per poter essere paragonata ad una Sarah Connor o ad una Ripley, il che è ovviamente un gran pregio. «Ammirami» esclamano i Figli della Guerra prima di sacrificarsi per il loro signore, e noi docilmente obbediamo, risucchiati dentro un grandioso spettacolo di fuoco, sabbia, benzina, metallo e gomma. Che vinca o meno uno o più Oscar, Mad Max: Fury Road volerà in eterno, fiammante e cromato.

C'era un solo modo per terminare questa recensione...

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